God put a smile upon
you face
Gave detestava lo squillo del telefono. Era un trillo insopportabile,
netto e monotono, quasi peggio della sveglia all'alba; insomma,
effettivamente era l'alba e si stava anche svegliando, seppure
naturalmente controvoglia.
Nel tentativo di districarsi dalla massa di coperte e lenzuola,
scoprì che Arja aveva beatamente steso una gamba sul suo
torace. Invece un braccio, chissà come, era piombato
direttamente sopra la sua testa, finendo schiacciato tra il capo e la
spalliera del letto. Dopo essersi liberato dall'ingombrante fidanzata,
Gavin camminò a piedi nudi sulla moquette, seppur faticando
a trovare l'equilibrio e, cosa non di poca importanza, ad aprire gli
occhi.
Dopo aver sbattuto contro lo spigolo della cassettiera entrò
nel piccolo soggiorno, dove schivò il divano solo
perché il rosso acceso della tappezzeria si sarebbe notato
anche a chilometri di distanza e con una cataratta agli occhi. Quando
afferrò la cornetta del telefono, ringraziò di
non aver trovato in giro le mutande striminzite e leopardate di Val,
visto che gli aveva fatto l'immenso piacere di restare a dormire da
Christen e smaltire da lui i postumi della colossale sbornia al Way Out.
“Ponto?” strascicò dimenticando qualche
lettera per strada.
“Sono Brian.” annunciò una voce neutra,
più metallica del solito.
A Gavin bastò quel tono per intuire, seppure con tempi
più ritardati del solito, che qualcosa non andava o, se
andava, non era sicuramente per il verso giusto.
“Che succede?” domandò, mentre il mal di
testa post-sbornia veniva accantonato in un angolo.
Un sospiro, talmente breve da durare meno di un battito di ciglia.
“Annie ha tentato il suicidio. E' in rianimazione, le hanno
fatto una lavanda gastrica perché ha inghiottito pasticche
su pasticche.” spiegò. Non tradiva emozioni,
sembrava un automa con la frase registrata da ripetere all'infinito;
era lo stesso modo di fare sicuro di sé e impersonale che
adottava nelle interviste scomode, per difendersi da ciò che
poteva uscire dalla sua bocca.
Brian, comprese Gave, si stava tutelando da se stesso in quel momento.
“Oh... – non seppe cosa dire, ogni sillaba gli
rimase incastrata tra la faringe e il palato – ...
cazzo.”
Si lasciò cadere sulla sedia scricchiolante accanto al
mobiletto, schiacciando senza troppa cura la rubrica che in teoria
sarebbe dovuta restare nel cassetto.
“Già – convenne Brian – l'ho
pensato anch'io.”
“E adesso? C'è possibilità che
migliori, che...”
Cos'altro, ancora, davvero non lo sapeva. Si trovò spaesato,
persino piccolo e meschino, seduto in mutande su una sedia malandata.
Annie, in qualche ospedale, era su di un letto, sospesa tra la vita e
la morte; decisamente, qualcosa quel giorno doveva essere stato montato
al contrario.
“Mi piacerebbe saperlo, sai – si interruppe un
istante, poi riprese – siamo alla clinica, quella dove era
stata ricoverata l'ultima volta.”
“Vi raggiungo subito, il tempo di vestirmi e sarò
da voi.”
Non ci furono smentite, né cortesi rifiuti; Brian
annuì, dall'altra parte del telefono, e sussurrò
uno stanco: “Grazie, Gave.”
Riattaccarono quasi in contemporanea, lasciandosi entrambi andare ad un
sospiro. Solo che nessuno dei due poteva saperlo, visti i chilometri di
distanza a separarli.
Quando rialzò le palpebre, dopo aver contemplato i propri
piedi nudi, Gavin vide Arja sostare di fronte a sé, con le
gambe storte, la pelle pallida e indosso un top che mostrava il seno
inesistente e le braccia piuttosto lentigginose.
“Gave?” lo richiamò, scuotendogli una
spalla.
“Annie è in clinica. Sta... male.”
La finlandese non disse nulla. Annuì un istante, infine
sparì camminando rapidamente, per poi ritornare di fronte al
fidanzato e lanciargli i primi vestiti che le erano capitati sotto mano.
“Avanti, stare lì seduto non servirà a
nulla. Sbrigati a vestirti, chiamiamo un taxi e andiamo da Brian e gli
altri.”
Chissà perché, Arja già immaginava che
ci fosse Brian ad aspettarli. Quello che era ovvio, a Gavin appariva
sempre come un'inaspettata novità.
Guardò un istante la giovane donna saltellare su una sola
gamba, intenta a infilarsi una vaporosa gonna multicolor, dirigendosi
contemporaneamente in camera. Allora l'irlandese si alzò a
sua volta cercando di vestirsi alla meglio, anche se in quel momento
sarebbe andato volentieri con indosso un pigiama a quadri e un paio di
pantofole, per quanto gli interessava.
Eppure, mentre inghiottiva un muffin pur non avendo fame, mentre si
lavava alla buona i denti o si riassettava i capelli spettinati,
continuò a non capire perché Annie avesse deciso
di farla finita. Sentì che in qualche modo lei aveva cercato
di chiamare tutti loro, di contattarli e comunicare la sua folle
disperazione, ma nessuno era riuscito a recepire quello che lei
realmente voleva.
Si morse un labbro, arrivando all'amara conclusione che, forse,
quell'ingranaggio era rotto da molto prima, solo che non se ne erano
mai accorti.
*
La clinica aveva un odore spocchioso,
come amava dire Arja. Uno di quegli odori in parte asettici, in parte
talmente esenti da qualsiasi cosa ricordasse la vita vera da sembrare
fittizi.
Bisognava pagare per ricevere cure e attenzioni, anche tanto; Gave,
stretto al suo magro stipendio e alle mance dei locali dove suonava,
nell'entrarci avvertiva una sorta di orticaria fastidiosa, in parte
forse dovuta anche alla cera che rendeva i pavimenti perfetti lisci
come la pelle di un bambino, nonché potenzialmente
pericolosi.
Dopo aver affrontato infermiere che squadravano lui e la sua ragazza
alla stregua batteri da debellare, ottennero le informazioni necessarie
per capire in linea di massima presso quale ala della clinica recarsi.
Si stupì, strada facendo, di quanto quel luogo potesse
essere grande e allo stesso tempo anche del conto in banca piuttosto
florido di Annie, contrariamente alle sue aspettative.
Arja non si perse d'animo e dando un affettuoso pizzicotto sulle guance
lentigginose di Gavin lo incoraggiò. Insieme entrarono in un
atrio sobriamente arredato, ancora odoroso di un pulito troppo
impeccabile.
Poi l'irlandese trapiantato nel Lussemburgo scorse Brian, seduto presso
una delle poltrone con Stefan e Steve accanto. Si stupì nel
vedere anche quest'ultimo, visto che da un paio di giorni a quella
parte non avevano avuto occasione di incrociarsi.
Steve in effetti era una di quelle persone all'apparenza
disorganizzate: dall'aria un po' sfatta, la parlata biascicata di chi
fosse in perenne stato d'ubriachezza e la faccia da stordito, una sorta
di marchio di fabbrica. Eppure quando serviva riusciva ad essere
presente, coi suoi tempi e non mancando di qualche risata irrispettosa
che ogni tanto si lasciava scappare.
Secondo Gavin, Steve Hewitt doveva essere ubriaco dalla nascita, a
conti fatti.
Ma siccome non aveva prove che al posto del sangue possedesse alcool,
non ebbe altro da pensare che fosse nel suo carattere più
intrinseco quello di apparire completamente, inesorabilmente, partito
per un altro pianeta.
Nel complesso era una brava persona e un ottimo amico, insostituibile
nelle volte in cui si arrabbiava di brutto e finiva per scannarsi con
Brian. Insieme, quei due offrivano ore di intrattenimento garantito.
Brian stava scompostamente seduto su di una poltroncina, con le gambe
accavallate stese irrispettosamente sulla sedia di fianco e un braccio
che gli copriva il volto nel misero tentativo di coprirsi dalla vista
del sole; era evidente che avesse passato l'intera notte sveglio.
“Eccoci.” annunciò Gavin semplicemente.
Andò a salutare Stefan che gli batté una pacca
sulla spalla, abbracciandolo:
“Ehi, ti saranno un po' girate a venir su così
presto di mattina.”
“No, figurati, ero troppo stordito per incazzarmi. Al massimo
rischiavo solo di presentarmi con indosso le pantofole ad orsacchiotto
e la camicia hawaiana.” sdrammatizzò, facendo
sorridere i presenti.
Steve si portò una ciocca di capelli scuri dietro le
orecchie e lo andò a salutare a sua volta, scombinandogli
affettuosamente i capelli.
“Merda, che situazione...” borbottò
incredulo.
Brian si alzò in piedi stiracchiandosi e
gesticolò, con una strana pacatezza:
“Lo è. Gave, mi accompagni a prendere un
caffè al distributore?”
“Mi piacciono le tue domande retoriche. Ti accompagno a
prendere un caffè, allora.” acconsentì,
stropicciandosi gli occhi.
Percorsero un corridoio laterale e finirono in un angolo dedicato al
ristoro, dotato di qualche tavolo perfettamente allineato e una serie
di distributori che vendevano cibarie che andavano dalle merendine
caloriche ai thé deteinati, una serie di splendidi
controsensi in un edificio tutore della salute.
Brian offrì a Gave un caffè e colmò la
tazzina in plastica di zucchero, rigirandola con calma senza parlare.
Finché improvvisamente non disse, tenendo il cucchiaino come
se si trattasse di una sigaretta:
“Sai, pensavo a parecchie cose. Una fra queste è
che dobbiamo ringraziare di non essere ancora così famosi.
Immagina per un solo istante le voci che sarebbero girate su di noi: i
Placebo al completo vanno a disintossicarsi.”
“Pare che le terapie di gruppo funzionino meglio.”
scherzò istintivamente Gavin.
Di fronte a quella battuta improvvisata, Brian scoppiò a
ridere, sgranando appena gli occhi grandi. Alzò infine le
spalle e confermò:
“Giusto, in effetti – sorrise, tirando poi un
sospiro piuttosto pacato – non siamo ancora nessuno. Ci
conoscono in pochi e la musica che facciamo non è delle
più facili da ascoltare; non è uguale quelle
canzonette pop degli Oasis, per intenderci.”
Eccolo che tornava a polemizzare su gruppi e persone. Musicalmente
parlando, Brian era dotato di un'insana acidità praticamente
nei confronti di tutti; si salvavano davvero pochi musicisti, tra i
quali gli U2 solo perché – come segretamente
sospettava Gavin – da poco avevano volato assieme ai Placebo
sul loro aereo privato.
“Mmmh, ok, Noel e Liam ti ameranno spassionatamente dopo
quello che dici su di loro.”
“Che si fottano.” borbottò noncurante.
“Giusto – confermò Gave – e
poi? Dovevi parlarmi d'altro o solo evitare che comprassi il prossimo
disco dei fratelli Gallager e soci?”
“Se l'avessi comprato te lo avrei bruciato personalmente.
Eccetto questo, ho una richiesta da farti.”
Lo fissò intensamente, accartocciando tra le mani il
bicchiere ormai vuoto. Tra le dita, teneva ancora il cucchiaino.
“Sarebbe?” Chiese Gave, più curioso che
preoccupato, secondo la sua natura.
“Devo andarmene.” confessò a bruciapelo,
guardando distrattamente il soffitto della stanza quadrata, quasi
potesse fuggirvi oltre.
Gavin tacque per un istante. Per arrivare a dirgli una cosa simile in
un momento tale, Brian doveva avere realmente la necessità
non solo di non essere lì, ma di trovarsi il più
lontano possibile da Annie. Forse perché Hope Davis era il
simbolo di quello che il ragazzo poteva diventare, il simbolo di
un'esistenza passata dietro le droghe, i problemi con l'alcool,
l'incapacità di agire per potersi salvare.
Lei non era riuscita a reggere il peso di ciò che aveva
creato con le proprie mani, il groppo sulla schiena che era la sua vita
e la consapevolezza di aver fallito, di aver gettato quanto di
più caro aveva in un cestino che non avrebbe potuto svuotare.
Poi, anche se sarebbe stato difficile da ammettere, c'era in fin dei
conti quell'amore tanto tormentato e cercato: le dipendenze ai farmaci,
ai vizi, glielo avevano fatto dimenticare, rendendoli indifferenti.
La droga rende incredibilmente egoisti.
“Dove andiamo?” chiese Gavin con strepitosa
nonchalance, gettando nella spazzatura la tazzina in plastica per poi
fissare attentamente l'amico.
Questi finse di pensarci, alzando le spalle, ma aveva tutta l'aria di
chi sapeva cosa volesse fare:
“In Lussemburgo. Sai, ho
bisogno di tornare a casa, Gave.”
Pronunciò il suo nome con voce quasi strozzata; Brian
faticava a parlare, a darsi un tono, a mantenere quell'aria da
ragazzino strafottente e provocatorio. Gli occhi grandi dal trucco
sbavato, lo smalto intaccato e i capelli disordinati non erano dettagli
che lo rendevano grandioso come nei concerti o nei video, nei quali il
caos era progettato con cura. Era una persona sfatta, quella mattina,
che sapeva di sigaretta mischiata con l'odore d'ospedale.
Fu in quel momento che Gavin comprese di avere il destino segnato: era
una sorta di forza sconosciuta che gli impediva di farlo fuggire come
avrebbe voluto. Più intimamente, l'irlandese temeva di
essere lui stesso l'ostacolo insormontabile che gli impediva di
rifiutare un favore piuttosto scomodo.
“Va bene – confermò lui semplicemente
– ci torneremo insieme allora.”
Poteva mandare a fare in culo i suoi impegni, in fondo. La rivista gli
avrebbe dato una di quelle strigliate coi controfiocchi per l'assenza
improvvisa da lavoro, ma ne valeva la pena e, in tutta
onestà, in quell'occasione non aveva alcuna voglia di
pensare alle conseguenze.
“Ehi, non sono ancora abbastanza famoso da avere un jet
privato, sappilo.” ribadì il cantante, accennando
ad un sorriso scherzoso.
“Peccato, credevo che Bono ti avesse lasciato il suo.
Vorrà dire che voleremo come i comuni mortali, d'altronde
penso che in un aereo verso il Lussemburgo ben pochi facciano caso a
Brian Molko.”
“Aspetta un paio d'anni e mi riconosceranno anche da quelle
parti.” asserì, puntandogli un dito contro.
Gavin sorrise e alzò le spalle, rassegnandosi all'idea che
sarebbe anche potuto accadere. A dire il vero gli sarebbe spiaciuto, da
una parte, se i Placebo avessero ricevuto un successo tale;
già in quegli anni le cose erano cambiate parecchio: era
diventato difficile uscire con loro, incontrarli o anche solo avere il
tempo materiale per scambiare quattro chiacchiere.
Dall'altro lato però augurava ai tre ogni bene possibile,
convinto che un ritaglio di tempo per vedersi ci sarebbe sempre stato.
Ringraziò solo che avessero lasciato a piedi il precedente
batterista, prima che i conflitti interni degenerassero in qualche
omicidio.
Improvvisamente, prima di tornare dagli altri Gavin ammise:
“Non mi sarei aspettato che un giorno mi avresti proposto di
tornare lì.”
“Nemmeno io – confessò l'amico,
passandosi una mano tra i capelli – però per una
volta ho riflettuto parecchio. Non ho buoni ricordi di quel posto,
tantomeno delle persone che ci abitavano o abitano tutt'ora, eppure
necessito di tornare un attimo sui miei passi. Sai, forse se non avessi
odiato così tanto la città e non avessi avuto un
rapporto che, eufemisticamente, definirei conflittuale con mio padre a
quest'ora non sarei qui; magari mi trovavi in banca, in giacca e
cravatta.”
Fece quell'ultima proposta alzando le sopracciglia divertito.
“Accidenti, che brutta immagine!”
commentò Gavin, ridacchiando.
“Pessima – convenne con un sorriso serafico
– per questo credo di dover ringraziare il Lussemburgo, in
fondo è pur sempre casa mia.”
“Casa...” mormorò l'irlandese, infilando
le mani in tasca.
Cosa voleva dire esattamente la parola casa? Comunicava un senso di
calore, di affetto: era un porto sicuro nel quale rientrare e trovare
rifugio, da ogni fallimento, da ogni sconfitta della vita; oppure, una
gloriosa arena dove festeggiare le vittorie, i successi e i traguardi.
Era un perno.
Gavin non aveva perni, lui non era fatto per avere un punto fisso,
così come Brian d'altronde. Però ritornare alle
proprie origini, alla fuga dal primo unico e vero nido, avrebbe fatto
bene ad entrambi che, alla stregua di tutti gli altri, erano
inconsapevolmente alla ricerca di certezze.
*
Brian non aveva un buon rapporto con le segreterie telefoniche: o
dicevano troppo, come nel caso dei messaggi minatori sparsi sul nastro,
oppure non dicevano assolutamente nulla, lasciando un karmiko silenzio
quanto a unico segnale di vita da chiunque avesse tentato di chiamarlo.
Nell'ultimo caso, il silenzio di Annie che lo aveva cercato –
stranamente – un'unica volta, da una parte lo irritava,
dall'altra lo terrorizzava.
Era un po' vittima di entrambi i sentimenti quando Brian aveva deciso
di richiamarla: non voleva niente in particolare da lei, nessuna
spiegazione per non averlo più cercato e tantomeno per non
avergli lasciato il solito messaggio furente in segreteria. Gli sarebbe
anche bastato un semplice “Come stai?” borbottato
oltre la cornetta, davvero.
Stranamente non pretendeva altro. Forse si sentiva in colpa, forse
aveva bisogno di chiederglielo perché, si rese conto,
né lui né lei si erano mai posti quella domanda
tanto banale. Probabilmente era tardi, ora che si trovavano spiaggiati
tra gli ostacoli della vita, ma magari sarebbe stato sufficiente per
incoraggiarsi a vicenda e riprendere ad avanzare.
Così, nel cuore della notte, il cantante aveva chiamato. Il
giorno prima era andato a festeggiare con Gave e gli altri, mentre
Annie era rimasta a casa; ora, sperava che fossero a casa entrambi
così da trovarsi.
Il telefono squillò, noioso e monotono, tante volte:
più squillava e più un'angoscia isterica iniziava
a salire per la gola secca di Brian, bloccandosi lì, sul
palato, schiacciata dalla lingua immobile.
Anche la saliva residua non voleva saperne di andare giù e
sparire definitivamente: languiva tra i denti, in attesa che un colpo
deciso la gettasse via. Nulla, ogni sforzo era inutile,
perché Brian era come paralizzato dall'attesa snervante, dal
suo bussare ad una porta che non voleva aprirsi e lui, stupidamente,
non capiva cosa ci fosse dietro essa.
“La Manica – mormorò qualcuno al suo
fianco – il mare sembra un'immensa piscina.”
l'acuta osservazione del paesaggio si risolse con un paragone piuttosto
infantile.
Brian accantonò i suoi pensieri e si sporse appena vicino a
Gavin, così da intravedere il mare; sorrise, fingendo un
certo stupore:
“Wow, trovi sempre il modo di divertirti, eh?”
“Si fa quel che si può.” rispose
l'irlandese con una scrollata di spalle.
“Amo gli uomini che si dedicano al fai da te.”
ammise, accavallando elegantemente le gambe.
“Lascerò correre sul doppio senso delle tue
parole.” sbottò, voltandosi e riprendendo a
guardare fuori dal finestrino.
“Oh, ma senti, senti!” esclamò il
cantante, scoppiando a ridere.
Anche Gave sorrise, eppure mascherò bene l'accenno di risata
spalmando la faccia contro il vetro rinforzato.
Volare con l'aereo non gli dispiaceva, anche se era da tanto tempo che
non aveva occasione di farlo. Generalmente per le feste importanti
tornava dai suoi, riprendeva i contatti con la sua famiglia, nonostante
i rapporti col padre rimanessero sempre freddi e distaccati.
Sua madre si preoccupava sempre per la salute di quel giovane figlio
privo del tetto famigliare e ogni volta che tornava lo strapazzava,
come se servisse per impedire che se ne andasse ancora. Altro fatto non
indifferente, sua mamma adorava Arja: chiedeva sempre di lei, di quello
che faceva e se mai si decidesse a sposare il figlio fuggitivo.
Ogni volta Gave le dava le stesse risposte: “Sì,
sta benissimo; sì, continua a fare l'avvocato per i diritti
civili; no, non ci sposiamo.”
E lei, delusa, si limitava a rispondere con il tono di una bambina
priva delle caramelle: “Capisco.”
Lo stesso rispondeva anche quando capiva che, no, non c'erano nemmeno
bambini-nipotini strapazzosi all'orizzonte. La sua vita era tutta
un'attesa: che il figlio si sistemasse, che finalmente mollasse quella
casa editrice per dedicarsi a scrivere un libro decente e, insomma, che
tornasse a casa, a condurre una vita normale lontana dalla sconosciuta
Londra.
Oh, sì. I suoi sapevano che il loro figlio era omosessuale.
Sua madre preferiva definirlo come omosessuale potenziale. Amava
illudersi che l'omosessualità fosse una cosa passeggera, una
sorta di momentanea deviazione dovuta all'assenza di ragazze adatte per
quel bellissimo e meraviglioso giovane che era suo figlio.
Quando anni dopo lui le aveva telefonato, avvisandola tra le altre cose
che si era messo con una ragazza, Erin era scoppiata a piangere: aveva
singhiozzato mormorando gioiosamente che grazie a un miracolo suo
figlio era guarito, allontanandosi dalla strada sbagliata per rientrare
in carreggiata.
Appena dette quelle cose, Gave aveva riattaccato senza pensarci due
volte e non l'aveva più chiamata; era stata lei, un mese
dopo, a cercarlo e a chiedergli come stesse.
Suo padre, beh, suo padre era un'altra persona: aveva capito anche
troppo bene che suo figlio non avrebbe mai smesso di provare attrazione
per gli uomini. Aveva capito bene anche che Gavin era confuso,
indeciso, capace esclusivamente di prendere la prima strada a portata
di mano, senza pensare alle conseguenze o a intrighi di particolare
sorta.
Questo era accaduto nel fidanzarsi con Arja: una persona che amava,
indipendentemente dal sesso o dalla nazionalità.
Perciò nella testa di suo padre la fidanzata era un ibrido,
una sorta di persona asessuata forte di un carisma a quanto pareva
eccezionale.
“Chi l'ha trovata?” chiese Gavin all'improvviso,
guardando fisso negli occhi Brian che – lo sentiva
– probabilmente lo stava già mandando a quel paese.
“Non io.” si limitò a rispondere; forse
amareggiato, forse stizzito. La verità era che Annie era
stata rinvenuta a terra in stato di incoscienza, con gli occhi riversi
e di fronte a sé una parete, con scritte parole che non
aveva avuto la forza, il tempo o il coraggio di pronunciare.
Parole che erano arrivate a Brian, il principe senza regno a cui erano
destinate.
Gavin annuì e poi, improvvisamente, strinse la mano del suo
amico d'infanzia: non così forte da stritolargli le dita ma
nemmeno tanto debolmente da risultare invisibile. Brian non si
sentì soffocato da quella stretta, per una volta,
bensì provò un certo conforto, la certezza di un
appoggio. Strinse a sua volta quelle mani più pallide delle
sue, coi calli a forza di scrivere sulla tastiera e prive dello smalto
alle unghie tagliate cortissime.
Passarono in quel modo gli ultimi minuti del volo, senza guardarsi o
contemplare lo spettacolo suggestivo dell'atterraggio che ricordava una
sorta di gigantesca attrazione odorosa di pericolo. Si tenevano
stretti, ripensando a tante cose.
Persino alla fortuna di aver trovato il giorno prima un conoscente di
Brian che, lavorando presso un'agenzia di viaggio, era stato in grado
di procurar loro in tempi record biglietti d'andata e ritorno per il
Lussemburgo.
Certo, Gavin avrebbe preferito se questo miracolo fosse accaduto prima
di spendere il pomeriggio in redazione a telefonare a destra e a manca,
tra aeroporti e agenzie, in cerca di biglietti –
anziché lavorare alla correzione di varie bozze, come
avrebbe dovuto fare.
Ma, d'altronde, non si poteva voler tutto dalla vita: era ancora tanto
che la Dea Bendata li avesse aiutati, anche se leggermente a scoppio
ritardato.
La città del Lussembrugo si beava della sua stessa
quotidianità; come in un filmato tutto uguale, la pellicola
scorreva immutabile, mostrando le stesse identiche diapositive: tante
casette a schiera dai giardini curati, ponti storici con dettagli
rifiniti, chiese e parchi privi di ogni qualsivoglia pericolo. Era un
bel posto in cui vivere, se si cercava non tanto la
normalità in sé quanto la staticità.
La garanzia, insomma, che alzandosi il mattino seguente si sarebbe
trovata la stessa aiuola del giorno prima, lo stesso traffico ordinato
dell'ora di punta, gli stessi agenti di pattuglia per le eleganti
strade.
Poi, certo, come tutti i posti assolati anche la città aveva
le proprie zone d'ombra, per quanto ben diverse dai mari neri
appartenenti alle Metropoli affollate oltreoceano.
L'aeroporto distava sei chilometri dal Lussemburgo, dunque il viaggio
in taxi per arrivare fino in città non fu particolarmente
lungo o pesante: era piacevole viaggiare trasportati da un autista
lungo le strade scorrevoli della cittadina, riscoprire come in un
incantesimo luoghi già visti, esplorare angoli in passato
poco considerati.
Brian e Gavin passarono diverso tempo a camminare. Alla stregua di
quando erano bambini, anche in quell'occasione marinavano le loro
responsabilità, fuggendo da esse per evitare di pensarci.
Ritrovando i negozi, le persone, l'aria immutabile di diversi anni fa
fu come se in qualche modo avessero finalmente l'occasione di svuotare
la mente: niente più preoccupazioni, dolori, ansie o
problemi. Ma poi, quando il ricordo inziava a sbiadire, subdolamente
tutto ciò che avevano tentato di dimenticare ritornava;
lentamente, nella stessa maniera di una spina infilata sotto pelle:
più si tentava di toglierla, più si affossava
nella carne. E pungeva, per quanto piccola e quasi inconsistente fosse.
Entrarono infine in un pub all'angolo. Uno di quei posti tranquilli e
senza troppe pretese, dove spesso si trovava eccellente compagnia per
una bevuta. Faceva un certo effetto vederne di aperti anche all'ora di
pranzo, anche se effettivamente vi era un regime diverso rispetto
all'Inghilterra, dove i pub erano sacrosanti.
Quando Gavin e Brian vi entrarono, sentirono immediatamente l'odore di
legno del bancone, degli alti sgabelli e del pavimento usurato dal
passaggio di camerieri e clienti. Sorrisero entrambi nello scorgere un
vecchio giradischi all'angolo. Le note di “Here I go again
loving you” degli Shadows risuonarono tra le foto
polverose che immortalavano avventori ormai anziani, trofei con qualche
ragnatela di troppo e uno specchio decorato da svariati ritagli di
giornale, risalenti a un periodo lontano.
Il tempo pareva essersi fermato, la stessa musica degli anni '50 che in
quel momento risuonava apparteneva ad un'altra epoca. Eppure le
chitarre, la melodia ipnotica iniziale, le parole... era tutto
così accattivante da sembrare essere stato creato apposta
per chiunque entrasse.
Mentre Brian pagò due Guinness, Gavin dette un'occhiata in
giro con le mani infilate nei jeans. Presso il bancone, un tizio
guardava una televisione agganciata al muro, con le frequenze che
spesso e volentieri saltavano. Una ragazza dotata di grembiule lavava
le stoviglie, muovendo forse istintivamente il bacino al tempo della
musica, le cui note ondeggiavano tra le pareti di mattoni a vista.
Brian prese le due bottiglie per il collo e ne porse una a
Gave, per poi farle toccare a vicenda. Tintinnarono appena e la schiuma
bianca all'interno si agitò. A quel punto bevvero entrambi
una sorsata, prima di dirigersi fuori con la bottiglia in mano con
tutta l'intenzione di passare quelle ore che rimanevano al meglio o,
almeno, così speravano.
Nel momento in cui Brian appoggiò la mano sulla porta,
però, il proprietario del locale li richiamò,
così che due dovettero voltarsi e attendere. L'uomo era un
signore anziano, dalla corporatura robusta e le mani grosse, callose,
di chi aveva lavorato tutta una vita. La barba tagliata corta era un
po' diradata, al pari dei capelli brizzolati; gli occhi, invece, erano
luminosi e attenti, capaci di ricordare ogni singola persona che fosse
passata per la porta di ingresso.
“Scusate ma... non vi ho già visto da qualche
parte?”
Brian e Gave si scambiarono un'occhiata divertita. L'irlandese
alzò le spalle ma Brian non mostrò tanto
apertamente il suo scetticismo, al contrario: “Dove avrebbe
avuto il piacere di vederci?”
L'uomo scoppiò a ridere e batté un pugno sul
bancone: “Ma certo! Voi eravate quei due ragazzini che ogni
tanto passavano lungo la via. Mi capitava di vedervi verso pranzo,
quando buttavo fuori la spazzatura. Certo, adesso siete un po' cambiati
però quegli sguardi... accidenti, vi sentivate
così importanti quando saltavate la scuola!”
Brian aggrottò le sopracciglia e assunse quell'aria un po'
nauseata che aveva appena percepiva che qualcosa non gli andava
propriamente a genio. Gavin invece si voltò verso la vetrata
semi-oscurata del locale e scrutò diversi istanti al di
fuori.
Sorrise quando ammise: “E' vero, allungavamo sempre la strada
di qui per non farci beccare.”
“Ah, ecco, sapevo di non sbagliare allora! Questi vecchi
occhi mi sono ancora d'aiuto qualche volta.”
ridacchiò il signore, infine prese due bicchieri e li
poggiò sul bancone.
“Complimenti per la memoria, farei carte false per arrivare
tra un paio d'anni e avere ancora tutti i neuroni
funzionanti.” disse Gavin con convinzione.
“Non contarci troppo.” replicò
amabilmente Brian, storcendo la bocca in una leggera smorfia che poi si
distese in un sorriso.
Il proprietario del pub prese una bottiglia di liquore tra quelle
gelosamente custodite su uno scaffale un po' isolato ed
esclamò:
“Avanti, ragazzi, prendete del buon whisky
d'annata, offre la casa!”
Al sentire il nome Whisky, Gave si ricordò della gatta
rimasta nelle mani di Val e Christen. Scosse la testa e si
limitò a dire: “No, grazie, gentile davvero ma mi
accontento della birra.”
Non ci teneva a dover subire una lavanda gastrica proprio in
Lussemburgo, con tutte le volte che l'aveva evitata a Londra.
Brian confermò e aprì la porta, per poi proporre:
“Offra i nostri bicchieri alla ragazza che lavora con voi e
al signore che tenta di guardare un canale che l'antenna non
riuscirà mai a prendere.”
Il barista, perplesso, li fissò andarsene.
Borbottò qualcosa, incredulo, poi alzò le spalle
e dette una botta al televisore, sporgendo il whisky alla sua lavorante
e allo sconosciuto cliente fisso che cercava canali fantasma. Sorrise,
quando vide camminare in strada quei ragazzi che anni fa erano
più giovani e probabilmente meno esperti del mondo.
Chissà, adesso, cosa avevano accumulato sulle spalle.
Qualche metro più avanti, Brian e Gavin scorsero il parco
cittadino principale. Lo costeggiava una strada curata, affiancata da
un muretto sobrio che cingeva i caseggiati vicini. A quel punto, con in
mano la bottiglia di birra, si sedettero su una delle tante panchine
riverniciate da poco.
“Ho una teoria – annunciò infine Gave,
annuendo – è da un po' che ci pensavo.”
“Sentiamo, è l'alcol a galoppare sui tuoi neuroni,
in questo momento?” ironizzò Brian, per poi ridere
amabilmente della sua stessa battuta.
“No – replicò, senza perdere la
compostezza – credo che Dio, Buddah, Allah, Javeh o chi per
esso abbia avuto un buon motivo per permetterci di sorridere.”
Cadde il silenzio.
Brian aggrottò le sopracciglia, per poi inspirare
pazientemente e fare presente: “Temo di essermi perso al no,
Gave.”
L'irlandese giocò distrattamente con l'etichetta della
guinness e quando rialzò gli occhi scrutò l'amico
al suo fianco.
“Possiamo sorridere, ma non lo facciamo mai quanto vorremmo.
Penso che meritiamo tutti di essere più felici.”
Pronunciate quelle parole, Gavin O'Connell guardò fisso
davanti a sé. Gli occhi verdi erano leggermente umidi, quasi
come se un vento fastidioso gli soffiasse contro.
“Lo so – convenne Brian – solo che non
è facile.”
Due ragazzini con lo zaino in spalle iniziarono a intraprendere la
camminata lungo il ponte che dava sul grande parco: sarebbero passati
davanti a Brian e Gave in una sorta di sfilata, ricordando loro quei
momenti che essi a loro volta, anni fa, avevano passato, quelle stesse
strade percorse, l'identica allegria spensierata dei sognatori.
“Andrai a trovare Annie in clinica quando si sarà
ripresa?” chiese all'improvviso Gavin, lasciando il bicchiere
vuoto accanto a sé.
E poi giunse la risposta di Brian, fredda quanto il sole d'inverno:
“No. E' meglio se io e lei prendiamo strade separate. Sempre
che si riprenda.”
Quel giorno Gavin avrebbe potuto accusare Brian di essere tante cose:
ipocrita, menefreghista, persino indifferente. Ma non lo fece. Sapeva
che nessuna di queste era vera.
Si limitò, con tranquillità straordinaria, a
insinuare la sua domanda irriverente, caricandola però di un
peso che doveva necessariamente far riflettere: “Hai paura,
Brian?”
Di diventare uguale ad Annie; di leggere negli occhi di Hope accusa,
senso di perdizione e soprattutto quell'angoscia che a sua volta il
giovane Molko stava tentando di allontanare da sé in tutti i
modi.
Inaspettatamente, il cantante dei Placebo non rispose.
Lasciò cadere nel vuoto l'interrogativo, accendendosi con
una calma quasi serafica una sigaretta, disperdendo oltre le labbra
carnose una nuvola di fumo che volteggiò un istante
nell'aria, prima di scomparire.
“Sai – osservò improvvisamente, con gli
occhi azzurri rivolti verso il cielo – forse Dio ci ha
incollato il sorriso. Ci ha imposto di usarlo e noi possiamo sfoderarlo
in qualunque momento. Questo, però, non implica
necessariamente che siamo felici.”
Concluse il discorso sfoderando un sorriso tirato e artificiale. I bei
denti bianchi erano brillanti, messi in risalto dall'incarnato pallido
e dalle labbra senza rossetto.
Gave scherzò con tono affettuoso: “Ti prego,
smettila, o dovrò metterti una museruola uguale a quella di
Hannibal Lecter.”
Brian rise, alzando appena le spalle, per poi prendere un'altra sana
boccata di fumo.
“Ancora non sono arrivato a volerti divorare –
osservò, per poi tendergli il pacchetto di sigarette
– vuoi?”
Dopo aver annuito con un cenno della testa, Gavin ne prese una e se la
portò alla bocca. Brian tirò fuori l'accendino e
affiancò la propria mano a quella dell'irlandese, che aveva
eretto la sua piccola barriera contro il vento. Quel contatto di Brian,
quella mano appoggiata sulla sua, l'accendino illuminato da una fiamma
danzante: Gave non se l'aspettava.
I due si guardarono negli occhi, oltre il fuoco e il fumo, accogliendo
in quello sguardo intenso solo il silenzio e il pacato concerto della
città.
Poi, improvvisamente, la sigaretta si accese, l'accendino venne
richiuso e le mani si allontanarono: sordide, scivolarono nella tana
accogliente che era la tasca dei jeans o l'appoggio in legno della
panchina, al pari di serpenti tra le foglie.
Gavin non era deluso. Entrambi erano fuggiti, in straordinaria
sincronia. Aspirò a sua volta dalla sigaretta e quando
espirò, paradossalmente, non credette neanche per un istante
che Brian stesse scappando dai suoi problemi. Forse aveva
più semplicemente deciso di rallentare, perché
Annie si era già schiantata a terra.
Sfuggire alla gravità, d'altronde, era impossibile.
*
Gavin nemmeno sapeva perché i suoi piedi lo conducessero in
quella direzione. Di sicuro l'alcol non c'entrava, lo stesso valeva per
il fumo. Stranamente, non era nemmeno colpa di Brian. Al contrario,
quella volta era stato l'irlandese a chiedere una piccola svolta, prima
di chiamare il taxi che li avrebbe riaccompagnati all'aeroporto.
Finché non si arrestò davanti a casa propria. La
guardò e provò una fitta al cuore a causa della
nostalgia: in quel giardino da piccolo aveva giocato fino a sporcarsi
con la terra, su quel porticato aveva fatto leggere a sua madre il
primo racconto, sulla porta la prima fidanzatina aveva bussato furente,
protestando perché Gave l'aveva mollata.
In fondo casa sua non era che una delle tante villette a schiera,
bella, dal giardino curato, le aiuole potate, il portico con la sedia a
dondolo e la macchina parcheggiata sul vialetto di fronte al garage.
Appunto, la macchina parcheggiata. Questo voleva dire che la casa non
era vuota come Gavin aveva sperato.
“Andiamocene.” disse in un soffio.
Era stato stupido. Pensare di presentarsi a casa dei suoi, senza che vi
fosse una festa di mezzo e si mostrasse spensieratamente felice,
rasentava il paranormale. Inoltre, in quel momento era tutto meno che
spensierato.
Brian alzò le sopracciglia e dilatò appena le
narici, per poi puntare le dita con la sigaretta accesa contro l'amico
e domandare, usando un tono di cinica superiorità:
“Dove ti stai dirigendo, esattamente?”
“A chiamare un taxi.” rispose, fingendo un sorriso.
“E' casa tua, no? - notò, sbattendo vezzosamente
le ciglia in direzione dell'edificio – entra e chiama da
lì.”
Gavin sbottò qualcosa di incomprensibile per poi ammettere,
piuttosto seccato: “Ho cambiato idea, non ho voglia di
vederli, di parla...”
Ma troncò la mirabile arringa difensiva perché si
accorse che ormai era già troppo tardi: Brian Molko, spenta
la sigaretta a terra, era partito a testa alta e a passo di carica per
attraversare il giardino. Gavin corse nella sua direzione, tentando di
salvare il salvabile. Scoprì, in quei pochi metri di prato
verde, di sentirsi come un alunno impreparato per sostenere il compito
in classe: meschino, perché già sapeva di doverlo
affrontare.
Afferrò l'amico per un braccio e lo guardò dritto
negli occhi, appoggiandogli un dito contro il petto:
“Non farmi questo – sussurrò per poi
scandire – Dimenticati. Di. Questa. Casa.”
Brian lo guardò di rimando e improvvisamente chiese:
“C'è ancora l'aquario dei pesci?”
Gavin avrebbe tanto voluto prenderlo per le spalle e costringerlo, se
necessario, a rotolare giù per il prato pur di porre fine a
tutta quell'assurda situazione. Lo irritava tremendamente che qualcuno,
fosse anche Brian, si infilasse senza permesso nella propria vita,
nelle faccende che non riguardavano altri che lui, e avesse la faccia
tosta di chiedergli di pesci morti almeno tre anni fa.
Ma, purtroppo, non ebbe tempo. La porta si aprì e una
signora di mezza età si affacciò scrutando prima
pensosa, poi sorpresa, i due giovani uomini che le sostavano di fronte.
“Gavin?” domandò portandosi una mano al
petto.
Il ragazzo tirò un profondo sospiro: “Ciao,
mamma.”
Pronunciò quel mamma in un bisbiglio.
Erin mise piede fuori e andò ad abbracciare il figlio,
tastandolo come chi non credesse al miracolo di un'apparizione
totalmente inaspettata. Gli accarezzò una guancia,
nonostante la ritrosia di Gavin, mentre Brian stette a guardare un po'
in disparte, provando un intimo compiacimento per quella versione
raccatta-affetto di Gavin.
“Non credevo che saresti passato. Arja mi ha accennato che
eri partito ma vederti davvero mi rende... felice.”
sospirò, sorridendo.
“Arja ti ha chiamato?” domandò Gavin,
con il tono d'accusa di un bambino che aveva sorpreso l'amichetto a
fare la spia.
“Sembrava preoccupata per te.” notò,
premurosa.
L'irlandese alzò gli occhi al cielo ma non
replicò. Non capì come facesse la sua ragazza a
risultare così irrimediabilmente simpatica agli sconosciuti
e a passare con tanta facilità informazioni strettamente
riservate.
La signora poi giunse le mani e spostò gli occhi un po'
acquosi su Brian. Lo fissò attentamente, incurante di quanto
maleducata potesse sembrare quell'attenzione. Prese a studiarlo,
impassibile, e le guance leggermente cadenti, che ricordavano quelle di
uno sharpey , sembrarono essere strette in una morsa d'acciaio.
“Brian, vero?”
“Me lo chiede perché si ricorda di me o
perché glielo ha gentilmente riferito Arja?”
domandò, pungente.
“Entrambe le cose – rispose la donna, sfoderando un
sorriso – ma non stiamo qui a parlare davanti alla porta.
Entriamo, vi offro un buon thé.”
Gavin e Brian si scambiarono un'occhiata. Poi l'irlandese rispose:
“No, meglio di no. L'aeroporto...”
“Suvvia, non fare storie, non hai più cinque anni.
Avrai l'aereo nel tardo pomeriggio, passare un po' di tempo con me non
ti farà certo crollare il mondo.”
“Beh, non mettiamola proprio in questi termini...”
borbottò, infilando le mani nelle tasche dei jeans, mentre
con lo sguardo cercava una via di fuga.
Brian alzò appena le sopracciglia e scrollò le
spalle, mascherando abilmente il sorriso a fior di labbra. Gavin
cercò il suo appoggio, una scusa, una bugia qualsiasi che lo
aiutasse ad evadere da quella prigione fatta di sbarre trasparenti;
però, nel voltarsi verso il cantante, non trovò
l'aiuto sperato, solo una sfuggente occhiata di chi faceva finta di
nulla.
“Grazie.” sussurrò a fior di labbra
quando, suo malgrado, entrò in casa.
“Di nulla.” bisbigliò Brian di rimando,
fissandolo con gli occhi chiari che trasparivano un certo divertimento.
L'irlandese non seppe il perché il cantante si comportasse
in quel modo. Certo, poteva capire come mai si divertisse: anche lui,
se fosse stato un altro e non il figlio che aveva vissuto l'adolescenza
in quella casa, si sarebbe divertito un mondo. Però, gli
riusciva difficile realizzare cosa in realtà volesse Brian;
forse nulla, o forse desiderava soltanto comprendere qualcosa che gli
sfuggiva da troppo tempo.
In ogni caso non ebbe più tempo per pensarci: tutte le sue
attenzioni furono concentrate nell'evitare che sua madre manipolasse
odiosamente la conversazione, dirigendola verso lidi scomodi e
imbarazzati, esattamente com'era imbarazzante Brian quando troppo
ubriaco.
Si sedette sul divano dalla fodera floreale e l'odore antico, scrutando
con aria non troppo amichevole Brian che gli si sedeva accanto,
appoggiando il gomito allo schienale e accavallando appena le gambe,
per dare mostra di una persona assolutamente sicura di sé: a
ben pensarci, era l'identica posa che assumeva durante le interviste.
Gavin non si sarebbe sorpreso se sua madre avesse tirato fuori un
microfono, iniziando a porre le stesse odiose domande che facevano
tutti i giornalisti.
Invece, purtroppo, non ci fu alcun microfono, anche se comparve la
domanda: peccato fosse rivolta a lui e non a Brian.
“Un po' di thé?” chiese la donna,
rimanendo ancora in piedi.
Suvvia, in fondo poteva andare peggio.
Gave scosse la testa: “No, grazie.”
“Sì grazie.”
Si voltò verso Brian, guardandolo piuttosto sconcertato e
infastidito. Questi si limitò a far finta di nulla.
“Andate proprio d'accordo, vero?”
scherzò lei.
Splendido, ci mancava solo più l'ironia da donna di mezza
età. La donna in questione sospirò per poi
allontanarsi verso la cucina, da dove si sentirono i tipici rumori di
chi si apprestava ad avvicinarsi ai fornelli.
Gavin dilatò appena le narici e mormorò,
piuttosto irritato:
“Si può sapere che accidenti ti è
preso? Cos'hai, un attacco di mammite?”
“No, Gave. Ma dovresti avercelo tu ogni tanto. Non parlavi di
felicità, sorrisi e tutte quelle cose molto
affettuose?”
“Questo non c'entra assolutamente nulla.”
sbottò.
“Certo.” si limitò a rispondere, per poi
sgranare appena gli occhi come un bambino meravigliato quando vide
entrare la madre dell'amico, con un bel vassoio colmo di tazzine e
biscotti. Ovviamente stava fingendo, vista la sua scarsa propensione a
tazze in porcellana e dolcetti casalinghi, ma Gavin era tenuto a non
rivelarlo in quella circostanza.
Sua madre si sedette sulla poltrona, versando con grazia amorevole il
thé nelle rispettive tazze. Dopo qualche secondo
guardò il proprio figlio e domandò ancora,
afferrando per il manico la tazzina.
“Allora, dimmi un po', come va il lavoro?”
Gavin non rispose subito. La sua genitrice preferiva stare sul vago.
Molto pericoloso, questioni infide e spinose potevano saltare fuori
all'improvviso.
“Alla grande. Da' parecchie soddisfazioni. Ben presto
scriverò un articolo anche per il nuovo CD dei
Placebo.”
Lanciò la frecciata. Guardò Brian sorridendo.
Questi lo fissò, sorseggiando pericolosamente silenzioso la
bevanda.
“E chi sono?” chiese lei, girando con cura lo
zucchero.
“Il gruppo di Brian. Conosci Brian, vero?” in
quella domanda retorica c'era la sua malevola ironia migliore.
“Ma davvero? - domandò, con affettata cortesia
– Gavin mi parla sempre troppo poco dei suoi amici. Sono
contenta per te, caro.”
Sorrise. Brian sorrise a sua volta. Gave si chiese come facessero
quelle due persone, così diverse, ad essere inquietanti
nell'identica maniera mentre ridevano.
“Sa – ammise improvvisamente Brian, posando la
tazza – Gavin è qui perché l'ho
costretto io. Quella che è ormai la mia ex-ragazza ha
tentato il suicidio e io sono venuto fino in Lussemburgo, trascinandomi
dietro suo figlio.”
Cadde un pesante silenzio.
In quel momento, l'irlandese Gavin O'Connell avrebbe voluto far
affogare il suo presunto amico Brian Molko in ogni fiume, mare, distesa
d'acqua disponibile nel continente Europeo. Doveva accontentarsi
però della teiera fumante, o della tazza del water, a
seconda di ciò che gli dettava l'ispirazione vendicativa del
momento.
“Non mi sembra il caso di... - lanciando un'occhiata a sua
madre, capì che la difesa doveva essere più
convincente – lascia stare, le cose non stanno esattamente
così. Brian ha il gusto per l'esagerazione.”
“No, le cose stanno esattamente così. A proposito,
il thé è davvero ottimo.” sorrise
ancora.
Erin, moglie di Edward O'Connell, madre di un unico figlio che aveva
rifiutato il suo aiuto nell'editoria e che non aveva mai capito, trasse
un profondo sospiro. Si umettò le labbra e ricomponendo le
pieghe della gonna disse a fatica.
“Gavin, capisco perfettamente quello che vuoi dirmi. Dunque
non avere paura e dimmelo, faremo prima tutti e due.”
Sbatté più volte le ciglia, quasi fosse in
procinto di piangere.
“Dirti cosa?” domandò Gave confuso.
I due, madre e figlio, si fissarono diversi secondi.
Poi Erin posò un biscotto che era incerta se mangiare o meno
e domandò improvvisamente:
“Avanti, come l'ha presa Arja? Immagino non bene.”
Brian assottigliò appena gli occhi e contrasse le labbra
carnose, invece sulla difensiva Gavin rispose:
“Ne è rimasta un po' sconvolta ma, insomma, era
piuttosto prevedibile. La colpa è anche nostra, abbiamo
fatto finta di non accorgerci di quanto le cose fossero
cambiate.”
“Immagino – sibilò Erin velenosa
– potevate realizzarlo prima. Tutti i vostri sogni
infranti...”
In quelle ultime parole c'era una sorta di patetico pathos da teatro di
quattro soldi.
“Sicuramente – concordò Gavin
– però queste sono cose che non puoi contrastare.
Accadono e basta.”
Scrutò la madre. Questa si irrigidì e
fissò prima lui, poi Brian, con una certa
ostilità che aveva lasciato inaspettatamente il posto alla
zuccherosa disponibilità di poco prima.
“Gavin – accennò all'improvviso,
cercando di contenere il tono di voce – tu vieni qui e ti
aspetti, dopo queste parole, che io ti dia il mio consenso? Hai davvero
bisogno della mia approvazione dopo esserti comportato da
ipocrita?”
“Consenso? Che...” allargò le braccia e
avvertì una certa rabbia scorrergli nel sangue, una voglia
insana di rovesciare quello squisito tavolino borghese. Però
non doveva essercene motivo: in fondo si trattava di una pacifica
chiacchierata in soggiorno. Peccato che sua madre stesse vaneggiando su
consensi e perdoni che lui non aveva mai chiesto.
Improvvisamente, Brian trattenne il respiro. Fu come se avesse avuto
una folgorazione. Il suo sorriso e il suo sguardo si fecero
più gelidi, plastici esattamente alla stregua di quando la
domanda scomoda, posta dal giornalista di turno, arrivava sparata a una
velocità che la rendeva impossibile da schivare.
“Andiamo, Gavin. Mi sembra palese. Pur vivendo lontano tu sei
mio figlio. So ciò che sei. La scusa che ha tirato fuori il
tuo amico è un pretesto un pochino macabro, trovo.”
Dicendo quelle parole si pulì appena le labbra con un
tovagliolino ricamato.
In quel momento, Gavin si sentì una sorta di automa. Dovette
analizzare ogni singola parola, ogni frase, per darle un senso
concreto. Poi inspirò appena e sussurrò,
recependo soltanto una cosa:
“Ciò che sono? E secondo te... cosa sono?”
Erin era chiaramente imbarazzata. Roteò gli occhi, come in
cerca di un aiuto facile, ma in un primo tempo non parlò.
Fu Brian invece, con lampante schiettezza, a farlo:
“Omosessuale?”
“Quello.” confermò la donna con
convinzione, evitando lo sguardo sconcertato del figlio.
“Cristo Santo, vuoi dirmi cosa c'entra tutto questo con
Annie?”
Erin sgranò gli occhi, spalancando la bocca:
“Cielo, chi è adesso Annie? Uno di quei travestiti
imbellettati che frequenti tu? Avanti, sono pronta al peggio.”
Sbatté una mano sulla coscia, mentre con l'altra si
massaggiò la tempia.
Gavin stava per esplodere. L'uomo calmo, ironico, che si lasciava
scivolare tutto addosso ora era un ragazzo ferito che sentiva il
proprio mondo crollare per colpa di mani che, anziché
aiutarlo e sostenerlo, lo stavano sgretolando.
Brian invece rise sobriamente, incrociando le dita, per poi correggere
la donna:
“Nessuno di questi. Annie è la mia ex-ragazza. La
donna che ha tentato il suicidio. Mi spiace che lei abbia una
così scarsa opinione sia di Annie che di suo figlio
– fissò un istante Erin – evidentemente,
non li conosce
abbastanza.”
Per una madre era difficile vedersi sbattuta in faccia una frase
simile. Soprattutto se vera, per quanto si desiderasse il contrario.
Ma Erin affrontò la situazione con compostezza, limitandosi
a riservare un'occhiata piuttosto rancorosa a Brian per poi,
stranamente, abbassare la testa e rimanere diversi istanti in silenzio.
“Andiamocene.” disse improvvisamente Gavin,
alzandosi. Non voleva proprio litigare. Sentiva che gli mancavano le
forze e le parole. Le maledette parole gli sarebbero schizzate fuori
dalla bocca, più veloci di quanto non fosse lui nel cercare
di star loro dietro: le avrebbe perse, finendo per ferire.
“Aspetta – lo arrestò sua madre,
alzandosi a sua volta in piedi – io credevo che avessi
lasciato Arja per stare con lui e...”
“Splendido, continua a giocare a indovina la coppia da sola
mentre io torno a casa. A Londra.”
“Ma perché devi per forza fare così?
Io... voglio solo che tu sia felice.”
“Con Arja.” precisò, velenoso.
Brian lo guardò attentamente e comprese che Gavin era simile
a un animale poco propenso alle catene. Si trovava braccato, in gabbia,
con le luci puntate contro gli occhi. Ferito, disorientato e accecato
attaccava senza curarsi di cosa esattamente andasse a colpire: che
fosse il cuore o la gola, non aveva importanza.
“Questo è solo perché sono egoista. E
sono una madre. Lo sai, ormai: mi piacerebbe vederti sistemato come un
uomo qualsiasi. Sposato con una moglie che ti ama, con dei bambini, una
casa accogliente. Vedere che la tua idea di felicità non
coincide con la mia mi fa soffrire.”
Rimasero in silenzio.
Brian in quelle parole percepì qualcosa che avrebbe voluto
essere destinato a lui: la confessione mancata dei suoi genitori, molto
più orgogliosi e insofferenti rispetto alla compunta Erin
della classe media del Lussemburgo. Non poteva sapere se Gavin fosse in
grado, in quel momento, di capire l'importanza di quel gesto di
apertura. Forse l'animale selvaggio era troppo spaventato dalla
prigionia delle mura domestiche per rendersene conto.
“Non posso farci niente.” replicò il
figlio. Apparentemente in modo aggressivo, in realtà
sembrava quasi rassegnato.
“E' semplicemente che... per te in questo modo la tua
esistenza sarà più difficile. Perché
gli altri non ti accettano, non capiscono quello che sei e
ciò che provi. Vorrei che per te ogni cosa fosse in discesa,
invece è tutto in salita.”
Si zittì, fissando le tazzine ormai vuote e i biscotti non
mangiati. Gavin non parlò. Stranamente, si chiese cosa
provasse sua mamma in quel momento. Difficilmente condivideva i suoi
stessi sentimenti ma forse entrambi, nella parte più
profonda di loro stessi, avvertivano una paura indefinita che li aveva
inevitabilmente spinti così distanti l'uno dall'altra.
Allora, da figlio, Gave avrebbe potuto percorrere quella distanza,
riaprire realmente la porta di casa e riconciliarsi con Erin. Ma non lo
fece. Si limitò a schioccare la lingua e ad annunciare:
“Dobbiamo andare all'aeroporto. Perdo l'aereo.”
Sua madre avrebbe voluto mascherare la delusione che, invece, fu
palese. Forse si era illusa di intrappolare Gavin dicendogli la
verità, magari era solo il suo pretesto per svuotarsi di un
peso e rassicurarlo che, qualsiasi cosa lui avesse fatto, lo avrebbe
amato ugualmente. Non aveva colto però l'importanza di cosa
significasse essere appoggiati nelle proprie scelte, oltre che amati.
Anche per quello, Gavin fuggiva.
E Brian? Chi era, Brian? Erin non si sarebbe aspettata quel suo
silenzio, quel modo franco e comprensivo di affiancarlo. Forse era un
amico, dotato però del dono della comprensione. Lei aveva
creduto fossero amanti, e probabilmente lo erano, senza
però...
amarsi.
“Capisco.”
Sulla porta, Gavin fece per andarsene. Poi, dopo un istante di
riflessione, si voltò a guardare la cornetta del telefono,
sistemata su un mobile d'antiquariato nel corridoio d'entrata dove
sostavano. Avrebbe potuto chidere di fare una telefonata alla clinica e
sapere come stesse Annie. Però sentiva che i suoi desideri
erano diversi da quelli di Brian e, nonostante tutto, non aveva
né la prontezza, né l'animo di andare contro di
lui. In fondo, era un amico che cercava solo di lasciarsi, per un
giorno, tutto alle spalle.
"Telefona quando arrivi.” accennò Erin, in
straordinaria quanto inconsapevole telepatia.
Raccomandazione da mamma. Si sentiva stupida a dirglielo.
Inaspettatamente, però, Gavin annuì:
“Lo farò. Anche se breve, ho pochi spiccioli per
le cabine telefoniche.”
Sorrise. E in quel sorriso, Erin rivide il Gave di tredici anni che le
faceva leggere il suo racconto presso il porticato: con le lentiggini
sulle guance pallide, il naso appena arricciato in una smorfia di
disappunto e i capelli scuri arruffati dall'umidità delle
recenti piogge. Una storia apparentemente distaccata come il suo modo
di esporsi, in realtà profonda e troppo autobiografica.
Erin, orgogliosa, gli sorrideva a sua volta, anche se in
realtà era spaventata all'idea che qualcuno potesse capirlo
meglio di lei.
Che sorriso meraviglioso e bugiardo.
*
Hope si guardò distrattamente il braccialetto della clinica
che aveva al polso: ricordava quello che davano ai neonati. Forse anche
lei era appena nata, risorta a nuova vita dopo la morte.
Annusò il camice che odorava di medicinali, paradossale che
fossero i farmaci a salvarla da altri farmaci. Li immaginò
lottare nel suo stomaco armati di scudi, lance e tutti quei mistici
componenti che li rendevano tanto imbattibili.
Il sorriso le si spense quando vide Brian entrare senza un minimo di
preavviso, com'era logico aspettarsi da lui.
In realtà, Brian aveva impiegato un bel po' di tempo a stare
immobile davanti a quella porta chiusa: non avrebbe voluto aprirla,
entrare dentro la stanza e dover parlare. Sarebbe stato molto
più semplice e vigliacco troncare ogni rapporto
allontanandosi. Ma oramai aveva il dovere di compiere quel passo in
più, per quanto difficile. Così, aveva cercato di
controllarsi: da una parte, tenendo a freno la rabbia per essersi
sentito tanto indeciso; dall'altra, scacciando la paura primordiale
avvertita prima di sapere come stesse lei.
“Ciao, Annie.” la salutò, apparentemente
cordiale.
Lei in cambio scrollò le spalle. Però, lo
scrutò avvicinarsi ai biglietti di incoraggiamento
provenienti da amici e conoscenti vari: Brian li lesse
mostrando un'aria appagata, per poi sedersi sulla comoda poltrona
imbottita riservata agli ospiti.
“Bella stanza. Ti trovi bene?” domandò.
“Se è il tuo patetico modo per chiedermi come sto,
beh, non c'è male, grazie.”
Brian sospirò. In quel momento avrebbe tanto voluto avere
una sigaretta.
“Non essere scontrosa. Sono straordinariamente sobrio e
venuto con intenzioni di pace.”
“Così mi spaventi.” replicò
lei, con una punta di acidità nonostante l'ironia.
Stranamente Brian non rispose. Si alzò in piedi e si
avvicinò alla finestra che dava sul giardino della clinica.
Si tirò dietro un orecchio il ciuffo di capelli che gli
andava davanti agli occhi e grattò distrattamente un'unghia,
facendo saltare via parte dello smalto nero.
“Sono tornato ieri dal Lussemburgo.”
Sembrava una confessione dal prete. Un po' meno impegnata ma
altrettanto seria.
Annie fu piuttosto sorpresa.
“Brian, dicevi che non saresti tornato in Lussemburgo nemmeno
da morto.”
“Già. E considerando che la morta eri quasi tu, il
mio gesto è andato parecchio contro i miei
precetti.”
Inaspettatamente, la ragazza accennò ad un sorriso:
“Gavin di solito ama chiamare tutto questo Molkesimo. Dovevo
immaginare che eri adepto del tuo stesso culto.”
“Gavin dice e ama tante cose, non darti pena ad ascoltarlo
visto che tanto lo odi comunque.”
Tornò a sedersi sulla poltrona, appoggiando mollemente i
gomiti ai braccioli.
“Non lo odio.” replicò lei,
giocherellando con il braccialetto di plastica.
“Così come non ami me?”
Si fissarono. Erano nient'altro che un uomo e una donna, in una stanza
d'ospedale. Li accomunavano molte più cose di quanto non
pensassero o volessero vedere, eppure ciò che avrebbe dovuto
unirli in realtà li separava. Nella sua follia e
disperazione, Annie era riuscita ad avere il coraggio di staccare la
spina, anche se non con la forza adeguata che le avrebbe permesso di
spegnere la luce per sempre.
Brian invece non aveva mosso dito. Era rimasto ad attendere, con la
paura che prima o poi rischiasse di seguire la strada di Hope.
“Non so più niente. Non ho mai saputo,
né avuto niente.”
In quella confessione sussurrata, Annie non cercava pietà o
compassione. Era una semplice constatazione dei fatti, dolorosa certo,
ma ormai talmente ovvia agli occhi suoi e di Brian da essere palese.
Poi, improvvisamente, proseguì: “Dimmi, il viaggio
ti è servito per riflettere?”
“Non proprio. E' stata una scelta istintiva e il tempo era
troppo poco – trattenne un istante il respiro, prima di
ammettere – l'ho fatto perché ne ho sentito il
bisogno, forse ero in astinenza: te ne sei andata e... all'improvviso
sono rimasto senza la mia droga preferita. Allora, è
ritornato tutto quello che credevo di aver lasciato.”
Aveva le mani intrecciate, allacciate come il più stretto
dei nodi. E anche Annie, istintivamente, teneva giunte le proprie.
Sembravano avere entrambi paura di sfiorarsi.
“Ti sarò sembrata stupida. Sono sempre stata
stupida, lo ammetto.” rise. Una risata triste, che non la
rese preparata alle parole di Brian, il quale si guardò le
mani prima di notare.
“Non avrei mai pensato che tu mi facessi sudare. Nemmeno che
sarebbe stato lo stesso per te.”
Hope si guardò a sua volta le mani e, scioccamente, si
sorprese nell'accorgersi che erano sudate: per la tensione,
l'agitazione che le provocava quell'incontro e un dialogo troppo a
lungo rimandato; era sempre stato così con Brian. Si
sentì sciocca a non aver capito che lui provava lo stesso
identico sconvolgimento.
“Niente di quello che abbiamo preso, fatto, desiderato
è servito a scacciare via il dolore.”
“Probabilmente
non abbiamo preso, fatto, desiderato abbastanza.”
rispose Brian, rivolgendo gli occhi dalle ciglia vezzosamente lunghe
verso il soffitto. In quello sguardo infantile, in realtà,
non c'era nulla di adolescenziale o spensierato.
“Non volevo farti del male.” ammise infine il
ragazzo. Disse quelle parole quasi in un sospiro.
Hope sentì gli occhi lucidi e il labbro tremare. Detestava
essere debole, detestava scoppiare a piangere e svestirsi della sua
dignità.
“Nemmeno io.” sussurrò. Sussurrava
perché parlando a voce alta il groppo in gola l'avrebbe
fatta sciogliere in lacrime: erano lì, in agguato, talmente
subdole da toglierle il respiro.
Infine Brian si alzò in piedi. Quella volta non per
dirigersi verso la finestra ma per andare in direzione della porta che
aprì, voltandosi per guardare la ragazza stesa sul letto.
Lei lo salutò con un cenno del capo e lui fece altrettanto;
nessuno dei due sapeva dove sarebbe andato. L'importante era non
parlare ancora o avrebbero rischiato di cascare nuovamente nella
trappola scavata in quegli anni.
Quando la porta si richiuse, sia Brian che Annie provarono per un
attimo un senso di smarrimento: era vero, la droga preferita veniva a
mancare. Ma seguì una strana consapevolezza che tutto, in
futuro, sarebbe andato per il meglio.
Hope volse la testa verso il comodino e scorse un biglietto. Allora si
alzò a sedere, facendo appoggio sul cuscino, e quando si
accorse chi era il mittente rimase piuttosto sorpresa.
Lesse l'unica riga che vi era scritta e scoppiò a ridere,
mentre una lacrima le scappò dagli occhi. Allora, i suoi
sforzi non erano valsi proprio a nulla.
Ora non aveva niente tra le mani, se non un pezzo di carta. E si
sentiva sola, con il vuoto sotto di sé a circondarla.
Proprio per questo doveva promettersi di ricominciare.
*°*°*°*
Gennaio 2006
Gavin si riscaldò le mani nella lotta contro il freddo
invernale, suonò il campanello e attese, per poi fissare
perplesso Brian quando gli andò ad aprire, accogliendolo
presso alla porta.
“Oh, no.” si limitò a dire.
“Anch'io sono felice di vederti, Gave.”
Arja lo raggiunse con in mano una busta contenente diversi prodotti
caserecci che si era curata di cucinare. Vedendo Brian,
scoppiò a ridere ed esclamò:
“Accidenti! Ti sei proprio rasato a zero!”
“Preferisco chiamarlo taglio netto.”
ironizzò lui amabilmente.
Dette una sbirciata veloce dentro il sacchetto e poi le diede un bacio
sulla guancia:
“Auguri alla festeggiata! Benvenuta nella soglia dei trenta
come noi comuni mortali.”
“Preferivo rimanere nella soglia dei venti ma mi
accontenterò.” scherzò, abbracciandolo.
Gavin seguì poi l'amico in casa. Per la precisione la casa
di Barry che si era dimostrato particolarmente entusiasta, o
sconsiderato che dir si volesse, nel condividere il focolare domestico
con gli amici di Brian. Probabilmente non aveva ancora conosciuto le
maglie fucsia e pelose di Val o, se lo aveva fatto, non ne era rimasto
traumatizzato abbastanza.
Nel percorrere il breve corridoio d'ingresso, Gavin si sorprese di
quanto in quegli anni le cose fossero cambiate. Non tanto per lui e per
Arja a dire il vero, anche se erano in procinto di farlo, visto che il
viaggio in Finlandia dai genitori di lei, tanto rimandato e temuto, si
era rivelato meno disastroso del previsto. Nell'incontrare il padre di
Arja, Gave si era rotto la caviglia; non per colpa del genitore che,
bontà sua, non lo aveva menato, bensì a causa di
una lastra di ghiaccio lungo la scalinata d'ingresso.
Tutto sommato passarsi le vacanze in stampelle era stato piuttosto
rilassante, anche se si era sentito un perfetto idiota.
Infine, il ragazzo guardò l'ampio soggiorno: era stata
sistemata un'allegra tavolata, presso cui vi erano in piedi in attesa
non solo Barry e sua moglie ma anche gli amici di sempre. Erano tutti
invecchiati: Val e Christen si erano sposati, anche se si rammaricavano
di non essere riusciti a battere Elton John sul tempo; Stefan
aveva un nuovo compagno con cui sembrava parecchio in
affinità; mancavano, però, due persone.
La prima era Steve. Aveva lasciato il suo regalo a Stefan
perché, dopo gli ultimi disaccordi con Brian, non aveva
voglia di ingaggiare un'altra lotta all'ultima sfuriata.
La seconda era Hope. Nonostante fossero anni che lei e Brian non si
vedevano più, tutti in qualche modo si aspettavano di
vederla comparire quasi per magia, ancora ondeggiante nel suo passo
insicuro. Invece non sarebbe più tornata. Ogni tanto mandava
una cartolina da uno dei posti in cui viaggiava, di volta in volta in
compagnia di un uomo diverso, tanto ricco, pazzo e forse innamorato da
seguirla nelle sue follie.
Arja era entusiasta dall'accoglienza e con il sorriso sui denti bianchi
avanzò, facendo mostra delle sue gambe un po' storte che
spuntavano, secche come stecchini, oltre la gonna colorata.
Gavin invece rimase in disparte, raggiunto da Brian che gli porse una
birra. Per diversi istanti guardarono la finlandese ricevere gli
auguri, i doni, gli abbracci, infine Gave domandò:
“Come sta Cody?”
“E' con la mamma. Passa più tardi.”
L'irlandese sorrise. Infine fece presente: “Questo mi fa
indubbiamente piacere, ma io ti ho chiesto come e non dove stesse il
bimbo.”
“Ah, lui sta bene. Sprizza salute e urla da tutti i
pori.”
Gave si finse sorpreso: “Ma davvero? Non è rimasto
sconvolto dalla bomba atomica che è esplosa sui tuoi
capelli?”
Brian gli lanciò un'occhiata, osservando: “Sai,
è un bambino ma a volte mi sembra più maturo di
te.”
“Di sicuro non ha preso dal padre.”
ironizzò, scoppiando a ridere.
Il cantante dei Placebo rise a sua volta, scrollando le spalle. Infine
sbatté appena le ciglia e ribatté, fingendo
noncuranza: “Purtroppo per lui. Anche se ammetto di aver
subito un certo cambiamento, rispetto al passato.”
Gavin non disse nulla. Bevve la birra, osservando distrattamente la
moglie di Barry portare in tavola alcune pietanze, aiutata sia da Arja
che da Val, il quale voleva mettersi in mostra grazie alla sua recente
scoperta delle torte salate e gli esperimenti chimici derivati.
Improvvisamente fu Brian a rompere nuovamente il silenzio, domandando
dopo un istante di riflessione:
“Stamattina mi sono alzato e mi è venuta in mente
una domanda che, accidenti, avevo accantonato da anni.”
“Spara.” acconsentì, nonostante i suoi
sensi fossero messi in allarme.
“Cos'hai scritto sul biglietto che ho portato ad
Hope?”
La domanda giunse rapida e quasi tagliente.
Il ragazzo si sorprese: era la prima volta che sentiva Brian chiamare
Annie con il suo vero nome. Forse era davvero cambiato qualcosa in lui.
“Nulla di importante. Le solite cose banali.”
spiegò vago.
“Capisco – asserì, bevendo un sorso
– deduco, dunque, che tu abbia scritto qualcosa di importante
e non banale.”
Gavin trattenne un istante il respiro. Doveva fuorviare la
conversazione, nel modo più infido possibile ma
indispensabile.
“Ho pubblicato il libro.” sembrò
soddisfatto di averlo annunciato, anche se si sentì un po'
una carogna.
Stranamente, Brian volle abboccare all'amo della distrazione.
Annuì, per poi domandare con una certa scherzosa leggerezza:
“Ti ha aiutato tua madre?”
Sapeva che non era così ma voleva dare a Gavin la
soddisfazione di smentire.
L'irlandese appoggiò la birra vuota al tavolo e scelse una
tartina fra le tante farcite con salmone, olive o acciughe, per poi
dire: “No, la casa editrice avversaria. Ho mandato alla mia
amabile genitrice il libro per posta. Ho aggiunto anche una foto mia
con Arja e i suoi genitori.”
“Bravo, vederti in stampelle tra i ghiacci la
rassicurerà.”
“Mai quanto leggere un thriller, narrato dal punto di vista
di un assassino seriale che si spaccia per musicista rock.”
notò, per poi mangiare in un solo boccone la tartina al
paté di olive.
Brian scrutò con il suo solito fare un po' schizzinoso le
varie opzioni culinarie per poi non coglierne nessuna, infine rispose:
“Accidenti, spero che non mi scoprano. Devo ancora seppellire
il cadavere di Steve.”
“Sefan mi ha detto che avete discusso per la scaletta del
live. Mi dispiace. Forse dovresti lasciargli più
spazi.” fece presente Gavin, armandosi di pazienza.
“Spazi dici? No, forse dovrei rinchiuderlo da qualche parte e
gettarlo nella fossa delle Marianne. Se lui punta verso est, io vado a
ovest: non possiamo rimanere per sempre fermi nello stesso
posto.”
“Andate a sud allora. Cercate un compromesso. Siete
caratterialmente simili, lo sappiamo tutti: teste calde bisognose di
avere ragione ogni sacrosante volta. Ma se tu non prendi nessuna delle
tartine perché non rispecchiano i tuoi gusti, Steve le
prenderebbe tutte; agite in maniera quasi opposta. Non farti venire il
fegato marcio ogni volta per questo.”
“Grazie Freud, ora sono in pace con me stesso.”
ironizzò Brian, dopo aver sospirato appena.
Prima che potessero dirsi altro, Arja venne loro incontro prendendoli
allegramente per le mani, incoraggiandoli entusiasta:
“Dai, venite, mettiamoci in posa. Val vuole testare la sua
nuova macchina digitale.”
“Non posso, avrò il paté sui denti,
sarò orribile come la faccia di tua madre quando mi ha visto
cadere sulla lastra di ghiaccio.” replicò Gave
ritraendosi.
Ma Brian dette manforte ad Arja: “Oh, avanti, il mondo ha
visto di peggio, Gave, dei tuoi denti neri o del volto di una donna
finlandese di mezza età in procinto di avere un attacco di
cuore.”
Così, suo malgrado, viste le insistenze di fidanzata e amici
che poco amavano farsi gli affari propri, alla fine l'irlandese cedette
e raggiunse il gruppetto, intento a sistemarsi.
In un modo o nell'altro, dopo aver posizionato in maniera precaria la
macchina foto, riuscirono tutti a mettersi in posa, gli uni stretti
agli altri per evitare di venire tagliati fuori dall'inquadratura.
Il sorriso di ognuno sarebbe stato immortalato, quel sorriso di
felicità che anni fa nella città del Lussemburgo
Gavin aveva cercato. Quando guardò la foto che gli
regalò Val, in una cornice coperta di pallettes dorate di
dubbio gusto, Gave fu emozionato dal realizzare che la stessa
felicità era stata finalmente raggiunta dalle persone che
gli erano care. Forse anche dall'autodistruttiva Hope, che in quelle
cartoline sporadiche e improvvise spediva loro pezzetti della sua vita
tanto variegata quanto incapace di stabilità.
La mano di Arja strinse forte la propria.
Fra poco sarebbero arrivati Helena e Cody; sua madre avrebbe letto il
libro seduta sul divano nella casa in Lussemburgo; i Placebo stavano
lavorando ad un nuovo album e si erano lasciati alle spalle una
raccolta prostituta di canzoni.
Gli sembrava ieri quando era arrivato a Londra. Eppure solo ora aveva
compreso cosa volesse dire avere una casa, lui che non piantava radici:
una casa non erano le pareti, il tetto, la porta dell'ingresso. Erano
le persone che amava.
Anche se gli regalavano cornici tremende, si rasavano i capelli,
combattevano campagne ambientaliste in favore di balene e foche o si
impasticcavano per lasciarsi morire.
In fin dei conti, per quanto quelle persone lo spiazzassero, lo
destabilizzassero e lo confondessero, Gavin non avrebbe voluto essere
da nessun'altra parte: ovunque lui fosse andato, aveva l'accogliente
certezza di potervi ritornare.
Abbracciò Arja e Brian che spalancò gli occhi
quando Val esclamò, mettendosi in posa in maniera
appariscente:
“Sorridete, denti d'avorio!”
Il flash li illuminò tutti, manicaretti, tavolata e regali
compresi. Lo splendore
di un attimo.
Anche se il rossetto
sarebbe stato meglio sulle tue labbra, il principe che tanto ami ha
letto le tue righe. Ti ricorda, ti ama, e... si è sentito
come morto nel realizzare che non saresti più tornata.
Never thought you'd make me perspire,
Never thought I'd do you the same.
Never thought I'd fill with desire
Never thought I'd feel so ashamed.
Me and the dragon
can't chase all the pain away.
So before I end my day,
remember...
My sweet prince,
you're the one.
Sproloqui
di una zucca
Finalmente ho la
possibilità di pubblicare questo capitolo che languiva nel
mio computer da mesi. Avrei preferito concludere in modo più
originale, senza questa coralità felliniana, ma alla fine
non sono riuscita a fare diversamente: in qualche modo mi piaceva che
tutti, anni dopo, potessero ritrovarsi a festeggiare una cosa semplice
come il compleanno. Perché sono cresciuti sia
anagraficamente che mentalmente e così anche le
priorità sono cambiate.
Brian è
diventato padre, insorgono maggiori divergenze artistiche, Val e
Christen si sono sposati, simbolo di uno dei traguardi raggiunti
dall'Inghilterra. Anche Gave a modo suo si è stabilizzato.
Gave... non so da dove mi sia uscito fuori un personaggio simile:
è indeciso, pigro, capace di lasciarsi scivolare tutto
addosso. Mi è sembrato parecchio controverso, sotto certi
aspetti. Fatto sta che si è digievoluto un po' per conto suo
durante la narrazione e io l'ho tenuto ugualmente, anche se stava
diventando difficile da gestire. A tratti avevo paura di andare OOC coi
miei stessi personaggi <____<''
Mi sento
incredibilmente triste per aver concluso questa storia che, lo ammetto,
non è la solita RPF. Riceverò probabilmente
parecchi anatemi per questo ma nel complesso sono soddisfatta. Come
già accennato, provo un po' di tristezza per aver messo la
parola fine al racconto: mi è piaciuto scrivere su Gavin,
Arja, Hope, Brian e tutti gli altri personaggi che hanno reso in
qualche modo viva la storia. Non credo li riprenderò in
mano, però so già che mi mancheranno.
Spero che anche voi
lettori possiate aver apprezzato questo lavoro, frutto più
che altro di una passione per la musica e, ovviamente, per i Placebo,
verso i quali nutro qualche riserva dovuta agli ultimi lavori prodotti.
Queste sono in ogni caso opinioni puramente personali, di una fan
piuttosto amareggiata e innegabilmente nostalgica.
A distanza di mesi,
ancora auguri a Ile. Auguri che possono essere tranquillamente estesi
non solo al compleanno ma a tutta la tua vita, per ogni cosa che
intraprenderai. Uno dei lati positivi di internet è che mi
ha permesso di coltivare quest'amicizia preziosa oltre che insperata.
Piccole annotazioni:
Il titolo del capitolo è tratto dalla una canzone omonima
dei Coldplay. Tutto questo ha un senso, oltre che relativo al capitolo
in questione, anche legato all'inizio della fiction.
La canzone finale
è My Sweet Prince dei Placebo, dalla quale è
stato tratto lo spunto per l'intera storia.
Nainai: Cielo,
non so davvero cosa rispondere ** Di fronte a queste riflessioni non
posso far altro che riflettere a mia volta e guardare ciò
che ho scritto da un nuovo punto di vista. Ti ringrazio, sinceramente,
per le tue parole. Alla fine è vero: il mondo in cui Val,
Gavin e gli altri vivono è una sorta di grande circo
scintillante, capace di accecare e spesso fuorviare da quella che
è la vita vera. Hope, nella sua debolezza, è
forse una delle persone più forti: perché ha il
coraggio di guardare in faccia la realtà e non sempre,
credo, essere incapaci di reggerne il peso vuol dire essere codardi. Ha
compiuto, anzi, con dignità la sua scelta.
Nessun pasticcio di
recensione, al contrario. Grazie di ogni tua parola e per aver seguito
questa storia, capitolo dopo capitolo: ne sono felice e onorata. Un
bacione.
Hiko_Chan:
Accidenti, mi conosci troppo bene XD Sì, riciclo in questi
personaggi il mio modo di fare battute: in questi casi è
facile, quasi istintivo, immedesimarmi nei dialoghi. Credo tu abbia
anche troppo ragione; forse in tutti i personaggi c'è
qualcosa di me e facendoli interagire tra di loro, in qualche oscura
maniera parlo con me stessa, stile vecchia zitella solitaria XD Nemmeno
so bene come reputare Hope: da un lato vorrei che non si arrendesse,
che decidesse di lottare; dall'altro però mi rendo conto che
è tanto difficile anche solo far finta di essere forti.
Sono contenta che le
scene descritte siano risultate così coinvolgenti, alla
stregua delle frasi: anche solo poche semplici righe hanno descritto
immagini simili, trasmettendo qualcosa di concreto, vero e palpabile.
Infine... che cosa stupendosa, hai apprezzato quei riferimenti-chicca
al 1998! Ora come ora se ripenso a gente tipo i Vengaboys mi viene da
ridere, perché mi ricordano più dei visitors
malriusciti che altro XD
Spero che con
quest'ultimo capitolo tu possa aver concluso di mangiare la tavoletta
di cioccolata nel migliore dei modi, senza fastidiosi pezzetti i carta
stagnola che si infilano un po' subdoli in bocca. Grazie per aver
apprezzato questa storia e, come sempre, per comunicare con
così tanta spontaneità quello che hai provato nel
leggerla. Bacione.
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