Salve a tutti xD no, non sono morta, non ancora… so
che è tantissimo che non pubblico un nuovo capitolo di TEWoM, per questo ora vi
allieterò con altro xD
Ho scritto queste trenta pagine di fic per un
concorso (e sono arrivata seconda pari merito, uhuh ^w^) in un impeto di masochismo. È divisa in tre parti, ne
posterò una a settimana.
Per chi stesse leggendo TEWoM… è spoiler. Molto. Troppo.
Pur essendo ambientata in un altro mondo xD
Ma dato che TEWoM di ‘sto passo non la finirò mai e
questa storiella è caruccia… ecco a voi.
E speriamo che il Caos non me ne voglia xD
~PARTE I~
«Batuffolo sta male».
Il bambino allungò le dita paffute fra le sbarre delle gabbietta,
sfiorando il pelo bianco e morbido del coniglio.
Il corpicino rotondo scosso da spasmi, Batuffolo non diede segno d’aver
percepito il contatto.
«Batuffolo sta male», ripeté il bambino «Mamma, perché fa così?».
«Dopo lo portiamo dal dottore, Till», lo rassicurò la donna,
passandogli una mano fra i capelli scuri «Vieni, siamo in ritardo».
Till girò attorno al tavolino su cui stava la gabbietta, in modo da
poter fissare gli occhi rossi di Batuffolo. Erano chiusi.
«Non avere paura», rassicurò il coniglio «Torno fra poco».
Batuffolo continuò a tremare.
Batuffolo tremò tutto il giorno successivo, e tremava ancora quando il
veterinario lo esaminò.
Tremava fra le braccia di Till, la sera dopo la visita, e il bambino lo
confortava con carezze impacciate.
Sua madre lo raggiunse e gli si sedette accanto, sul divano.
«Mamma» la voce di Till tremò «Perché Batuffolo non guarisce?».
«Tesoro mio…».
La donna lo abbracciò con delicatezza, e con l’altra mano carezzò il
coniglio.
«Batuffolo sta male, tanto male».
«Ma ci sono le medicine».
«Sta troppo male per guarire, tesoro mio. E soffre molto».
Till sollevò di scatto la testa, puntando le iridi color pece in quelle
scure della madre.
«No!», esclamò «Le medicine funzionano sempre!».
«In questo caso no, piccolo mio. L’unica cosa-».
«E se prego la Trinità di guarire Batuffolo?», la interruppe, tornando
a fissare il coniglio.
«La Trinità è troppo impegnata a proteggerci tutti. Non ha tempo per
curare gli animali».
La donna baciò la fronte del bambino e gli alzò delicatamente il capo,
in modo da vederlo in viso.
«L’unica cosa che possiamo fare per Batuffolo… è far sì che non soffra
più così tanto».
«E come?».
«Il dottore gli farà una piccola puntura e Batuffolo si… addormenterà
per sempre. Vedrai come sarà felice nello Heva dei conigli!».
«Ma io non voglio!», strillò Till, gli occhi pieni di lacrime «Io gli
voglio bene! Non voglio che muoia!».
«Till, tesoro mio…» la donna sorrise e gli carezzò i capelli «È appunto
perché lo ami che devi farlo. Non vuoi che stia male, no?».
«No che non voglio! Però…».
Till tirò su col naso ed osservò il coniglio.
«È il regalo migliore che puoi fargli. Davvero».
«Devo ucciderlo perché lo amo», borbottò Till, confuso «Mi sembra così
strano, mamma».
La donna non rispose. Si limitò a baciargli una guancia.
Aaron odiava la linea autobus
6b. Oltre a lasciarlo a più di mezzo chilometro da scuola – mezzo chilometro terribile per il suo ginocchio destro – lo costringeva ad un percorso obbligato.
Doveva passare davanti all’Achre, e lui odiava l’Achre.
Al di là dell’alto muro di
cinta, l’imponente edificio cubico svettava contro il cielo grigio, silenzioso.
Aaron alzò lo sguardo verso le
piccole finestre del lato posteriore, cercando di scorgere un qualche
movimento, ma non vide assolutamente niente.
Rabbrividì, e sollevò il
colletto della felpa a coprirsi il mento.
Tutta quella immobilità era
inquietante. Non si avvertiva nemmeno un uccellino, nonostante l’edifico fosse
circondato da un vasto giardino.
«Chissà come sta Zane»,
borbottò, ed avvertì un brivido freddo percorrergli la colonna vertebrale.
Odiava l’Achre perché bastava la sua vista a riportargli in mente suo
fratello, nonostante tutti gli sforzi che faceva per non pensare a lui.
Riprese a camminare a passo
spedito, ma non aveva percorso che quattro o cinque metri quando il ginocchio
gli cedette.
Cadde sull’asfalto con un gemito,
e rimase a terra per un paio di minuti.
«Ginocchio di merda!», sbottò.
Ora era costretto ad aspettare che il dolore gli passasse.
Sarebbe arrivato in ritardo,
sicuro.
«Schiacci un pisolino?»,
chiese una voce acuta sopra di lui, e Aaron alzò gli occhi azzurri verso la
sommità del muro. Le iridi nere di un ragazzo dai capelli bianchi ricambiarono
lo sguardo.
Aaron si sentì immediatamente
di malumore.
Capelli bianchi, quindi
Sacerdote della Trinità.
L’altro motivo per cui odiava
l’Achre era perché odiava i Sacerdoti
e loro vivevano lì.
«Il gatto ti ha mangiato la
lingua?», chiese ancora il ragazzo, dopo qualche secondo di silenzio.
Aaron lo fulminò con lo
sguardo. Il ginocchio gli doleva ancora, ma piuttosto che stare in presenza di
un Sacerdote si sforzò di rimettersi in piedi. Provò allora un passo, ma il
dolore che avvertì poggiando il piede fu tanto intenso da mozzargli il respiro
e costringerlo a sostenersi al muro.
Il muro. Doveva essere alto
tre, forse quattro metri.
Alzò lo sguardo di scatto, verso
il ragazzo che lo fissava incuriosito.
«Sei su una scala?», gli
chiese, e questi rise e scosse la testa.
«Magiiia», aggiunse, e gli
rivolse un sorriso enigmatico «Come ti chiami?».
«Non si dà confidenza agli
estranei».
«Carino. E il cognome?».
«Ma che spiritoso…», sbuffò
Aaron. Si lasciò scivolare a terra e massaggiò il ginocchio dolorante.
«Aaron Reid»,
gli rispose «Tu, invece?».
«Non si dà confidenza agli
estranei!», ribatté il ragazzo, e rise di nuovo «Scherzo. Mi chiamo Till».
«Dimmi una cosa, Till. Conosci
un ragazzo di nome Zane Reid? Dovrebbe avere…
diciannove anni, ora».
«È un tuo parente?».
«Mio fratello».
Till ci pensò su qualche
istante.
«No, mai sentito».
«Ciao».
Till volse lo sguardo verso il bambino che sedeva accanto a lui, nella
piccola stanza azzurrina.
«Parli con me?», gli chiese, e lui annuì.
Aveva folti capelli castani appena mossi e occhi color del mare, e Till
decise che quel bambino gli piaceva.
Gli altri bambini presenti – almeno una trentina – facevano un gran
chiasso, e dovette alzare la voce per farsi sentire.
«Ciao! Tu chi sei?».
«Mi chiamo Zane. Tu?».
«Till», rispose, ed allungò una manina. Zane gliela strinse e gli
sorrise.
«Peccato», borbottò Aaron. Si
passò una mano fra i capelli color pece e chiuse gli occhi, tentando di rilassarsi.
Erano anni che non sentiva
Zane. Continuava a sperare che fosse vivo e in salute, ma non ne avrebbe mai
avuta la certezza.
I Sacerdoti non lasciavano
trapelare informazioni, mai. Nemmeno
ai familiari.
«Posso provare a chiedere in
giro, se ti va», disse Till «Anche se sono solo un novizio, non mi dicono mai
molto».
Aaron lo ringraziò con un
gesto del capo, e rimasero entrambi in silenzio per diversi minuti.
«Dove vai di bello?», gli
chiese infine Till, issandosi sul muretto e sedendovisi
sopra «Scuola?».
«In teoria. Stupido ginocchio».
«Hai già fatto colazione?».
Aaron alzò lo sguardo,
perplesso «Non ancora. Perché?».
«C’è una caffetteria carina,
dietro l’angolo. Ti va di farmi compagnia? Offro io».
Prima che gli giungesse una
risposta, Till batté una mano sul lato esterno del muro. Al suo tocco
comparvero delle sporgenze, come degli scalini, e le sfruttò per scendere.
«Credevo che voi Sacerdoti
poteste abbandonare l’Achre solo per
le funzioni religiose e le emergenze», osservò Aaron, e Till gli sorrise
candidamente.
«La mensa dei novizi fa
schifo. Questa è un’emergenza», gli
rispose, coprendosi i capelli col cappuccio della felpa grigia che indossava.
Ora che lo vedeva da vicino,
Aaron poté constatare che Till aveva tratti insoliti. Insolitamente androgini,
come un po’ tutti i Sacerdoti. Sua sorella l’avrebbe trovato bello, forse.
«Allora? Vieni con me o giochi
al barbone ancora un po’?».
«Perché no?», sorrise Aaron, e
si alzò in piedi.
Il ginocchio gli faceva ora un
po’ meno male.
«Che hai fatto alla gamba?»,
gli chiese Till non appena si furono seduti ad un tavolino in un angolo ed
ebbero ordinato.
L’interno della caffetteria
era deliziosamente caldo ed accogliente; Aaron si sentì confortato.
«Mi sono rotto il ginocchio»,
gli rispose, scrollando le spalle «Due anni fa. Un incidente. Quando il tempo è
brutto mi fa male».
«Capisco», annuì Till.
Incrociò le dita sotto al mento e gli sorrise.
Aaron distolse lo sguardo,
imbarazzato.
«Ma dimmi qualcosa su di te»,
disse, cercando di sciogliere la tensione che avvertiva «Da quant’è che vivi
nell’Achre? Quanto ti manca per
diventare Sacerdote?».
«Faccio i vent’anni fra
qualche mese», rispose Till, alzando gli occhi a fissare il soffitto, e Aaron
pensò che vent’anni non li dimostrava.
E che anche Zane avrebbe compiuto
vent’anni nel giro di un paio di mesi.
«E sono entrato nei novizi aaa… sette anni, mi pare».
«Anche Zane», borbottò Aaron
perplesso «Sei sicuro di non conoscerlo?».
Till annuì «Sono l’unico della
mia età. Magari l’hanno trasferito in un’altra città».
«Ti manca la tua famiglia?», gli chiese Zane, rivolgendogli un sorriso
dolce.
«Mamma non era tanto triste», rispose Till, e lanciò uno sguardo cupido
al peluche a forma di gatto che l’altro bambino stringeva tra le braccia «Quando
papà è andato via è diventata strana. Mi manca la mamma di prima».
«Oh», borbottò Zane. Come sentendosi in colpa, si grattò la testa e gli
porse l’animale di pezza «Tieni. Tanto io sono grande per questi».
Till lo ringraziò con un sorriso luminoso «Quanti anni hai?».
«Sette».
«Anch’io».
Si voltarono entrambi ad osservare gli altri bambini, intenti a
rincorrersi o a chiacchierare.
«Mi spiace», disse Till, e
rivolse ad Aaron un sorriso gentile.
«E a te manca la tua famiglia?».
«Mamma e papà sì. Mio fratello e mia sorella per niente, piangevano
tutto il tempo! Mio fratello, in particolare, che scatole mi faceva sempre!
Voleva giocare con me ma ogni volta si faceva male!».
«Dev’essere bello avere dei fratelli», commentò Till, ma Zane dissentì
scuotendo la testa.
«Non quanto credi».
Aaron scrollò le spalle «Non
importa».
In quel momento arrivò la
cameriera, che posò sul tavolo due tazze di the ed una brioche. Till afferrò la
pasta e cominciò a mangiarla a piccoli morsi.
«Come mai mi hai offerto la
colazione?», chiese Aaron, soffiando sul the per raffreddarlo.
Till si leccò le dita sporche
di marmellata e gli sorrise.
«Così», disse, facendo
spallucce «Mi piace parlare con qualcuno della mia età, di tanto in tanto. Il
più vecchio fra i novizi ha undici anni, e i Sacerdoti vivono in un’altra ala»
scosse la testa «È una noia».
Bevvero poi le loro bevande,
in silenzio.
Aaron finse di concentrarsi
sul the, ma in realtà di tanto in tanto lanciava qualche occhiata all’altro
ragazzo.
Poter parlare con un Sacerdote
– o, per lo meno, con qualcuno destinato a diventarlo a breve – era
un’occasione unica, visto che i loro rapporti col mondo esterno erano ridotti
al minimo.
Sarebbe stato un peccato
sprecarla, chissà quando gli sarebbe ricapita–
«Facciamo così», disse
improvvisamente Till, interrompendo i suoi pensieri «Se il ginocchio non ti fa
male, fai questa strada anche domani. E il giorno dopo, se non mi vedi, c’è il
caso che mi mettano in punizione. Io mi informerò su tuo fratello, va bene?».
Il viso di Aaron si illuminò
«Sarebbe… perfetto».
«Così possiamo chiacchierare
ancora».
Till gli sorrise dolcemente, e
si cacciò in bocca lo spicchio di limone che giaceva sul fondo della tazza.
Posò poi i soldi sul tavolo e si alzò in piedi.
«È stato un piacere
conoscerti, Aaron Reid», lo salutò, e si avviò fuori
dal locale.
Aaron rimase seduto ancora
qualche istante, a riflettere.
Che botta di culo stratosferica, pensò, ma gli sovvenne poi che un
colpo di fortuna ogni tanto lo si poteva anche avere.
«Cosa leggi?».
Zane alzò lo sguardo dal libro che teneva poggiato sulle ginocchia «Un
mito. Vuoi leggere anche tu?».
Till lo raggiunse e gli si sedette accanto, sul tappeto al centro della
camera di Zane.
Osservò le pagine per qualche secondo, poi scosse la testa. Non c’erano
libri per bimbi, all’interno dell’Achre, e tutte quelle parole gli sembravano
molto complicate.
«Faccio fatica», pigolò, ma Zane, invece di deriderlo come si
aspettava, gli sorrise e mise il libro in mezzo.
«Allora segui il mio dito, leggo anche per te».
Si schiarì la voce con un colpetto di tosse, poi indicò con l’indice un
punto in mezzo alla pagina e cominciò: «“Per tre giorni e tre notti, senza
concedersi riposo, Mahadev, la Vista, girò il mondo alla ricerca del Caos. I
suoi occhi erano migliori di quelli del più acuto dei falchi, eppure Esso
continuava a sfuggirgli. E Mahadev, la Vista, si sentiva sempre più stanco, e
sempre più stanco avanzava per il mondo. Finché, all’alba del quarto giorno,
sua sorella Izdihaar, la Mente, ebbe compassione di lui e lo soccorse. Ripresero
il cammino uniti, e passarono altre tre notti ed altri tre giorni” –».
«Aspetta!», lo interruppe Till, illuminandosi «Ho capito! È quello di
cui ha parlato il maestro di dottrina l’altro giorno, vero? Quello in cui il
Caos uccide tutti gli Dei ma poi la Trinità lo ferma e lo caccia dal mondo?».
Zane annuì «Era una delle storie preferite da mio fratello. Ormai la so
a memoria. Vuoi sentire la parte che mi piace di più?».
«Qual è?».
Zane scorse velocemente le pagine, finché non trovò quella che cercava
«Eccola! È quando il Caos si mostra alla Trinità. In genere a questo punto mio
fratello si metteva a piangere».
«“Quando ritrasse la spada, Chlomo, lo Spirito, nonostante il coraggio
fosse il suo miglior pregio, non poté che tremare come una foglia scossa dal
vento. L’armatura di tenebra del Caos si crepò, frantumò ed infine dissolse,
cadendo al suolo come sabbia scura. E finalmente il Caos si rivelò nel suo
essere, e gli occhi di Mahadev, la Vista, rimasero abbagliati, e la ragione di
Izdihaar, la Mente, si oscurò, e la forza di Chlomo, lo Spirito, si affievolì.
Il Caos sorrise, e i suoi denti aguzzi come lame scintillarono sotto il
sole. La sua carnagione era chiara, come se mai avesse visto la luce, simile
quasi a quella dei morti, e i suoi occhi due orbite vuote, dentro cui potevano
scorgersi i segreti del Tutto.
Ma i suoi capelli, i suoi capelli! Fili di seta del colore del cielo”».
«Del colore del cielo…», ripeté Till, assaporando lentamente le parole
«Ma del cielo con il bel tempo o con le nuvole?».
Zane scoppiò a ridere.
«Bel tempo, credo».
«Non capisco perché fa un giro di parole così per dire solo che ha i
capelli azzurri», osservò Till crucciato, e Zane rise di nuovo.
Capelli azzurri… certo che dovevano essere belli.
Osservò i capelli di Zane. All’inizio credevano entrambi che le
esposizioni al Potere della Trinità non avessero effetto, ma dopo un anno
potevano scorgere i primi cambiamenti fisici.
I loro capelli stavano lentamente diventando bianchi, come il pelo di
Batuffolo.
«Lo sai che il Caos ha i
capelli azzurri?».
Aaron alzò lo sguardo verso
Till, disteso sul muro dell’Achre con
un braccio a penzoloni.
«Cosa c’entra?».
Till si strinse nelle spalle
«Niente, era per fare conversazione».
Si issò a sedere e si voltò
verso l’altro, che lo osservava perplesso.
«Com’è andata la scuola,
ieri?».
«Benissimo. Tu ti sei fatto
beccare?».
«Può darsi, ma me le fanno
sempre passare», rispose Till con sufficienza. Si guardò poi attorno e qualcosa
parve disturbarlo, perché sul suo volto comparve un’espressione crucciata.
«Dato che potrebbe vederci
qualcuno, facciamo così. A che ora esci da scuola?».
«Alle due».
«Benissimo. Torna qui, così ti
faccio entrare e chiacchieriamo con tutta calma, ok?».
«Ma io non voglio entrare
nell’Achre!», esclamò Aaron sgranando
gli occhi «Questo posto mi fa schifo! E mi fate schifo pure voi Sacerdoti».
«Quanto sei prevenuto»,
borbottò Till, poi gli sorrise.
Aaron sentì cedere parte delle
proprie convinzioni, davanti a quel sorriso. Era tanto ingenuo, dolce,
delicato…
A me non piacciono i maschi, osservò mentalmente, e questa
constatazione lo riscosse.
«Ho informazioni su Zane»,
disse Till, e scomparve dietro il muro con uno scatto fulmineo.
Impietrito, Aaron non riuscì
neanche ad offenderlo.
Till aprì la porta della propria stanza lentamente e mise fuori la
testa, circospetto.
Il lungo corridoio era vuoto e silenzioso, illuminato solo dalla debole
luce della luna che entrava dalla finestrella in fondo. Insomma, non vedeva
niente.
Si lanciò qualche altra occhiata attorno, poi uscì e richiuse
attentamente la porta. Camminando rasente il muro, lasciò scivolare la mano
all’altezza delle maniglie e alla quarta si fermò.
Aprì allora la porta con delicatezza e si intrufolò nella stanza.
«Zane?», squittì, stringendo le braccine al petto.
Avrebbe voluto un peluche, da abbracciare, ma non era loro permesso
avere giocattoli.
Raggiunse velocemente il letto di Zane e vi si affiancò, mentre lui si
tirava su a sedere e si stropicciava gli occhi.
«Ho paura», disse Till, gli occhi pieni di lacrime. Zane gli sorrise e
gli fece posto, invitandolo sotto le coperte.
«Come fai ad essere così rilassato, tu?».
Zane tirò su il piumone in modo da coprirli entrambi.
«Non lo sono», gli rispose, lasciando scappare una risatina nervosa «È
che cerco di non pensarci».
«Io non voglio fare l’operazione!», piagnucolò Till. Si strofinò un
braccio sugli occhi bagnati ed aggiunse: «Non voglio, è una brutta cosa!».
«Non preoccuparti troppo», tentò di rassicurarlo Zane «Tocca a tutti.
Non sentirai niente».
Gli passò un braccio attorno alla vita e lo trasse a sé.
«Io non smetterò certo di volerti bene».
«Nemmeno io!», si affrettò a precisare Till. Si accoccolò poi contro di
lui e lo abbracciò, ed immediatamente si sentì confortato.
Non c’era nulla che doveva spaventarlo. Zane ci sarebbe stato sempre.
«Non lasciarmi mai», lo implorò, sollevando il capo per fissarlo negli
occhi.
Zane gli sorrise.
«Non lo farò finché non sarai tu a lasciarmi».
La matita scivolò di mano ad
Aaron, rotolando sotto la sedia della sua compagna di banco.
Quando suo fratello era stato
scelto per diventare Sacerdote lui aveva solo cinque anni, quindi non lo
ricordava molto bene, ma c’erano tre cose di Zane che non aveva dimenticato:
che amava il personaggio del Caos, nei miti della Trinità, che adorava un po’
troppo i peluche e che aveva un modo tutto suo di sorridere – e sorrideva pure
un sacco.
Ecco, all’improvviso gli era
venuto spontaneo sovrapporre i sorrisi di suo fratello a quelli di Till.
Si chinò a raccogliere la
matita e si premurò pure di lanciare una lunga occhiata al sedere della compagna
di banco, lasciato semiscoperto dai jeans a vita bassa.
No, decisamente i maschi non mi piacciono.
I sorrisi di Till gli
ricordavano quelli di Zane, ecco perché lo scioglievano.
Sospirò sollevato.
Ora aveva tutto un senso!
«Till?».
«Dimmi».
«Hai visto che qui non c’è neanche una bambina?».
Till aprì gli occhi, e si ritrovò a fissare quelli azzurri di Zane. La
luce era sì poca, ma bastava per illuminarli.
«Credi sia per via dell’operazione?».
Zane si strinse nelle spalle «Forse. Non ti rattrista pensare che non
avrai mai una fidanzatina?».
«E che me ne faccio?», sbottò Till serio «Le donne fanno solo guai.
Finché siamo solo io e te è meglio. E poi…».
Fece una breve pausa, tornando a chiudere gli occhi.
«Io voglio stare con te. Ti ho mai detto che avevo un coniglio che si
chiamava Batuffolo?».
«Sì», rispose Zane, con un tono di voce insolitamente basso «Ma
raccontamelo di nuovo, mi piace la storia del tuo coniglio».
E gli posò un lieve bacio sulla fronte.
«Io non voglio entrare», si oppose
debolmente Aaron.
Till aveva già fatto apparire
gli scalini e lo fissava con aria ingenua, dall’alto del muro.
«Non voglio».
«Quanti anni hai, cinque?»,
borbottò il novizio «Fa come ti pare. O entri o non ti dico niente», e
scomparve dal campo visivo di Aaron.
Il ragazzo sospirò.
«Che palle, non vale», sbottò,
e s’arrampicò. Dall’altra parte del muro trovò una scala a pioli.
«Ma allora ce l’avevi sul
serio la scala!».
Till, seduto a terra con la
schiena contro i mattoni, gli rivolse un sorriso divertito.
«Cosa stai scrivendo?», chiese Till, sbirciando da sopra la spalla di
Zane. Tentò per qualche secondo di decifrare l’orribile grafia dell’amico, ma
non riuscì a cogliere che qualche parola qua e là «Certo che scrivi proprio da
schifo, eh».
Zane gli fece una linguaccia. Si guardò poi attorno, scrutando il resto
della biblioteca, e Till lo imitò.
«Non c’è nessuno», lo rassicurò «Cosa scrivi?».
«Una lettera».
Till inarcò un sopracciglio, perplesso «Ma non ce le fanno spedire».
«Troverò un modo per farla uscire da qui», replicò Zane, e si strinse
nelle spalle.
Aaron scese velocemente i
pioli, lanciandosi attorno qualche occhiata furtiva.
Il giardino che circondava l’Achre non era poi così grande come
sembrava da fuori.
«Cazzo, se mi beccano qua
dentro mi arrestano!», sbottò, ma Till gli fece segno di sedersi accanto a lui.
«Non esce mai nessuno, non
preoccuparti. E poi, al massimo...».
Gli rivolse un sorriso fra il
malizioso e il divertito, ma Aaron lo trovò agghiacciante.
Ci sta provando. Ci sta provando veramente.
«Non mi piacciono i maschi»,
si sentì in dovere di puntualizzare, e Till rise.
«Perché ridi?».
«Perché il problema non
sussiste».
Sollevato, Aaron si diede
mentalmente dello stupido. Non doveva esagerare, se Till non aveva mai a che
fare con suoi coetanei era logico che si comportasse in maniera strana.
Era logico, sì.
Logicissimo.
«Bene, ora dimmi ciò che hai
scoperto che me ne vado», disse, dopo essersi auto-convinto che era tutto
normale e razionale «Questo posto mi fa venire la pelle d’oca».
E pure tu, aggiunse mentalmente, ma preferì tacere.
Till raccolse le ginocchia al
petto e tacque qualche istante, prima di parlare.
«Ho sbirciato negli archivi»,
disse, fissando l’erba che cominciava a rinverdire «Ho trovato qualche traccia
di un certo Zane, ma ignoro se si tratti di tuo fratello o meno. E comunque...
tutte le notizie si interrompono all’incirca sette anni fa».
«Sette anni fa? Significa che
è-».
«Morto?», lo precedette Till
«Non ne ho idea. È possibile che lo abbiano trasferito. Qui nell’Achre di Meena
c’è un tale via vai di persone...! Magari si trova in una delle province qui
accanto».
Aaron scosse la testa. Non
sapeva che fare, se sperare che il fratello fosse vivo o accettare che
probabilmente era morto.
Quel che era certo era che non
l’avrebbe più rivisto.
«Ma com’è possibile che tu non
l’abbia mai conosciuto? Ne sei sicuro?».
Till si strinse nelle spalle
«Magari l’ho dimenticato».
Zane aprì con le forbici la copertina di tessuto ruvido del libro su
uno dei bordi, vi infilò dentro la lettera e poi richiuse il taglio con la
colla.
Till osservò attentamente l’operazione seduto sul letto dell’amico, sul
viso un misto fra eccitazione e scetticismo.
«Non funzionerà», gli disse, scuotendo la testa.
«Io dico di sì», replicò Zane. Attese qualche istante e rimise al libro
la sovraccoperta «Ecco! Ti sfido a notare la differenza!».
«E ora? Come la farai avere alla tua famiglia?».
«Ci penserò. Intanto sono sicuro che anche se ci faranno il lavaggio
del cervello non dimenticheremo niente».
Till sospirò «Di certo l’operazione non rischiamo di dimenticarla».
Zane poggiò il libro sulla scrivania e raggiunse l’amico sul letto,
sedendoglisi accanto.
«Mancano venti mesi alla Prima Cerimonia», disse con un tono di voce
più basso del solito. Till ormai aveva imparato ad interpretarlo, significava
che Zane era vicino al pianto.
«Sono tanti».
Zane sorrise e gli accarezzò i capelli «Passeranno anche troppo in
fretta. E se poi...».
Lasciò cadere la frase, e Till non volle concludere il discorso. Era
meglio così, non pensarci.
«Till?».
«Mh?».
Si fissarono qualche istante negli occhi, finché Zane non distolse lo
sguardo e saltò giù dal letto.
«Non importa. Accompagnami in biblioteca».
«C’è altro?», chiese Aaron,
impaziente di andarsene da lì «Rischio di perdere l’autobus».
«No», sospirò Till. Sembrava
quasi dispiaciuto.
«Bene, allora vado. Mi fai
riapparire i gradini?».
Till batté una mano sul muretto,
e Aaron risalì la scala a pioli. Giunto in cima rimase fermo qualche secondo,
saggiando le condizioni del ginocchio. Se gli avesse ceduto mentre scendeva per
quegli strani gradini…
Mentre rifletteva, un gatto
dal pelo bianchissimo gli si avvicinò e lo salutò con un miagolio.
«Ciao, micio», disse Aaron, e
rispose al saluto del felino con una grattatina sulla
testa. Si voltò poi verso Till, ed aggiunse: «Senti, grazie per quel poco che
hai scoperto. Non è tanto, maa… meglio di niente».
«Figurati».
Aaron fece al gatto un’altra
carezza, poi scese. Appena i suoi piedi ebbero toccato terra, notò che Till era
tornato sul muretto.
Per guardarlo?
Perché mi guarda?
«Allora, ehm… ciao».
Mosse un passo, ma la voce
chiara di Till lo richiamò.
«Aaron?».
Il ragazzo si voltò «Sì?».
«Perché non passi di qui anche
nei prossimi giorni? Potremmo… fare due chiacchiere».
Aaron rimase in silenzio, non
riuscendo a capire se Till ci stesse provando sul serio o si sentisse soltanto
molto solo.
Lo scrutò per qualche secondo
e decise che sì, doveva essere la seconda. E doveva smettere di farsi trip
mentali inutili.
Till non ci stava provando.
No.
«Fra quanti mesi diventerai
sacerdote?», gli chiese, e l’altro alzò cinque dita.
Allora Aaron sorrise e si
strinse nelle spalle «Beh, perché no? Ci vediamo, allora. Ciao, micio».
Lo salutò con un gesto della
mano e si allontanò.
Che palle, sono troppo buono, pensò mentre voltava l’angolo, Dovrei farmi dare lezioni di stronzaggine da
mia sorella.
«“Perché non passi nei
prossimi giorni”?», ripeté il gatto, emettendo poi un suono simile ad una
risata sommessa.
Till si voltò verso l’animale,
sgranando gli occhi.
«Till, Till» con eleganza, il
felino si leccò placido una zampa e se la passò sul musetto. Aprì poi gli
occhietti e fissò le iridi grigie in quelle color pece del ragazzo «Ma che
combini?».
Till corrucciò la fronte e
distolse lo sguardo, senza rispondere.
La porta si aprì senza il minimo rumore, e Till scivolò silenzioso
nella stanza.
Seduto alla scrivania, l’ingresso alle spalle, Zane canticchiava fra sé
e sé a mezza voce; o ciò su cui stava pastrocchiando
– aveva una scatola di pastelli a portata di mano – lo distraeva o Till era
diventato più abile nel non farsi sentire, non si accorse della presenza
dell’amico finché questi non gli coprì gli occhi con le mani.
«Buh!».
«Till!», esclamò Zane. Si liberò dalla presa e si voltò verso l’altro,
avvampando «Che… che ci fai qui?».
«Il maestro di matematica è caduto e si è rotto una gamba, quindi
niente ripetizioni oggi. Che fai di bello?».
«Niente!», strillò Zane, e si affrettò ad infilare i fogli in un
cassetto «Niente, niente!».
Till lo squadrò, perplesso dalla reazione.
«Stai male? Che disegnavi?», gli chiese, e tentò di aprire il cassetto.
Con sua grande sorpresa, Zane glielo impedì.
«Cosa fai?», sbottò Till, infastidito dal gesto «Non devono esserci
segreti fra noi, no?».
«Sì, però–»,
tentò di ribattere Zane, ma l’altro lo ignorò.
Tirò allora fuori un pacco di fogli disegnati – o meglio scarabocchiati
– e lanciò all’amico un’occhiata interrogativa.
«Cosa non dovevo vedere?», gli chiese «Questo di te e tuo fratello che
giocate a palla?».
Ridacchiò e passò a quello dopo.
Rappresentava due bambini dai capelli a chiazze che si tenevano per
mano.
«Questi siamo noi, direi», disse divertito lanciando uno sguardo alla
capigliatura di Zane, ormai castana a ciocche bianche. Si soffiò via un ciuffo
di capelli dagli occhi e passò al disegno successivo.
Zane si coprì gli occhi con una mano.
«Questo…» Till avvertì lo stomaco fargli una capriola ed alzò gli occhi
verso l’amico «Siamo sempre io e te?».
Mentre gliela porgeva, non poté che sentirsi disgustato dall’inutilità
di quella domanda. Certo che erano loro, con capelli simili.
Tornò a fissare il piccolo Zane del disegno, che dava un bacetto al
piccolo Till. Ma non un bacio sulla fronte o sulle guance, come quelli che gli
dava la mattina per salutarlo o la sera per augurargli la buonanotte; era un
bacio sulle labbra, di quelli che si danno i grandi.
Till rimase in silenzio, la mente che saltava da un pensiero sconnesso
all’altro ed una strana sensazione allo stomaco.
Gli sembrava quasi una di quelle storie che leggeva prima di
addormentarsi.
Sorrise, ed osservò Zane di sottecchi. Ancora si copriva la faccia,
paonazzo.
«Zane», lo chiamò, calibrando attentamente il tono della voce in modo
da essere il più neutrale possibile «C’è mica qualcosa che devi dirmi?».
E quando vide che Zane lo fissava, fra le fessure delle dita, distese
le labbra in un sorriso fra il dolce ed il malizioso che non credeva avrebbe
mai potuto fare.
«Mamma» Aaron poggiò i piatti
di ceramica sul tavolo ed alzò lo sguardo verso la madre, in piedi ai fornelli «Secondo
te Zane come sta?».
Le esili spalle della donna
ebbero un fremito.
«Che domande mi fai, tesoro?»,
borbottò senza voltarsi «Non c’è gioia maggiore che servire la Trinità».
«Ma secondo te è felice?»,
chiese ancora Aaron.
«Ovviamente».
Perplesso, il ragazzo aggrottò
le sopracciglia.
«“Il Caos distese le labbra violacee in un sorriso gelido come
l’inverno, e mai paragone fu più appropriato, poiché l’intera sua figura
richiamava il freddo ed il gelo. E Mahadev, la Vista, stesso avvertì il freddo
invadergli l’intero corpo, e le gambe gli impedirono di muoversi”.»
Zane voltò pagina ed osservò per qualche istante l’illustrazione del
Caos senza armatura che vi troneggiava al centro.
«Ti prego, continua», lo implorò eccitato Till «Io amo questa scena. Leggi!».
«Allora...», Zane si schiarì la voce con un colpetto di tosse e riprese
«“Dalla sua disumana altezza il Caos lo sovrastava, e forse era la visione a
paralizzarlo, o forse un qualche misterioso incantesimo del Caos, ma Mahadev,
la Vista, non riusciva a sottrarsi al suo fascino velenoso. Disperato come un
animale in trappola, Mahadev, la Vista, commise l’errore di alzare i due occhi
umani, e quando questi rimasero incatenati alle orbite vuote del Caos fu troppo
tardi.
“Tu sei chiamato ‘la Vista’”, lo apostrofò il Caos, e si carezzò i
denti con la lingua violacea “Ma se io dovessi privarti degli occhi… saresti
costretto a mutare appellativo?”. Mahadev, la Vista, tremò, ma prima che
potesse anche solo muovere un passo, più rapido del lampo il Caos gli conficcò
gli artigli nelle orbite.”».
«Me-ra-vi-glio-sa», sillabò Till, e rotolando
su stesso si girò a fissare il soffitto.
Zane, seduto sul letto accanto a lui, chiuse il libro e gli sorrise «È
ora di cena, signorino. Continuiamo dopo».
«Nooo, non mi va di riunirmi agli altri!», si lamentò Till, dirigendo
lo sguardo verso Zane «Fanno troppo casino».
«Vuoi morire di fame?», gli chiese ironico l’altro.
«Mh, perché no. Anticipo i tempi».
Zane aggrottò le sopracciglia.
«Non dirlo più», borbottò, chinandosi crucciato su di lui «Non pensarlo
neanche».
Till non rispose. Con un sorriso stiracchiato, Zane gli diede un lieve
bacio a fior di labbra.
«Alzati, su, andiamo a mangiare».
«Non ho fame. Zane?».
«Mh?».
«Ti amo. Non morire».
Zane gli sorrise dolcemente.
«Aaron!», lo salutò Beth, la sua compagna di banco, grande appassionata di
vestitini succinti «Oggi sei in anticipo, come mai?».
«Non ho perso l’autobus»,
rispose lui abbandonandosi sulla propria sedia. Si portò poi una mano al
ginocchio e lo massaggiò «Cazzo, che male».
Gli erano bastati i duecento
metri a piedi fino alla fermata dell’autobus per farlo zoppicare, con quel
diluvio in corso.
Il rombo di un tuono fece
tremare i vetri delle finestre, e Beth lanciò un urletto.
Mi spiace per Till, ma non posso proprio fare tutta quella strada tutti
i giorni, osservò, fissandosi l’articolazione dolente.
Un poco si sentì in colpa, in
fondo Till doveva essere molto solo… ma il ginocchio gli faceva troppo male per
pensarci.
«Hai impegni domani sera?»,
gli chiese Beth, e Aaron scosse la testa «Allora
tieniti libero, Michael, Liz e Robert pensavano di andare a…».
Aaron osservò la sua bocca
aprirsi e chiudersi, annuendo di tanto in tanto per farle credere di starla
seguendo.
Volente o nolente, la mente
continuava a tornargli a Till.
«Mi sa che oggi… niente»,
borbottò Till, spiando la strada da dietro al muro «Peccato».
Mosse un po’ le dita per
sgranchirle. Ormai teneva il palmo puntato verso l’alto da un’ora e cominciava
a dolergli, ma non poteva fare altrimenti o la barriera sarebbe svanita e lui
si sarebbe annegato, con tutta quell’acqua.
Non si sarebbe ammalato manco
volendo, ma gli scocciava infradiciarsi.
Una bambina di forse sei o
sette anni, vestita con uno sgargiante grembiulino rosa, percorse l’intera
strada di corsa, saltellando da una pozzanghera all’altra con i suoi stivali di
gomma gialli.
Till la osservò perplesso. Non
passava mai molta gente per quella strada, e una bimba così piccola tutta sola…
La bambina alzò lo sguardo
verso di lui e lo salutò agitando l’ombrellino rosa, e Till avvertì la barriera
dissolversi senza che lui l’avesse voluto.
«Mi tieni sotto controllo?!»,
esclamò, issandosi sul muro mentre la pioggia lo investiva. Una mano gli
scivolò e quasi cadde dall’altra parte.
La bambina batté i grandi
occhi scuri e lo fissò perplessa.
«Parli con me, signore?»,
chiese, indicandosi con l’indice paffuto.
«Oh» Till inarcò le
sopracciglia, confuso «Scusa, forse mi sono-», ma non poté finire la frase,
perché la bimba lo interruppe con una risata.
«Non ho resistito. Peccato, mi
sono giocato la copertura. Giocato, giocata… perché la vostra lingua del cazzo
non ha il neutro?».
Till sospirò e rivolse
nuovamente il palmo verso l’alto, a formare una seconda barriera.
«Che ci fai qui?», chiese alla
bambina. Lei distese le labbra in un sorrisetto furbo e si carezzò i denti con
la lingua.
«L’amichetto oggi non è
venuto?».
«No».
«Oh, gliel’hai detto?».
Lo sguardo rivolto allo strato
di nubi scure, Till scosse la testa e sospirò ancora.
«Ma perché non glielo
racconti? È divertente quella parte».
«Non meriti nemmeno una
riposta», sbottò il ragazzo, e la sua aria infastidita parve divertire la
piccola.
«Certo che hai avuto un bel
culo ad incontrare proprio il fratellino di Zane».
«Sei una bambina, potresti
moderare il linguaggio? Mi urti».
«Non cambiare discorso», lo
riproverò lei agitando l’indice «Dicevo… hai avuto proprio culo. Il caso è
simpatico. C’è un dio del caso? O era fra quelli crepati?».
«Smettila di prendermi in
giro», sibilò Till, e tornò nel giardino dell’Achre.
Ci fu qualche attimo di
silenzio, poi la voce acuta della bambina superò lo scrosciare della pioggia.
«Fossi in te ne approfitterei
per assaggiare i piaceri della carne, Till caro! Ma magari prima drogalo, così
non rischi che ti respinga perché gli fai schifo. O perché è etero. No, è etero
sicuramente, ho visto come ti guarda. Ma non è che tu abbia poi tutte queste
possibilità di scelta, eh?».
Till non rispose, e si diresse
verso l’Achre senza voltarsi
indietro.
Till si destò di scatto e si rizzò a sedere, la fronte madida di
sudore.
Accanto a lui Zane dormiva tranquillo, dandogli la schiena, e il
bambino rimase ad osservarlo per qualche secondo.
Voleva svegliarlo. Disperatamente.
«Zane», pigolò con voce tremante «Dormi?».
In risposta gli giunse solo un mugolio assonnato. Avrebbe potuto
insistere, ma davvero se la sentiva di svegliarlo?
L’indomani sarebbe stato un giorno pesante.
“Pesante”...
«Zane!», ripeté alzando la voce. Lanciò poi un’occhiata all’orologio
digitale appeso al muro, proprio sopra l’ingresso: segnava le tre.
Avevano meno di sette ore di vita, ancora.
«Zane!», lo chiamò per la terza volta, e scoppiò in singhiozzi.
«Mmh… Till…», mugolò l’altro, la voce impastata dal sonno. Si
stropicciò gli occhi e si mise a sedere, accompagnando al gesto un sonoro sbadiglio.
Si voltò poi a fissare il compagno, e il suo viso assunse
un’espressione preoccupata «Till, che succede? Hai avuto un incubo?».
Till annuì, asciugando le lacrime con una manica del pigiama «Ho… fatto
un sogno stranissimo».
«Raccontamelo», lo incoraggiò Zane con voce dolce. Gli prese una mano e
gli baciò le dita, per rassicurarlo «Che succedeva?».
«C’era... il mio coniglio. Cioè, non era proprio lui, ma per me era
Batuffolo».
Zane gli sorrise «Era un po’ che non lo nominavi. E poi?».
«Era dentro la gabbietta, con gli occhi chiusi. Non respirava, però
quando ho aperto la porticina è saltato fuori».
Tacque qualche istante, cercando di richiamare alla mente le immagini
più nitide.
«Allora ho cercato di prenderlo... e lui mi ha guardato e mi ha
parlato. Non aveva gli occhi rossi, erano... diversi».
«Cosa ti ha detto?».
Till scosse la testa, e si lasciò ricadere contro Zane «Non me lo
ricordo. Zero. Però aveva una voce molto triste».
«Beh, non mi sembra un sogno tanto terribile», commentò Zane
baciandogli dolcemente i capelli, ma l’altro sollevò una mano.
«Non è finita qui. C’era una seconda parte, che non mi ricordo tanto
bene... ma mi sembra morissimo tutti e due».
«Allora ci hai allungato la vita!», ironizzò Zane «O almeno così si
dice».
«Sì, però...», tentò di ribattere Till, ma si interruppe.
Non aveva senso passare le probabili ultime ore di vita angustiandosi.
«Zane... rimaniamo svegli», propose, ed alzò lo sguardo verso di lui «Facciamo
qualcosa».
«Qualcosa... tipo?».
Till si strinse nelle spalle «Boh. Coccole?».
Zane rise e gli prese il viso fra le mani.
«Per me va bene», mormorò, posandogli un lieve bacio sul naso «Domani
saremo un po’ stanchi, però».
«Tanto domani moriremo», borbottò Till serio.
«Non dire così, non è vero».
Till aprì la bocca per ribattere, ma Zane non gliene diede il tempo e
gliela chiuse con un bacio.
Mentre ricambiava e gli stringeva le braccia attorno alla vita, Till
non poté evitare di pensare quanto sarebbe stato bello poter amare Zane come
tutte le persone normali.