Protagonista: [link]
[SURVIVOR]
Un
sibilo lontano e indistinto si faceva sempre più vicino,
più intenso.
Un’esplosione.
Un
boato assordante.
E
vennero giù le pareti, i pavimenti e i soffitti.
Le
grida, il fumo, i pianti.
Per la
strada si riversò una fitta coltre di polvere e detriti che
picconarono l’asfalto, onde le macchine inchiodarono con
brusche frenate improvvise. Il cielo si oscurò di quella
nube, stormi di corvi cantilenano già per il pasto
imminente, la gente strillava spaventata fuggendo in vano a quello
spettacolo di morte, caos e distruzione.
Non
più una sola stella apparve nel firmamento. Quando tutto fu
di nuovo pacioso e silenzioso come la notte stessa, quando i lampioni
furono spenti e altri spezzati a metà, solo allora si
sentì di nuovo la quiete. La gente era ormai fuggita via
tutta. I bombardamenti militari andavano avanti da giorni su Manhattan,
il Governo non dava tregua al Virus, ma nemmeno alla sua popolazione.
Quel
presagio apocalittico, quel missile calato d’un tratto dal
cielo e schiantatosi sul tetto di quell’edificio ora ridotto
a macerie, l’avevo visto apparire come dal nulla dietro una
nuvola. Le luci intermittenti e il frastuono dei motori del caccia che
aveva sganciato l’attacco si erano allontanate subito dopo
eseguito il comando, rispettato l’ordine.
Un
intero distretto di Manhattan era stato spazzato via come il sospiro
sulle candeline il giorno del tuo 11esimo compleanno, quando sei ancora
bambino e puoi permetterti di soffiare con tanta forza e gioia da
spazzare via un elefante, mentre le guance ti si colorano di rosa e le
labbra s’inumidiscono passandoci la lingua. Già
assapori la torta, la panna, il cioccolato e le fragole in essa
nascoste. E godi al profumo di coca-cola e aranciata che viene dai
bicchieri lasciati mezzi vuoti dai tuoi amici sullo stesso tavolo.
La
situazione è simile se ci pensiamo: ecco
l’esercito americano che “soffia” sulle
“candeline” ammazzando 568 civili, di cui solo lo
scarso 20% è probabilmente infetto. La puzza di bruciato,
combustione e arrosto è nauseabonda dopo il passaggio di uno
di quei missili. Quell’acre sapore amarognolo si mescola al
Bloodtox e al Virus in un modo inaudito, intollerabile, che corrode il
setto nasale dall’interno.
Strano
pensare queste cose, che brancolavano di routine nella mia testa fin da
quando, fuggita ad una simile situazione, mi ero ritrovata senza un
tetto dove stare assieme a tutti gli inquilini del mio palazzo. Le
cause dell’abbandono però erano state diverse,
molto diverse. Si era trattato infatti di un contagio. La palazzina
dove abitavo assieme a mio fratello maggiore Rayan, deceduto sotto le
macerie, si era scoperto infettato dal Virus con il 70% degli inquilini
risultati positivi. Il governo americano aveva distrutto il nostro
quartiere senza avvertire nessuno, ed io, fino ad oggi, credevo di
essere l’unica sopravvissuta.
Seduta
su un cumulo di detriti, miravo al paesaggio apocalittico che mi
appariva davanti. Grattacieli distrutti, nubi di fumo, incendi, boati
di spari e ruggiti di furiosi di cacciatori. La zona a nord sulla quale
affacciavo era diventato campo di battaglia tra militari ed infetti. Le
urla strazianti, le esplosioni.
Ed io,
tutta tranquilla, sul pizzo di quelle macerie, con le gambe a penzoloni
fissavo lo spettacolo come fossi a teatro.
Quel
giorno, come tutti quelli precedenti, avevo indosso gli abiti coi quali
ero fuggita dall’attacco al mio quartiere. Pantaloni
elastici, aderenti che terminavano negli stretti stivali comodi e
sportivi fino al ginocchio. Il fodero di una pistola con
l’arma all’interno legato alla coscia da una parte
e un segnalatore rubato ad un accampamento militare
sull’altra, tenuto stretto alla stessa cintura dalla quale
pendeva una sacchetta in cuoio con alcuni effetti personali. I pugni
serrati in grembo, una mano guantata carezzava col pollice
l’impugnatura di una torcia a risparmio energetico che di
giorno catturava la luce solare attraverso un pannello verde
incorporato. La tenevo spenta, nonostante la notte si stesse facendo
sempre più scura e intensa del suo freddo e dei suoi venti
che sollevavano polvere e sangue secco. Contro il clima sfavorevole che
si formata di quella stagione a Manhattan portavo anche una felpa di
sintetico; sottostante una maglietta a mezze maniche a righe
orizzontali verde chiare e scure. Un’ancora vuota e leggera
borsetta a tracolla, lo zaino in spalla anch’esso piuttosto
scarso di contenuti. Un fazzoletto alla western tenuto pendente al
collo lo usavo soprattutto nel traversare zone a rischio di contagio.
In fine, il mio viso: un po’ tondo ma fino, giovane a
mostrare la mia età di ventisei anni da compiere. Gli occhi
di un azzurro così chiaro da sembrare quasi grigi se non
bianchi. Persino i capelli, di un biondo sbiadito da parere tinto,
assumevano quella particolare tonalità albina. Acconciati in
un taglio corto e giovanile, liscio, ordinato, ma tenuti compatti dagli
speciali occhiali per la visione notturna.
Questa
sono io: Lizbeth Aileen Hill. Ma potete chiamarmi Lizzy.
Mio
padre era avvocato giudiziario. Mia madre morì
quand’ero piccola. Mio fratello Rayan perse la vita nel
bombardamento militare di un anno fa (ovvero il tempo esatto da quanto
l’infezione va avanti).
Mi
riscossi con violenza dai miei pensieri, riportata alla
relatività delle cose dal ricordo del perché mi
ero spinta così lontana dal mio rifugio di a Central Park.
Fischiai portandomi due dita alla bocca.
Il
sibilo partì e si espanse per tutta la strada, vagando e
rimbombando da una parte all’altra. Ma non c’era
orecchio umano che potesse accorgersene poiché fosse coperto
da centinaia di altri spari e rontolii più lontani
provenienti dalla guerra.
Da un
cumulo di macerie più un basso alla mia attuale posizione,
spuntò il pelo marroncino di un bellissimo golde retriver.
-Mitch,
vieni qui- chiamai sollevandomi in piedi. –Avanti- disse
anche dando le spalle al cane e incamminandomi nella direzione opposta
alla guerra che si combatteva di pochi isolati distante.
Il cane
abbaiò sotto tono e scalò la parete di detriti
con grande abilità e agilità, giungendomi
affianco con la lingua pendente dalla bocca. Quando mi fermai, mi
chinai alla sua altezza per carezzargli con vigore il pelo lungo la
spina dorsale, e la cosa gli piacque assai. Stirò in avanti
le orecchie asciugandosi la bocca della saliva, che però
continuava a gocciolare dalla lingua.
Mitch
era il cane di mio fratello. Con me non aveva mai avuto un ottimo
rapporto, ma da quando c’era stato l’incidente, si
era visto costretto a stipulare verso la sorella del suo padrone un
accordo di reciproca alleanza. Da allora era stato fedele, coraggioso
e, cosa più importante, sempre al mio fianco. Quanti morsi
aveva dato agli infetti che avevano cercato di avvicinarsi a
me… avevo perso ormai il conto.
-Andiamo
a cercare da mangiare, che ne dici?-.
Mi
diede una leccatina alla mano.
-Lo
prendo come un sì- arrisi tornando diritta. Mi sollevai il
fazzoletto alla western davanti al naso e alla bocca, accesi la torcia
e m’incamminai. Il cane mi sorpassò con un salto
facendomi strada tra le macerie polverose e oscure di quello che un
tempo era stato un minimarket.
L’ingresso
era per metà intasato da altre macerie. I frammenti della
porta a vetri sfondata si sparpagliavano al suolo scricchiolando sotto
le suole dei miei stivali.
-Attento,
stupido!- dissi a Mitch che si era pericolosamente avventurato sopra
quei pezzi taglienti.
Il cane
s’immobilizzò un istante, dopodiché
spiccò un salto e fu ben oltre la scia di vetri, andando a
curiosare e annusare nel buio dove la luce della mia torcia non
arrivava. Il ticchettio degli artigli delle sue zampe sulle mattonelle
del pavimento si fece distante, anche troppo.
-Stammi
vicino, Mitch!- come non detto.
L’avevo
già perso di vista quando mi avvicinai ad alcuni scaffali
che ospitavano dei cereali confezionati e componenti per “una
buona colazione”, quali biscotti,
caffè… il resto del locale era andato sopraffatto
dal tetto crollato e le pareti ridotte a mattoncini. L’unica
ala visitabile del minimarket era dunque quella.
Mitch
riapparve all’improvviso dietro l’angolo. Quando
gli puntai la luce della lanterna negli occhi, essi mandarono un
bagliore rosso intenso che inizialmente mi fece correre un brivido
lungo la schiena. Sobbalzai, mi sfuggì un gridolio, ma il
cane mi venne incontro scodinzolando e con una scatolina di latta tra i
denti.
Gliela
tolsi dalla mascella e me la rigirai nella mano. Era cibo per cani in
scatola. Ridacchiai. –Va bene, lo compriamo. Portalo alla
cassa- dissi giocosamente carezzandogli la testa.
Mitch
mandò un abbaio e si riprese la scatolina dalle mie mani,
puntando dritto verso l’uscita del minimarket, dove un tempo
c’erano le casse automatiche, scodinzolando.
Continuai
la mia ricerca di cibo umanamente commestibile in un reparto
secondario, addentrandomi poi direttamente nel magazzino del locale,
oltre quella soglia mezza distrutta che dava su un grande salone
affogato nel buio delle luci fulminate e delle pareti crollate. Mi feci
luce con la torcia e stetti molta attenta a dove mettevo i piedi.
Trovai in quel magazzino degli scatoloni imballati con del nastro
adesivo, del quale mi liberai alla svelta usufruendo del coltellino
svizzero sempre a portata di mano. Tagliai il nastro e, chinandomi
sullo scatolone, ne tagliai una metà. Vi trovai del pane in
cassetta prendendone due sacchi da trenta fette tagliate ciascuna.
Dopodiché, saccheggiando un secondo scatolone, riportai alla
luce del latte a lunga conversazione.
-Merda-
sibilai. Nonostante la confezione appositamente studiata e il
trattamento perché durasse più del latte normale,
era ormai andato. La scadenza risaliva a più di un anno
prima. Era stata una cretinata anche solo pensare di poter bere del
latte.
Pane in
cassetta, cereali, formaggi… erano vivamente sconsigliati i
cibi freschi, gli affettati e le carni, che rappresentavano esponenti
più probabili per un contagio.
Lasciai
il magazzino con quelle due sacche di pane in cassetta e qualche
scatole di cereali che mi apprestai a sistemare nello zaino poggiandolo
a terra. Quando ebbi fatto il “pieno” mi avviai
verso le “casse” del minimarket.
Improvvisamente
udii un rantolio cupo e profondo provenire da dietro l’angolo
degli scaffali. Questo suono fu seguito da un lungo abbaiare rabbioso
di Mitch.
-Ehi,
bello…- proferì una tetra voce maschile.
-Mitch!-
chiamai affrettando il passo. Portai avanti la torcia e, una volta
svoltato l’angolo, la puntai dritta davanti a me.
La luce
andò a posarsi sul volto di un uomo bianco per
metà coperto da un cappuccio. Vidi balenare nel chiarore
della lampada due agghiaccianti occhi azzurri, e come la lama di un
coltello, quello sguardo che durò circa un attimo, mi
trafisse all’altezza dello stomaco.
-Alex…-
sussurrai a fior di labbra.
Si
voltarono entrambi verso di me, sia Mitch che il ragazzo. Ma fu solo
quest’ultimo a parlare: -Ciao Lizzy- salutò
facendo una carezza sulla testa del mio cane, che nel frattempo
scodinzolava felice come non mai.
Lasciai
cadere la torcia, la cui plastica andò in frantumi nel
momento in cui toccò terra. Restammo al buio
-Ne
è passato di tempo- sorrise affabile Alex distogliendo la
sua attenzione dal cane. Mosse un passo verso di me. –Ma tu
non sei cambiata-.
Indietreggiai.
–Stammi lontano- eruppi. –So cosa sei… e
non voglio averne a che fare. Mitch, vieni qui- ordinai al mio cane, ma
questi continuava a scodinzolare ai piedi del mio conoscente.
-Mitch,
avanti, andiamo- ribadii più severa, ma nulla da fare. Mitch
scodinzolava felice con la lingua di fuori, seduto ai piedi di Alex.
Alla fine dovetti arrendermi e sbuffare. –Cosa vuoi?- chiesi
con arroganza.
-Mi
serve il tuo aiuto- pronunciò senza tono.
-Sei
sordo, per caso?!- ringhiai. –Ho detto che non voglio avere
più a che fare con te, Alex! Non lo volevo tre anni fa, non
voglio adesso! Le cose non sono cambiate, ed io nemmeno- borbottai
seria sistemandomi meglio lo zaino in spalla e dirigendomi fuori
dall’edificio, aggirando la sua tetra figura. Sotto sotto
ancora bestemmiavo, perché la mia ultima torcia buona era
andata a farsi benedire, e tutto per colpa sua. Uscii dal minimarket
col muso lungo e la fronte corrugata. Camminavo per strada senza mai
voltarmi indietro, e sentivo le unghiette delle zampe di Mitch
ticchettare tra i detriti e le macerie e nient’altro, ma lo
sapevo: Alex era con lui, seguendomi accanto al mio cane con passi
inudibili.
Mi
girai di colpo, trovando il suo volto a pochi centimetri dal mio. Non
osai indietreggiare ancora, anzi. Lo fissai con rabbia negli occhi.
–Se ti serve una mano, perché non vai a chiederla
a Karen?! Sono sicura che lei farebbe i salti mortali per…-.
-È
morta- infierì crudo.
Non mi
scomposi di un capello. –Anche questo non è un
problema mio- ma in realtà gioivo ringraziando Dio.
-Sono
stato io ad ucciderla- aggiunse Alex senza timore.
Arricciai
il naso, cosa che mi capitava quando avevo paura. Di fatti cominciai a
chiedermi se Alex non fosse davanti a me per lo stesso motivo che lo
aveva spinto ad uccidere Karen.
-Non
pensarlo nemmeno- eruppe lui, come leggendo i miei pensieri.
-E
allora perché…-.
Non
riuscii a concludere la frase perché un bisogno improvviso
di chiudere gli occhi m’invase, dettato dal sapore e dalla
morbidezza delle sue labbra che si posavano improvvisamente sulle mie.
Erano fredde come il ghiaccio, ma dolci come un gelato
d’estate. Il primo impulso fu quello di respingerlo,
perché se assieme alla freddezza della sua pelle percepivo
anche il puzzo di virus, preferivo di gran lunga astenermi. Ma poi mi
tornarono alla mente tutti quei ricordi, che come un vortice presero a
girarmi attorno sempre più velocemente.
Sentii
le sue mani posarmisi sul viso nella richiesta di avvicinarmi di
più a lui. Lo assecondai, scaricando la tensione nel gesto
di muovere un passo nella sua direzione, così da trovarmi
avvolta dal suo corpo. E mentre le sue labbra si muovevano in perfetta
sincronia con le mie, gli posai un palmo sul petto,
all’altezza del cuore. Sentendolo battere lento, misurato, ma
forte come un tamburo sotto i polpastrelli e anche attraverso il
tessuto di giacca, felpa e camicia, ebbi come la conferma che qualcosa
di umano in lui c’era ancora, e mi piaceva pensare che fosse
l’amore che provava per me.
Quando
si scostò da me per guardarmi negli occhi così
come stavo facendo io, chiesi flebile: -Allora, perché hai
bisogno del mio aiuto?-.
Alex mi
carezzò la guancia col pollice. –Ho bisogno di te
e basta-.
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