Heather
Nota: Riferimenti a fatti, luoghi o persone realmente esistenti sono
puramente casuali. I personaggi sono di mia pura invenzione.
Io Sono Io
Io sono Heather.
Non amo parlare, tanto meno non amo parlare di me, trovo che sia una
cosa completamente inutile, visto poi gli argomenti che piacciono alla
gente.
Sono una ragazza di quattordici anni, capelli castani, occhi grigi,
piuttosto alta e magra. Sono la classica persona che molti
definirebbero "asociale".
Sciocchezze, io sono come sono. Nessuno mi può dare una
definizione certa.
Non ho ambizioni, né interessi, so soltanto che la vita che
faccio è monotona e noiosa. Mai qualcosa di divertente.
Non so chi siano i miei genitori, in quanto sono morti quando avevo
circa un anno. Non so nemmeno se ho fratelli, nonni, zii...
Ho vissuto in un orfanotrofio, adesso c'è una famiglia che
mi
vorrebbe adottare, ma poi, sono sicura che, appena mi conosceranno
meglio, se ne andranno tirando fuori le scuse meno credibili. Scema,
è questo che credono che sia.
Ma, peccato per loro, io non lo sono. Credo anche di cogliere
più particolari e finezze, che nessun altra adolescente
della
mia età, o forse, anche più grande, possa notare.
Nell'orfanotrofio, e nella scuola, sono famosa perché con
una
persona non reggo un discorso che duri più di cinque, o
dieci
minuti. Pettegole le ragazze. Approfittatori i ragazzi. Non
c'è
motivo per cui io debba sprecare il mio tempo con loro.
Alzo lo sguardo: un albero spoglio, come quelli spesso ritratti nei
quadri Romantici, è fuori dalla finestra. Mi piace. Ritrae
malinconia, la natura di cui l'uomo ha paura, la morte, a mio parere.
L'unica differenza tra noi e gli alberi, è che gli alberi,
sembrano morti, negli inverni freddi, nudi, senza una foglia che possa
mettere allegria o speranza, ma non lo sono. No, perché la
primavera successiva si riempiono di gioia colore. Gli esseri
umani, una volta morti, lo rimangono.
La mia stanza è di un azzurro spento, nessuna foto, nessun
quadro, niente. Solo il mio zaino, un letto dalla coperta dello stesso
colore del muro, l'armadio con i miei vestiti, e pochi giocattoli.
Prendo la mia borsa di scuola ed estraggo un album da disegno. Prendo
anche l'astuccio, per la matita e la gomma. Inizio a tracciare linee
confuse.
Alla fine, la mia mano sinistra, chiamata anche "mano del Diavolo", mi
ha portata a creare un disegno che ritrae un albero spoglio sotto la
pioggia, simile a quello che ho davanti. Solo che qui non piove.
Dimenticavo un dettaglio: nel mio pavimento sono presenti tantissimi
fogli, in bianco e nero, con vari paesaggi e soggetti, che ritraggo
ogni qual volta ho l'ispirazione. Sono molti. Non do un giudizio,
perché so che il mio sarebbe sbagliato. Ma non lo
chiederò a nessun altro, perché non m'importa
niente.
Qualcuno bussa alla porta. Io non rispondo, e quella si apre.
-La cena è pronta.- dice Billy, uno dei tanti che lavora qui.
Io, silenziosamente, mi alzo, ed esco. Varco il lungo corridoio fino
alla porta più grande che c'è di fronte a me.
Entro.
Il caos più totale. Questi ragazzini sono indisciplinati.
Mi siedo al tavolino più isolato, il solito, insomma. Carl,
un
altro lavoratore, mi serve un piatto con della carne arrosto, sembra
felice. Forse sa che la carne è il cibo che preferisco,
soprattutto quella arrosto.
-Umpf...- borbotto, e lui se ne va, soddisfatto, sa che, interpretata
da me, quella sottospecie di parola, ha un enorme significato.
Inizio a mangiare, lentamente. Molti mi guardano, ma ormai ci sono
abituata: ti guardano e confabulano tra di loro, ti stanno criticando,
come se poi non vedesse.
Tipico.
Finita la cena. Me ne torno in camera. Mi siedo al centro della stanza,
e penso. La cosa che amo più al mondo. Rifletto, su tutto
quello
che mi è accaduto durante la giornata, che poi, è
sempre
la stessa cosa. A scuola, durante la spiegazione, mi metto a disegnare
su dei fogli o sul banco, mentre tengo lo sguardo puntato sul
professore, e, se l'argomento non mi sembra più noioso del
solito, mi metto anche ad ascoltare.
Ricreazione: il caos più totale, come la mensa, qui
all'orfanotrofio, con la differenza che, con solo venti persone,
c'è lo stesso chiasso che ne fanno circa ottocento.
Sarebbe il momento ideale per parlare con qualche amico, ma non ho
amici. Non condivido le idee di quegli scalmanati senza cervello, che
si credono chi sa chi.
Prendo un altro foglio dall'album, e sopra ci disegno il volto di un
ragazzo, inventato, ma non mi interessa che somigli a qualcuno, se
è così.
Credo che siano le ventidue passate. Lo so perché, ho
notato,
che una stella particolare brilla nel cielo soltanto dopo le ventidue.
Mi corico nel letto.
Se fossi una ragazza come le altre, volgerei il mio pensiero a quello
che potrei sognare. Ma, per quanto mi riguarda, potrei anche sognare il
nulla.
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