Harriet
continua a punzecchiarmi il
canone in tutti i punti giusti e bandisce “Lungo la
strada”, su
nomadi-stranieri-rifugiati-clandestini-migranti. La scelta ovvia era
prendere “Straniero”... e invece no. Cinque punti
di vista sul
concetto di patria, quando la patria non c'è più,
sul prompt I
tuoi esuli parlano lingue straniere, / si addormentano soli sognando
i tuoi cieli, / si ritrovano persi in paesi lontani / a cantare una
terra di profughi e santi - Modena City Ramblers, In un giorno di
pioggia.
Con l'augurio di NON scrivere nulla di altrettanto complesso entro
dicembre 2010, mi ci sono messa di buzzo buono per renderla degna
partecipante della Sfida dell'anno dell'Anonima Autori, sezione, ehm, nuovo fandom.
(Words 3:71, I radunati
sono riconoscibili dalla loro faccia di tolla, presente?
°///°)
Con la certezza, invece, di
giocarmi la metà dei lettori con la scelta del primo
personaggio (la
metà inesistente degli inesistenti lettori che conoscono
Myst,
almeno), ecco dunque...
Disclaimer:
Gli avvenimenti narrati sono frutto di fantasia. Non intendo dare
rappresentazione veritiera del carattere delle persone descritte
né
offenderle in alcun modo. Se possibile, anzi, il tutto è da
intendersi come tributo di affettuosa stima.
Lontani
dalla patria comune
]
They count
years and
months.
] A long week is as
short as an age is long.
(Words, 1:53÷54)
1
. Ai
tempi di uru
Esher
è giovane quando D'ni cade, un
ragazzotto metodico e impettito, pieno dei sogni suoi e della sua
gilda. Noloben, il suo rifugio improvvisato, è sicuro e la
pestilenza che si sta spargendo per centinaia di mondi non lo
raggiunge fin su quella spiaggia remota. Non lo raggiungono nemmeno i
suoi compagni.
Esher sa
tenere strette le sue
speranze.
Il punto di
collegamento è ai piedi
della scogliera. È l'unico punto che vi sia stato scritto:
dev'esserlo per forza in un tale buco di Era, senza valore e senza
civiltà. La sua tenda è vicina. Ogni mattina
appena sveglio, appena
scacciata la pesantezza del cielo brillante che lo sovrasta, Esher
striscia fuori dal suo rifugio e arranca sulla sabbia nella speranza
di trovare una nuova fila di impronte ad affiancare le tracce del suo
arrivo. Un giorno non trova più nemmeno quelle: una
mareggiata se le
è portate via.
Quando il
cielo era nero, le strade
della sua gente erano scavate nella pietra e brillavano da lontano
come scie fosforescenti in grembo alla grande caverna. Non c'erano
tracce, ma voci. Il chiacchiericcio del viale filtrava dall'ampia
finestra ad arco del suo studio ed Esher non era mai solo.
Si ritrova lui
stesso a camminare
rabbioso in cerchio attorno al Libro per D'ni e allo spazio
antistante, che continua caparbiamente a non volergli restituire i
suoi pari, o i suoi superiori, o perfetti sconosciuti, chiunque,
chiunque abbia il suo sangue e soprattutto parli la sua lingua. Urla
a quello spazio vuoto. Lo riempie di pugni scoordinati.
Torna a
dormire e sogna un'altra
attesa, attorno a un altro Libro, quando il cielo era nero.
Già da
prima di collegarsi a Laki'ahn, la sala risuonava dei racconti e dei
canti dei cacciatori. Esher rimaneva ai bordi, qualche passo
indietro, vicino alle lampade, del tutto immerso nelle vite e nella
gloria dei suoi compagni.
I passi
rabbiosi si estendono al
perimetro intero dell'isola. Come l'orbita di un pianeta, Esher si
avvicina al suo centro di gravità per poi riallontanarsene
in tutta
fretta. Gli è venuta quest'idea, di recente: potrebbe essere
lui a
tornare. A cercare i sopravvissuti, perché in fondo, non
scherziamo,
com'è riuscita a lui sarà riuscita a tanti altri.
I D'ni, estinti?
Non ci vuole neanche pensare. Potrebbe cercare gente, riformare una
comunità, tornare a sentire la sua città piena di
voci. Magari lo
considererebbero anche il loro salvatore. Va. È deciso. Ma
quando
sta per farlo, quando pronto al gesto si tiene fermo il polso con
l'altra mano, ricorda le urla per strada e la nube giallastra
incombere e scappa.
Noloben, col
suo asse storto come una
trottola, è più dignitosa di lui nelle sue
rivoluzioni. Ma anche
crudele: passeranno troppi vailee prima che il sole
termini
sotto l'orizzonte il suo lento moto a spirale. Quando il cielo
sarà
nero, Esher potrà a volte chiudere gli occhi e illudersi un
po'
meglio di essere tornato a casa, se ricorderà ancora
com'è fatto il
calore della compagnia, il fervore di una piazza gremita, un liquore
condiviso attorno a un tavolo.
Nel
dormiveglia continua a sentire
grida distorte e i boati sommessi del collegamento, ma sono troppo
lontani per essere veri, più simili a memorie residue
dell'esodo e
dei morti che si è lasciato alle spalle, amplificate dal
vento umido
di quella spiaggia infernale. Da sveglio tacciono. Forse. Ieri crede
di averne sentito uno.
Solo gli
stormi di uccelli che volano
inquieti da un'isola all'altra dell'arcipelago si chiamano, lo
chiamano, gli parlano. Quando si trova a pochi passi da tre di loro,
inchiodato da quegli occhietti tondi e neri, Esher si ferma. Ha il
fiato corto. Con estrema lentezza, risponde.
2 . Gli
dèi camminavano sotto la terra
Per Gehn la
patria è un ricordo
indistinto, di quelli che il sogno che hai fatto stanotte magari non
parlava proprio di una gita al lago
col tuo primo
amore, o di
una chiacchierata con tuo padre nella casa che ti ha dato i natali,
ma in fondo ti sei affezionato all'idea e ripensandoci da sveglio la
monti e la rimonti, aggiungendo un dettaglio qui, un incontro
là,
finché nella memoria cosciente non ti si fissa qualcosa che
magari
non è veramente quel sogno, ma di certo è tuo.
Ha
lasciato la città che era un bambino. Quando torna, il suo
corpo è
cresciuto e i lineamenti inaspriti e non guarda più gli
edifici dal
basso in alto, con uno stupore infantile dipinto in volto. In spregio
alle leggi prospettiche gli sembrano più maestosi di allora,
carichi
di ricordi che non ha vissuto, anche se trasudano solo ingiustizie e
perdita. Li sente vicini. La loro solennità non era cosa per
abitanti di superficie: se potesse, Gehn si caverebbe dalle vene il
suo sangue misto, ma deve accontentarsi di definire se stesso D'ni,
come suo padre e il padre di suo padre, di fronte alla dimora dei
suoi avi che ora è morta e rovinata e spenta.
Le
promette che tornerà a donarle un milione di mondi. Fino ad
allora,
la memoria non dovrà andare perduta. Sarà un
lungo cammino, le
pause sempre troppo brevi e pesanti, ma non cederà.
L'Era
è la numero cinque. Camminando altero per le precarie vie
aeree del
villaggio, parla al codazzo di selvaggi in una lingua che ancora non
capiscono. Racconta di una stirpe di dèi pallidi e slanciati
e della
loro caverna al centro del mondo, al centro di tutti i mondi, e quel
racconto inizia a diventare la sua realtà. I nativi non
danno retta
allo straniero comparso dal nulla, ma quando apre le braccia e guarda
al cielo pronunciando le sue parole misteriose ecco che cade un
fulmine, la terra trema. Gehn è il primo a sorprendersi, ma
non lo
dà a vedere. Aveva previsto un clima più mite.
L'Era
è la numero trentasette. Gehn siede su un trono al centro
della
capanna più grande, riscaldato dal camino alle sue spalle.
Il suo
volto resta in ombra e il pubblico non vede quanto si rabbui nel
narrare della grande luce azzurra che, dall'alto di una montagna,
marcava il centro della città perfetta.
Fuori,
il muro di nebbia che circonda l'isola mugghia e si espande,
ricordando ai pescatori il suo potere. Gli dèi della natura
sono i
primi a sorgere e gli ultimi a cadere.
L'Era
è la numero centodue. C'è una statua al centro
della cittadina –
sembra essersi scavata uno spazio in mezzo al caotico affastellarsi
di edifici fatiscenti, quasi che sia un meteorite bronzeo caduto dal
cielo, con la grande piazza come suo cratere. L'arte del luogo riduce
il mondo a geometrie insolite ma, nonostante l'abbondanza di linee
curve e spirali, Gehn non fatica a riconoscere i tratti del suo volto
e ne è compiaciuto.
Oggi
parla della lingua sacra che comanda ai mondi la loro forma. I
più
anziani fra la folla ricordano di essere già esistiti prima
che
questo onnipotente creatore scendesse in terra, ma hanno avuto altre
prove del suo potere e per riverenza tacciono.
L'Era
è la numero duecentotrentatre, rossa e inospitale. La via
per D'ni è
chiusa da trent'anni e non è rimasto nessuno con cui voler
parlare.
Gehn chiude il diario. Siede sul letto, imbraccia il maral-obe e
affida tutte le parole che gli sono rimaste alla voce piatta dello
strumento.
L'Era
non ha nome, numero né uscita. È buia e fredda e
gli ricorda casa.
3 .
Dimenticata dai suoi
ultimi
figli
Calam
torna spesso a portare i suoi saluti agli amici: è un segno
di buona
cortesia, si dice. Indossa la sua tunica migliore – lisa, ma
pulita
a fondo e ben ripiegata dopo ogni uso – si collega e scende
in
città. Quando la visita è terminata, sul suo
diario registra solo,
Recato
i miei omaggi a,
e un
nome fra i tanti che gli erano stati vicini.
Non
c'è molto altro da aggiungere, in verità. I morti
non sono grandi
conversatori.
Calam
lo era un tempo, oggi non più.
Questa
volta si è spinto nei quartieri bassi per riappropriarsi
delle
memorie di un lontano cugino, lavoratore indefesso che, a parer suo,
solo la mala sorte aveva tenuto lontano da una buona istruzione,
magari in seno a una gilda minore. Gli era affezionato, a modo suo.
È
una tradizione, si ripete, stretto nel suo mantello nero da
Scrittore, i cui bordi broccati tinti col rosso cupo del reveesh
sono ormai ridotti a fili spezzati e sbiaditi. Va preservata.
Respira
a fondo l'aria stantia e buia di D'ni, un'aria in decomposizione che
gli si attacca addosso e a ogni visita ricopre, come una nuvola
pestilenziale, i ricordi del calore di quelle stesse strade che oggi
percorre. Quando il miasma si ritrae, nella memoria gli edifici
rimangono vuoti, le porte crollate, le piazze dilaniate da nuove
voragini. A volte teme di addentrarsi in questa nuova D'ni: gli
sembra di non riconoscerla.
È
una tradizione e la tradizione va rispettata, ma il cammino
è lungo,
Calam è vecchio e le sue gambe non sono salde come le grandi
stalagmiti di D'ni, le cui cime si perdono nei vapori e che sembrano
salire fino a sorreggere tutta la volta.
Si
ferma ansimando a metà di una scalinata ripida che si
avvolge
attorno a una di quelle stesse colonne, in uno dei quartieri
inferiori del muro di edifici che s'inerpica sulla parete della
caverna. Si aggrappa al corrimano. È freddo. Ha freddo. Il
vicolo
sotto di lui si snoda lungo un canaletto artificiale che convoglia un
vento che non dovrebbe esistere. Sente come un fruscio di voci.
L'acqua increspata riflette la luce pallida dei lampioni come dal
fondo di un abisso, un luogo alieno e inesplorato che non prova
compassione per gli intrusi – e non c'è dubbio che
lui ora sia un
intruso, lì, nel cuore della città che l'ha
cresciuto.
Calam
è un uomo di scienza, un erudito; conosce i legami segreti
fra i
mondi e le parole che li comandano, negli anni ha toccato con mano i
limiti del possibile e cancellato tutto quel che non vi si adeguava.
Le storie di spettri non lo hanno mai convinto.
Si
obbliga a calmarsi, respira a fondo per contenere i battiti del suo
cuore. Non è successo nulla, si ripete, tenendo una mano
premuta
sulla fronte rugosa. Si schiarisce la gola. Non è successo
nulla.
Il
senso di rigetto è manifesto, ma proviene dalla sua mente,
dal
centro che guida i sogni e le intuizioni; certo non da un'ineffabile,
inesistente anima della città.
Non
si ferma a riflettere sulla possibilità che la sua sia
l'ipotesi più
disperata: quella che non accetta ammenda.
Altro
tempo è passato, sei vahlee e
venticinque yahr secondo
i calcoli cui dedica gran cura, e oggi Calam siede in un angolo della
biblioteca del distretto di Kaleh. La testa si fa pesante e scivola
sul libro che sta consultando – è il quarto volume
di un testo che
forse sa a memoria da decenni, ma che non smette di sorprenderlo
nelle sue ramificazioni profonde. Oggi, prima di cedere alla
stanchezza, ne ha ripercorso a lungo i versi, cercando risposte a
ritroso, come discendendo fra le radici di un albero. E proprio di
alberi si parla in quelle profezie: nient'altro che alberi e crescita
e riunioni mentre lui resta legato a un ceppo rinsecchito. La testa
è
così pesante. Gli occhi si chiudono.
Inizia
a russare, con la guancia appoggiata alla pagina aperta. Sogna di
camminare solo in una piana di sabbie secche, sulle rive di un fiume
rosso come il sangue. Un uccello del deserto lo raggiunge, senz'altro
rumore che quello dei granelli smossi dalle sue zampette: è
una
bestiola agile e snella, dal piumaggio scuro, gli ricorda le creature
che aveva visto da ragazzo su Kade'reek. Sorride al suo nuovo
compagno di viaggio. Camminano affiancati seguendo il corso di
quell'acqua densa, e densa di segreti.
Ma
l'uccello china il capo per guardarlo, gli dice qualcosa che lui non
comprende nel linguaggio del sogno e corre svelto sulla riva,
lasciandolo indietro. Calam è di nuovo solo.
4 . Oggi la pietra muore
Atrus
non ha fretta. Resta in piedi in cima alle grandi scale che portano
ai moli, come una vedetta a scrutare il buio. Il canalone è
ripido,
scavato fra la nuda roccia e le pareti degli edifici di Tokotah; la
doppia fila di lampioni accesi che lo costeggia è l'unica
prova
visibile della sua esistenza. Laggiù in fondo, dove dovrebbe
ergersi
il porto, i gradini sembrano gettarsi già nelle acque calme
del
lago. Atrus accarezza un fregio sbreccato del corrimano,
ripercorrendone con la memoria i bei rami stilizzati. Non ha fretta.
Alle
sue spalle, il vecchio Tamon guida la spedizione in sua vece, se di
'guida' si può parlare per l'esplosione di passi e voci che
oggi
colora la piazza grande di Ae'gura. Oggi, fra le rovine regna
l'allegria forzata degli addii. Dei vecchi capitani di gilda sono
riuniti sotto al colonnato del museo e si scambiano aneddoti vecchi
di cent'anni, indicando le ali dorate della Sala delle Gilde che
domina la vetta sopra di loro. I giovani che hanno capito tardi di
aver visto ancora troppo poco dei luoghi cari alle loro famiglie
camminano frenetici in gruppi di quattro o cinque, commentando ogni
stucco. Chi preferisce tenere i suoi ricordi per sé resta
solo,
ritrovando strade e scorciatoie amate, e confeziona, trasporta,
trascina tutto quello che la memoria non gli permette di lasciare
indietro. Manutentori e Messaggeri senza esperienza e dai capelli
ingrigiti si affannano per coordinare gli sforzi.
Atrus
si sorprende di non trovarsi triste. Tuttalpiù svuotato,
dopo aver
passato così tanti anni di prigionia in terre lontane con lo
sguardo
sempre rivolto alla Città.
Sono
state prigioni dure, come la spaccatura ai piedi di un vulcano che fu
l'unico luogo della sua infanzia, con l'immensità del
deserto a fare
da sbarre. D'ni allora esisteva per lui solo come racconto, un guizzo
di fantasia nelle giornate piene e stanche, consegnatogli dalla voce
esperta di Anna. Gli stava venendo affidata una
responsabilità. Le
storie divenivano sue; suo il fardello di portarle a compimento.
O
sono state prigioni strette, come Myst, il cui orizzonte Atrus
allargava con costanza, Era dopo Era, ma che restava dolorosamente
angusto alle sue spalle. D'ni era perduta per la sua codardia.
Oppure
ancora prigioni indefinite, come Chroma'agana, dove l'unico ostacolo
era la sua solitudine, due mani sole per lavorare a un progetto
troppo grande.
Eppure
nel deserto, quando non poteva vedere altro che terra secca,
imparò
a conoscerla e analizzarla, a scoprire la sua composizione, a
osservare la bellezza degli incroci fra le sue crepe.
Da
Myst, che gli fu donata come rifugio e come pegno d'amore, si
affacciò su un cielo abbagliante dove sei soli si attraevano
in
orbite instabili; passò notti al freddo umido di una foresta
aliena
per vedere un germoglio sbocciare alla prima luce del sole;
sentì la
terra sulfurea fondersi e muoversi come il muscolo di un gigantesco
animale.
E
sul lungo promontorio di Chroma'agana, mentre sua moglie lo attendeva
sulla spiaggia con un lume acceso, Atrus studiò le stelle,
ridendo e
chiamandola quando le vide comporre la stessa figura trovata anni
prima, in un altro angolo del multiverso.
Si
è trovato disperso fra mondi stranieri, scrivendo il suo
spirito e
trovandolo ricomposto di volta in volta come frutto e ramo, oasi e
fortunale. Un frammento di sé è sempre rimasto
qui, fra rovine
diroccate ricoperte di polvere. Ma il resto è altrove, e lo
chiama.
Il
suo obbligo era verso la gente viva che aveva abitato quelle case: un
popolo che ha radunato, ascoltato e guidato, un popolo cui oggi dona
una nuova Era, Releeshahn, il Tutto. Qualunque peso le storie di
Ti'ana gli avessero caricato sulle spalle, oggi l'ha assolto. Oggi lo
vede. Per oggi, ci può credere.
Saluta
D'ni con l'affetto di un figlio adulto, che ha trovato lontano la sua
indipendenza.
I
rumori si faranno sempre più tenui, dispersi fra le isole e
i
quartieri esterni, fino a cessare del tutto quando anche l'ultimo
D'ni avrà accettato che il tempo passa e i mondi cambiano, e
così
le speranze e le case, e che ogni fine porta con sé nuovi
inizi,
nuove possibilità, finestre aperte su futuri migliori.
E
Atrus se ne andrà, silenzioso com'è oggi e a mani
vuote. Perché
l'unico dono che re Ri'neref volle fare ai suoi figli, quando scrisse
loro una nuova patria, fu l'umiltà di una caverna buia, la
semplicità da cui guardare allo splendore di infiniti mondi,
e
quell'umiltà è già sua, da sempre viva
in ogni respiro, in ogni
sguardo rispettoso e ammirato.
5
.
Ma sento un richiamo incessante dal cuore e torno
John
non sa dove sta tornando. Non sa nemmeno che lui e il suo mecenate ci
stanno girando attorno da anni, lungo una spirale tracciata sulla
carta delle Americhe che parte da Temple, Texas, dov'è nato,
poi
Mazatlàn, Los Angeles, Westwater, lungo le tracce degli
Anasazi e
dei loro discendenti che parlano di uomini formica che vivono nel
profondo e del ritorno di un popolo delle stelle, Albuquerque,
Carlsbad e il suo deserto, e sotto il suo deserto le sue caverne.
E
non sa chi abbia scavato queste gallerie, che lo stanno portando ben
oltre la sua meta, ma non riesce a darsi un limite oltre il quale
“va
bene, ho visto abbastanza, torno indietro” e i suoi piedi
continuano a spingerlo oltre ogni ansa. Sarà
perché sono tutte
uguali. John non è un geologo e fa in fretta a dirsi che
certi
tunnel, così perfetti e rifiniti a specchio, sono stati
creati da
vecchi canali lavici di un vicino vulcano: le grotte che ha
attraversato, con le loro delicate colonne calcaree e i veli di
roccia traslucida, gli hanno già mostrato quanto possano
sembrare
artefatte strutture che con l'uomo non hanno nulla a che fare.
Anche
l'origine alternativa che gli frulla in mente per quei tunnel non ha
nulla a che fare con l'uomo e, con Roswell a meno di due ore d'auto
di distanza, si dice che il sospetto è pure lecito... magari
le
misteriose radiazioni degli omini grigi spiegherebbero il formicolio
che l'ha colto da quando è sceso questa mattina: ha la pelle
d'oca
per un'aspettativa forte, in agguato, che però non sa
nemmeno cosa
aspettarsi, di preciso. In fondo, sono solo dannate caverne.
Quell'aspettativa
smussa i pensieri, la mente si svuota, John continua a camminare. Non
sente la stanchezza. Gli piace stare lì, è un
posto semplice e
raccolto. Non gli sono mai piaciuti i posti semplici e raccolti. Si
guarda intorno, cercando di ficcarsi in testa ogni particolare di un
panorama che un occhio meno attento definirebbe tutto uguale.
Appoggia il palmo aperto sul basso soffitto ricurvo e distende le
dita fino quasi a farsi male, come se la roccia potesse spiegargli
qualcosa.
Dovrebbe
tornare. Ma
sta
già tornando.
Prosegue.
C'è
un'apertura improvvisa. La sua torcia arriva appena a illuminare
l'altro estremo della grotta e John diffida di quello che sembra
mostrargli, ma con ogni passo deve arrendersi all'evidenza. Gli
tremano le mani. Cinquanta piedi sotto la superficie, sotto un
deserto che non ha mai visto altro che sassi ammucchiati e pali di
legno, lo attende un massiccio arco intarsiato di metallo e pietra,
cesellato ai bordi con svolazzanti lettere in un alfabeto alieno.
John trema tutto ora, non solo le mani, come se il pizzicore di prima
non fosse stato che un preambolo del sentimento che lo scuote. La
luce elettrica compie un arco oltre il portale e viene riflessa dai
bracci metallici di giganteschi macchinari prima che la torcia cada
al suolo con un clangore, riverberato dall'eco di un immenso spazio
oscuro.
Gli si ferma
qualcosa
in gola:
sente l'istinto di dire qualcosa, di confermarlo a sé o a
quelle
rovine, ma i suoni che si annidano dietro la lingua sono troppo
scivolosi e brevi per venire accettati qui. Sente che c'è
una lingua
per rivolgersi a tutto questo, ma non è la sua.
Recupera la
torcia e
attraversa
l'arco in silenzio.
Le parole
escono solo
quando John
è tornato in superficie e si staglia, sperso, contro il
tramonto
aranciato del deserto. Ritrova se stesso, la sua
razionalità, la
prospettiva. “Tuo figlio è tornato”,
voleva dire, e ora si sente
un imbecille solo a pensarlo.
...se qualcuno
vede i
caratteri
da nerd, sappia che è un nerd. E ne sia
fiero! Note
scandalosamente prolisse:
@
prompt di Harriet: John parla lingue straniere, Esher si addormenta
solo
sognando i cieli di D'ni, Atrus si ritrova perso in paesi lontani,
Gehn canta O
sole mio una
terra di santi, più o meno. Calam compare a casaccio, come
nella miglior tradizione del canone.
1.
@
caratterizzazione: a pensarci su, Esher per me è sia un
codardo sia
un animale sociale. Un po' un Peter Pettigrew de noantri, sotto certi
aspetti. Rispetto a EoA, qui è giovanissimo e gli mancano
ancora un
po' di stadi di sclero: i Bahro certamente, poi l'isolamento
continuo, moar-special-than-thou-Yeesha che gratta i nervi a tutti
fuorché a me, infine la Tablet, che secondo me è
l'avvenimento che
lo sbarella del tutto (mi viene un parallelo con Saavedro, quando si
rende conto del 'potere' di Atrus di ricostruire una
civiltà).
@
Libro per D'ni su Noloben: il fatto che in EoA non ci sia non
è
significativo imho. A parte Tahgira che era un'Era prigione e quindi
isolata, Todelmer e Laki'ahn avevano certamente un bel via-vai di
D'ni e neppure loro hanno un Libro in EoA. Licenza creativa di Cyan o
li hanno tolti i Bahro nel progettare un percorso che si giocasse
solo alle loro regole, chissà.
@
vailee: un decimo dell'hahr, cioè dell'anno D'ni (che dura
quanto
quello terrestre, per ovvi motivi)
@
“Lo so benissimo cos'è un vailee, ma
perché non vaileetee?”:
perché a me mi hanno insegnato che
in
italiano i termini
stranieri non prendono il loro plurale originario. Un weekend, due
weekend; un hobby, due hobby; un vailee, due vailee.
@
orbita sghemba di Noloben: per comodità di trama, ipotizzo
che la
rotazione apparente del suo sole non sia perfettamente parallela
all'orizzonte come su Teledahn, ma abbia un moto leggermente
spiraliforme.
@
rumori lontani di collegamento: potrebbero essere Bahro, potrebbe
essere la sua immaginazione. Non so quanto presto li abbia incontrati
su Noloben e mi tengo sul vago.
2.
@ricordi
indistinti di Gehn: aveva otto anni quando D'ni è caduta.
Buona
parte delle sue idee distorte viene dai ricordi falsati di quand'era
bambino, credo.
@
Quinta Era: Riven!
@
Trentasettesima Era: 37th appare nel Book of
Atrus.
Spoiler: fra l'Arte di Gehn e il muro di nebbia, vince il muro di
nebbia 3-0 ai supplementari. La luce azzurra sarebbe Rezeero.
@
Centoduesima Era: inventata!
@
Duecentotrentatreesima Era: ho glissato per comodità sulle
speranze
che nutriva in quel momento per 234th: in fondo,
il suo
desiderio primario era sempre tornare a D'ni e quella strada gli era
sempre preclusa (siamo poco prima degli eventi di Riven).
@
ultima Era: se i Libri Trappola non esistono, come il sciur Watson
sostiene, il Libro che Atrus consegna allo Straniero è un
Libro Prigione, come Haven o Spire, che semplicemente linka a una
stanza che sembra
molto ma davvero tanto oh K'veer.
3.
@
Calam che non risiede in D'ni ma in un'Era random: secondo me ha
più
senso che una persona riesca a sopravvivere cent'anni, e a sfuggire a
una meticolosa ricerca, se non se ne sta ferma in mezzo ad Ae'gura come
una papera zoppa. Un'Era tutta sua doveva avercela o non
sarebbe sopravvissuto alla Caduta, peraltro.
@
sogno: può essere profetico oppure no, semplicemente causato
dall'aver passato il pomeriggio col capo chino su Words, che parla
sia dell'uccello del deserto sia del fiume. Chissà se le
creature
che aveva visto su Kade'reek assomigliavano effettivamente a un
nostrano roadrunner...
@
reveesh, Kalek, Kade'reek: prima e terza sono inventate di sana
pianta, il secondo è effettivamente un distretto di D'ni.
4.
@
timeline: siamo nel 1814, dopo gli eventi del Book of D'ni. Da
Chroma'agana, Atrus ha riaperto il collegamento con D'ni e ha
effettuato una ricerca accurata per centinaia di Ere, radunando i
D'ni sopravvissuti alla Caduta (quasi tutti: ne ha mancati almeno
due, Esher e Calam! E chissà chi altri). L'incidente di
Terahnee
porta all'abbandono del progetto originario di restaurazione della
Caverna e Atrus scrive Releeshahn come nuova patria per i
sopravvissuti. Terminato questo, costruirà Tomahna come
nuova casa
per la sua famiglia. Qui siamo nel momento di trasloco da D'ni a
Releeshahn.
@
sguardo sempre rivolto alla Città: il diario di Rime, l'Era
aggiunta
in realMyst, mostra in modo toccante come la restaurazione fosse
sempre stata una priorità di Atrus, fin dai primi tempi su
Myst. Ma
le sue pare mentali riguardanti Gehn gli hanno impedito di iniziare i
lavori fino a dopo gli eventi di Riven...
@
suo il fardello di portarle a compimento: lo dice Words, The
stories of the Destroyer will be the start of the burden. =]
@
solitudine unico ostacolo: Atrus e Catherine passano almeno sei anni
a Chroma'agana e iniziano i lavori della restaurazione di D'ni solo
quando riescono ad assicurarsi l'aiuto della popolazione locale di
un'Era (Averone).
@
Myst donata come rifugio e pegno d'amore: exactly what it says on the
tin. “Rifugio” è una denominazione di
Yeesha, comunque fu
Scritta dalle altre due donne della sua vita, Anna e Catherine, come
rifugio da Gehn.
@
Ere di Myst descritte appena dopo: rispettivamente Gravitation,
Serenol e Shimar, come descritte dai diari extra consultabili
su MYSTlore.
@
“per oggi, ci può credere”: punto primo,
Atrus e
l'autorecriminazione vanno a braccetto, difficilmente resta convinto
di aver fatto del bene per più di due settimane di fila.
Punto
secondo, unexpected Bahro is unexpected... cerco di andar con ordine:
Yeesha dice di aver ereditato il suo fardello dal padre; il fardello
di Yeesha è la liberazione dei Bahro; Yeesha stessa accenna
al fatto
che fu suo padre a scoprire i Bahro; Atrus però non vi
accenna. La
mia conclusione è che la definizione di Atrus di 'fardello'
riguarda
indiscriminatamente tutte le magagne della Caverna: inizialmente
riunire i D'ni, poi completato quello con la scrittura di Releeshahn
sembra che tutto sia a posto, poi all'ultimo scoprono i Bahro ma lui
non ha i mezzi per risolvere quel problema e ci si strugge per tutta
la vecchiaia. Il 'fardello' è qualcosa che accompagna Atrus
per
tutta la sua vita, se stiamo a sentire Words, ma ritengo impossibile
sia che consideri i D'ni
problematici dopo il 1815 sia
che venga a conoscenza della tragedia dei Bahro prima del 1814.
Ergo... (perché appena si inizia a parlar di Bahro diventa
tutto
così complicato?)
@
dono di Ri'neref: dal più grande Scrittore di tutti i tempi,
ci si
sarebbe aspettati qualcosa di più sfarzoso di una caverna
come nuovo
rifugio per la sua gente. E invece Ri'neref, che era un po' un San
Francesco ante litteram, scelse un luogo buio e aspro proprio come
monito di umiltà. (cfr. Storie dei Re)
5.
@
John Loftin: John
Loftin!
@
leggende Anasazi
sospettosamente simili ai Bahro: sarei una fanwriter fantastica se le
avessi inventate o scoperte io, ma è tutto vero e citato in
primis
da Cyan e/o dal DRC XD Googlare per credere!
@
primo contatto con D'ni: a citar le fonti mi vengono le note
più
lunghe della fanfic e già qui siamo fuori misura massima di
un bel po'. Alzo una bandierina bianca esausta dalla
documentazione e dico che, tirando le somme, secondo me ha senso che
sia approdato al Great Shaft da qui
(e non dal vulcano). *sviene*
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