“ Storia
di un Angelo”
A Lei.
Con tutto ciò che è stato e con tutto
ciò
che sarà per sempre.
E a tutti
voi, sperando che
possiate trovare una Ariel sul vostro cammino.
Lo
chiamano,
ma lui non si volta.
Eppure
lui
un nome ce l’ha e risuona nella piazza soleggiata. Un nome
breve che tiene
lontani i demoni che all’ora del vespro sgusciano fuori dai
fossi.
Lui
ha l’anima
aperta all’aria del mattino, cammina a grandi passi per non
farsi raggiungere.
Si
ferma
solo nello sbattere del vento per ricordare tutto ciò che
è ancora vivo e
sonoro.
Nella
sua
torre che domina la valle, scrive in inchiostro marrone le note del suo
viaggio
celeste.
Non
c’ è
pace nemmeno al tavolo di un bar. Fuori infuria
la pioggia, ma un altro
bicchiere lo fa sentire al sicuro.
Osserva
il suo viso magro riflesso nel
grande specchio dietro il bancone, la sua corta barba ormai grigia. In
tasca ha
un libriccino pieno di note scritte a lapis, uno studio
sull’antico ippogrifo,
sulle sue libere rotte intorno alla luna. Ne ha scritto un commento che
nessuno
vuole pubblicare.
C’è
un
bambino sul marciapiede che insegue un giornale che il vento trascina
con sé.
Pensa che tutto questo non saprebbe dipingerlo, così
doloroso e vicino. Si
sente scagliato lontano, colpito alla nuca.
È
un giorno più corto come è corto
il silenzio di un giorno che è soltanto una tregua.
Lui
cammina
finché la fatica lo avverte di essersi spinto troppo lontano.
Si
ferma a
cercare legni che il mare ha levigato, radici, cortecce, la veste
trasparente
di qualche cicala, una pietra liscia e trasparente.
A
volte una
nevicata di petali gli fa chiudere gli occhi. Ne afferra uno che scende
più
lento.
Lo
chiude
nel pugno della mano e recita a memoria: “ Con
l’aiuto del vento levarmi
voglio, empiendo l’universo di stupore, in grande altezza e
resistere al furore
e alle tempeste con nervi di seta cruda e senza ferramenti
(*)”.
Poi
si ferma
al riparo dal vento, apre la sua piccola scatola di acquarelli e
dipinge rami
stracciati dai temporali, l’aria oscurata dal corso dei venti.
Lui
sa che
gli occhi sono più grandi di ogni cosa che guardiamo.
Contengono
navi, nuvole e montagne. Per questo lui non smette mai di guardare.
Un
grande
merlo nero vola basso. Gli sfiora i capelli, cattura la sua anima.
Può
volare
sino alla fine del mondo. Non gli servirà. Lo sente volare
dentro gli occhi,
nei polsi. Ogni cosa che cattura con gli occhi poi gli pesa sul cuore,
gli fa
più pesante il respiro.
Diventa
canto e furore.
Lei è
giovane, pigra. Lo saluta con un
lieve bacio gettato sulla punta delle dita. È la grazia che
cammina nei suoi diciassette
anni lungo la ferrovia abbandonata. Ha un libro tra le mani con la
copertina rossa. Ogni tanto ne
legge una pagina
ed inciampa nel pietrisco. Lui la guarda passare in una luce che non
rivedrà
più. Il cuore batte forte al ritmo del suo passo.
Lei
deve andare via. Comunque.
La
continua
a vedere mentre scrive versi che non hanno luce. La vede camminare sul
piatto
della cena. Poi batte i denti per il troppo amore. Muove appena la
testa per
non vederla andar via.
Cadono
le
foglie dei platani. La strada è grigia come le scaglie di un
pesce morto.
A
quest’ora
della notte si mette in cammino. Dalla parte
del mare i lampi incendiano il
buio. Da bambino esprimeva un desiderio alla fine di ogni bagliore.
Ora
si mette
le mani sugli occhi per non vedere e i desideri sono ancora vivi.
Il
temporale
non gli fa più paura. È solo la vertigine di
essere solo che gli fa appoggiare
la fronte al muro di un palazzo.
Poi
tende i
muscoli del collo come se la notte fosse sul punto di saltargli addosso.
Lo
chiamano
a voce alta, gli tagliano il cuore. Ridono del suo respiro affannoso.
<< Non hai ancora imparato a volare? >> gli
gridano.
Vogliono
che
salga sui gelsi e si slanci sui giardini fioriti.
Solo
a lei
manda baci sulla punta delle dita.
Avere
le ali non ha niente a che fare
con il cielo. Le mie ali sono fatte di piume colorate e latta, ma sono
ben
salde ai ricordi con cinghie di cuoio. In alto ci si sente
più soli, ma si
sente il respiro profondo di ogni città.
Lei
sorrideva intenerita al racconto
delle sue prodezze.
<
<< Tu lo
conosci >> le dicevano
<< di che ti
parla? >>
<< Di
niente >> rispondeva con fastidio.
Si
nascondeva dietro storie strampalate di avanzi di manicomio.
Lei
diceva dentro di sé: “ Stammi vicino
e scendi ancora su di me nella tua nobile luce.”
Lui
tiene le
finestre chiuse per difendersi dal frastuono del mondo. Il
vento s’ infrange
contro il cielo grigio. Ha chiuso le fessure
con stucco e calce. Non vuole
tossire dopo aver ingoiato tutta quella luce. Fosse
stato più giovane si
sarebbe riempito i polmoni di quei venti impetuosi. Da un buco nella
persiana
osserva il mondo senza farsi azzannare. Non vuole vedere nessuno.
Quel cielo lo
vuole solo per sé con le nuvole che sfiorano i capelli e si
gonfiano contro la
fine del giorno.
Nuvole
che possono cadergli addosso in qualunque momento ed
ucciderlo.
Ogni
sera,
nella sua stanza, indossa le ali di carta cerata. Le fissa al torace
con due
lacci di cuoio.
Sa
che il
nibbio batte poco le ali. Cerca il corso del vento che impera nei
sentieri più
alti del cielo.
Cerca
solo l’impero
che lo sollevi. Lui sa che il nibbio riposa nell’aria senza
battere le ali e
declina senza legami di cuoio o di spavento.
È
una
domenica d’estate con il sole acceso in mezzo ad un prato
d’avena. Si passeggia
senza meta nella luminosa meraviglia. Sotto una tenda che la brezza fa
sbattere
come un lenzuolo steso ad asciugare, lui suona la fisarmonica. Suona
per gli
amici nell’ora persa e distratta. Forse lei
passerà nel fiume dorato del
giorno e sarà come aprire gli occhi per la prima volta
contro il riflesso del
sole.
...Sono
di nuovo in viaggio, ho una
missione da compiere, ora. Vado incontro alla mia vera natura, sono un
angelo
camminatore. Mi danno la caccia, ma il cielo senza legami è
solo cielo…
Al
bar
sostiene le ragioni di un re. Lo stanno a sentire poi gli dicono di
occuparsi
del cielo e lasciar perdere le cose terrene.
Non
lo
ascoltano più.
Poi
smette
di parlare e lascia che un fiume di parole risentite lo invada. Pensa
al
momento perfetto, quando si fermerà al riparo dal vento ad
accendersi una lunga
sigaretta, lontano dalle chiacchiere senza ragione.
La
chiama Ariel perché
è leggera e imprendibile. Per intere
giornate disegna il suo volto sul muro bagnato. Con la fronte al vetro
della
finestra si lascia annegare nel silenzio che lui non conosce.
Lei
vive in
quella calma profonda. Sembra sempre l’alba di un nuovo
giorno ogni volta che
lei attraversa la piazza, protetta dai suoi pensieri. Cammina e la
strada si
allarga ad ogni suo passo. Le case si rannicchiano sotto gli archi. Non
sa
descrivere quella gloria perfetta. È silenziosa come lui e
lo guarda venirle
incontro fino a farlo inciampare.
Lui
la
chiama Ariel
ma non è il suo vero nome. Ha in comune con l’aria
che si può respirare e si
soffoca senza. È giovane e a lui basta starle vicino,
sentire la sua tenerezza
sincera.
Le
parla di
correnti nel vuoto tra due montagne. Sono incontri clandestini,
abbracci per
non lasciarsi cadere, sempre nell’ombra perché il
sole è capace di rischiarare
ogni angolo e sporcare di sangue quell’infinita dolcezza.
Lui
torna a
casa nel cuore della notte. Non si decide ad accendere la luce
perché nel buio
vede ancora gli occhi di lei.
Ogni
giorno
va a vedere il sole che muore contro la scogliera.
<<
Ho
fatto quello che ho potuto >>
dice lui.
Lei
gli
scalda le mani perché non abbia paura del vuoto che si apre
ai suoi piedi.
-
<<
Ci
sono io con te >> dice lei.
Ora
sa. Ora
l’ha capito davvero: ha lasciato le sue
ali di lino sul letto disfatto.
Il
tempo di andare arriva con
le nuvole basse sopra l’orizzonte,in
un vicino tramonto.
Intorno
agli
alberi che si nascondono nella luce dell’aurora.
Allora
si
deve guardare davanti a sé, come se la città
fosse scomparsa, gli occhi gonfi
di pianto, fissi sulla strada da fare.
Lui
esce per
strada. A quell’ora le stelle tremano ancora nel freddo
notturno. Lo sorprende
la prima neve dell’anno. Sono piccoli fiocchi trasparenti
contro i lampioni
ancora accesi. È una nevicata ancora giovane. Accarezza la
neve che scende come
per perdersi o svegliarsi davvero. Comincia a camminare senza il suo
ombrello
verde, chiude soltanto il cappotto sul collo. L’aria sa di
ghiaccio e di latte
di mandorle e poi un lieve sentore di sale perché i fiocchi
li porta il
libeccio. Si sente forte in quell’immenso silenzio, incapace
di stringere tra
le mani tanta bellezza, ma almeno sa di vederla, di saperla
narrare.
Respira
a
braccia aperte le gelide folate. Finché non si accorge della
sua ombra che gli
sta venendo incontro.
( Ariel
)
Cammina
verso di me, attraverso la neve e il crepuscolo. Non ha libri con
sé o matite,
ma fiocchi di neve sulla corta barba.
In
una
grande luce che non ha mai smesso di darmi conforto.
(
Lui )
È
radiosa e
folle, Signore, si chiama Ariel. Te l’affido.
È
solitaria
come me, pallida e digiuna.
È
un fiore
di cera conservato nel miele.
È Ariel che mi dice una parola,
che mi piega il
capo sul cuore e perdo sangue dal naso per il colpo ricevuto.
Ho
avuto fortuna.
Sulla mia barba non rasata il suo respiro.
In una notte
come questa, è tutto ciò di cui ho
bisogno…
( Ariel
)
Ancora
un po’
e l’amore sarà un’ onda di fuoco.
Sarà
un
alito aspro che lascia soli e sudati.
È
il dolore.
Che ti sorprende alle spalle con i suoi denti di squalo.
Io ti
proteggerò nei campi infiniti della tua ultima impresa, che
gonfia il cuore
fino a spezzarlo. Ti massaggerò le spalle indolenzite per
essere scappato ad un’improvvisa
tempesta. Ti proteggerò per la tua natura senza pace, per le
lacrime che ti
cadono sulle mani quando nessuno ti vede.
Lacrime
come
cera di candele, una pioggia amara a cui nessuno fa caso.
Io ti
parlerò una lingua insonne ed eterna per tenerti sveglio,
maestro e mio piccolo
bambino indifeso, esposto alla calunnia e al dolore.
Io ti
proteggerò perché sei l’aria
che respiro.
*
Finalmente
il mare è davanti a loro.
L’avevano
intravisto spesso, una breve linea celeste tra due colline turchesi ma
ora,
nell’aria gelida di freddo, appare loro in tutto il suo
minaccioso fulgore.
Lui
apre la
camicia bianca sul petto, lei gli asciuga il sudore con il dorso della
mano
libera.
Tutto
quel
silenzio…
Lui
si ferma
incantato davanti a quella striscia turchina, più alta di
ogni cosa umana. C’ è
una piccola barca bianca come il cielo, bianca da cavare gli occhi. Si
alza un
po’ di maestrale che spruzza di fresco ogni cosa, anche loro,
teneri amanti dalle
mani intrecciate in cima a quel promontorio sospeso dal tempo e dallo
spazio.
Sentono
in
bocca il salmastro e la sabbia fine, che si intrufola persino sotto le
unghie.
La
luce gli
prende la mano. Lo fa sragionare e quel volo planato e sicuro che hanno
solo i
gabbiani, il loro modo di fermarsi nell’aria diventa una
prova d’inconfondibile
coraggio.
Una
prova
che si può solo seguire.
Portami
via come sono, innamorato e
smarrito, con due piaghe sul dorso, dove una volta crescevano le ali…
*
Al
bar del
paese, improvvisamente, è sceso il silenzio.
Nessuno
ha
il coraggio di spezzarlo, c’è troppa vergogna e
senso di colpa nell’aria.
Non
c’è più
spazio per le parole, sono state gettate fuori come le briciole sul
bancone.
Solo
la voce
gracchiante, radiofonica dell’annunciatore ha la forza di
andare avanti, in una
leggera litania ritmata dalla luce opaca del giorno.
“
Ieri
notte, due giovani ragazzi si sono gettati dal promontorio sul mare.
Non sono
stati ritrovati i corpi. Sulla battigia, c’erano solo un paio
di ali di cera
colorata…”
Il
vento soffia piano, dopo tanto dolore
la vita si è congelata.
Quel cielo di
marzapane e di sale,ora,
esiste davvero.
(*) Frase tratta dal libro
" Icaro" di F.P.
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