CANTO DI NATALE
<
Vattene, subito.>
<
Tranquilla, me ne vado, me ne vado. Avevo già intenzione
di farlo da un bel po’.>
< Ecco
bravo, coglione… Buon natale, spero che sia
l'ultimo che passi vivo!>
Sbadabam.
Lui
uscì, sbattendosi la porta alle sue spalle.
< Addio
puttana.> gridò, alzando lo
sguardo verso il cielo plumbeo. Era la sera della vigilia di Natale. Su
Dublino
scendeva incessante la pioggia.
Era stato un
litigio, l’ennesimo, la goccia che aveva fatto
traboccare il vaso. Si chiese quando e com’era cominciato,
forse quando era
tornato a casa ubriaco dal pub per l’ennesima volta? Anche a
pensarci bene non
se lo ricordava, non riusciva a concentrarsi, probabilmente aveva
ancora la
mente annebbiata dall’alcool di quel pomeriggio. Ma in fondo
cosa importava?
Tanto, a sentire lei, in qualunque discussione avessero avuto la colpa
era
sempre stata dalla sua parte. Lei era la vittima inevitabilmente.
< Già. Le
donne sono così>,
pensò
rassegnato, < prima ti incantano, poi ti incatenano alle loro
catene e ti
tengono stretto stretto, fino a toglierti al respiro e guai se tu osi
lamentarti o prenderti un po’ di libertà>.
Ma ora basta, non si sarebbe più
messo a correre dietro a una gonnella. Ma più. Lui con le
tribolazioni
dell’amore aveva chiuso, definitivamente.
Ora che lei
l’aveva cacciato via non gli restava che
tornare a casa dai genitori e partecipare all’allegro cenone
di famiglia. Ma
non aveva fame e, tantomeno, ne aveva la voglia.
S’incamminò dunque per le
strette
vie acciottolate, senza una meta precisa,
giusto per far passare un po’ il tempo. Intanto continuava a
piovere a dirotto
e lui ovviamente, nella fretta di andarsene dopo il litigio, non aveva
minimamente pensato a portare con sé un ombrello. In
più l’aria era
particolarmente gelida quella sera. Si tirò su il bavero del
cappotto fino a
coprirsi le orecchie per cercare di combattere il freddo, inutilmente,
dato che
ormai la sua giacca era completamente inzuppata. Continuò a
camminare per una
decina di minuti lungo le strade scivolose, poi si fermò
sotto un portico per
riflettere sul da farsi. Dalle finestre delle grigie case attorno a lui
giungevano gli schiamazzi dei bambini eccitati
dall’approssimarsi del Natale e
i rimproveri dei genitori evidentemente seccati. Lui in mezzo a tutto
quel
rumore per un attimo si sentì sperduto, si sentì
solo. Completamente solo.
Scrollò
la testa, come per cercare di scacciare via quella
malinconia che improvvisamente
gli era
balzata addosso e si rincamminò. Avrebbe potuto entrare in
un qualunque pub,
riscaldarsi e ordinare una pinta di birra, poi una seconda, poi una
terza e
così via. Avrebbe potuto bere, bere fino a non ricordare
più il suo nome e poi
mettersi a cantare vecchie canzoni patriottiche sull’Irlanda
insieme a qualche
altro ubriaco. Solitamente era facile, bastava devastarsi con
l’alcool per non
pensare, per dimenticare. Ma questa volta no. Sapeva che non avrebbe
funzionato.
Non sarebbe bastato tutto l’alcool del mondo per far svanire
la solitudine che
aveva cominciato a sentire sotto le finestre illuminate. Era tutto
così vuoto
dentro di lui.
< Hey
Frank, Fraaank…>, un urlo lo distrasse
momentaneamente
dai suoi pensieri.
< Santo
cielo e adesso chi cavolo è!>, sbottò lui
girandosi.
Si ritrovo
così di fronte il buon vecchio Joe, amico suo
ormai da secoli, ovviamente ubriaco fradicio.
<
Pensavo che solo gli scapoli incalliti come me
girassero da soli per le strade la vigilia di Natale, dove
l’hai lasciata la
tua dolce Molly eh?> esclamò l’amico, con
il tono di voce impastato classico
di chi ha bevuto troppo.
Avrebbe potuto
dirgli che non c’era più nessuna Molly, che
la sua “dolce Molly” l’aveva piantato
mezz’ora prima augurandogli di morire e
che lui ora era solo come un cane. Sì, avrebbe potuto.
Avrebbe voluto. Ma Joe
non era certo nelle condizioni migliori per ascoltarlo e lui
d’altro canto non
amava farsi compatire.
< ...Ci
si vede in giro Joe, buon Natale.> disse
malinconico. Poi subito se ne andò a passo spedito, in modo
che l’altro non
potesse replicare.
Si
avviò verso
la compagna. < Almeno così non correrò il
rischio di incontrare qualcuno>, si
disse tra sé e sé. Visto che era già
così solo tanto valeva marcirci del tutto
nella solitudine. La campagna era silenziosa, la luna da dietro le nubi
rischiarava
appena i verdi prati. Frank camminò per un bel pezzo,
finchè non giunse vicino
alla vecchia quercia; qui si fermò. Aveva sempre amato quel
luogo. Da bambino,
quando sentiva la necessità di fuggire un po’ dal
mondo circostante, saltava in
sella alla sua bicicletta e pedalava a perfidiato fino ad arrivare
lì, nel suo
rifugio, al sicuro sotto le fronde verdi e nodose dell’antico
albero. Forse la
vecchia quercia avrebbe dato un po’ di pace anche stavolta al
suo animo
tormentato.
Era ormai a una
dozzina di passi dall’albero quando si
accorse che non era solo il vento a fischiare in mezzo alla pioggia.
<
Possibile che ci sia qualcun altro qui nonostante il tempo avverso e
l’ora?>,
si chiese stupito.
Si
accostò al largo tronco dell’albero e
capì di non aver
udito male: sotto i larghi rami era seduta una ragazza, stava cantando.
< Che
bella giornata vero?> esclamò Frank sentendosi
un po’ stupido. La ragazza colta di sorpresa
sussultò e smise subito di
cantare.
<
Suvvia, non c’è bisogno che ti fermi, mi dispiace
averti interrotta. Continua pure a cantare…
>
Lei si
voltò a guardare Frank incuriosita e scostandosi i
capelli dorati dal viso rispose, < Oh non preoccuparti, canto
solo quando
sono sola, per passare il tempo.>. La sua voce era cristallina.
< Ah,
certo certo, capisco…> borbottò lui.
< Ma suvvia, non stare lì a prendere
tutta l’acqua, sotto l’albero
c’è posto per due!> replicò
subito lei
sorridendo. Frank allora scostò le fronde
dell’albero e si sedette di fianco
alla ragazza. Chissà cosa ci faceva lì, una bella
ragazza da sola la sera della
vigilia. Chissà perché lo aveva invitato a
sedersi lì, manco lo conosceva!
Chissà, chissà, chissà. Come sempre
troppi dubbi e nessuna certezza. < E i
dubbi si sa, sono degli specialisti nell’aggrovigliarsi
l’uno con l’altro,
nell’ingegnarsi in nodi intricati e contorti, al punto che,
quando si cerca poi
di solverli, non si può mai essere certi di aver dipanato
realmente tutta la
matassa.> pensò Frank. Per una volta però
decise di non risolverli i dubbi,
di tenerseli e si fermò ad ascoltare. Era dolce il suono del
silenzio.
Tutto intorno a
lui sembrava fremere, come fosse stato
colmo di elettricità. I fili d’erba bagnata, il
tronco dell’albero, le nuvole e
perfino lui stesso. Si sentiva carico, finalmente pieno di vita. Il
vuoto era
scomparso. All’inizio
attribuì quell’improvvisa sensazione al vento che
sibilava violentemente fra le fronde degli alberi, ma poi
capì che
non era quella la
causa di quella strana energia vibrante. Era lei la causa del tutto.
Frank si volto a
guardarla, chissà se era consapevole di ciò che
provocava.
Era
così bella.
La ragazza
sentendosi osservata alzò il capo e lo fissò a
sua volta, i suoi occhi chiari rilucevano di vita. Sorridendo lei gli
strinse
dolcemente le spalle e lo invitò ad appoggiarsi sul suo
grembo caldo.
Lui non
si oppose.
<
Canta…> sussurrò poi.
E lei
cantò, insieme al vento.
E'
in un giorno di
pioggia che ti ho conosciuta,
il vento
dell'ovest
rideva gentile
e in un giorno
di
pioggia ho imparato ad amarti
mi hai preso
per mano
portandomi via.
Nel
frattempo la luna aveva fatto capolino, timida, tra le nuvole.
{ Ringrazio le canzoni dei Modena City Ramblers per avermi dato
l'ispirazione per scrivere questa pseudostoria :)
In particolare "In un giorno di pioggia", della quale sono i
versi in corsivo alla fine del testo. }
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