Zankyou, Kieru Made [Until Reverberation Died Away]
[
Seconda classificata
al contest «Da una Canzone»
indetto da Marghepepe e valutato da meli_mao ]
Titolo: Zankyou,
Kieru Made [Until Reverberation Died Away]
Autore:
My Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia:
One-shot
[ 1959 parole ]
Canzone:
“21 Guns”
Green Day
Genere:
Drammatico, Guerra, Introspettivo, Parzialmente Shounen Ai
Rating:
Giallo/Arancione
Avvertimenti: Non per
stomaci delicati (?), Spoiler!
Introduzione: Cinico
e bastardo, dicono in molti.
Un
uomo che per ottenere ciò che vuole è pronto a
calpestare
i piedi a Dio stesso, se mai esista un Dio in questo frivolo mondo.
Coloro
che mi conoscevano e mi conoscono, però, sanno quanto
quella guerra che tutti noi abbiamo combattuto sia andata a gravare non
solo
nel mio cuore, ma anche nei loro, lasciandoci un qualcosa paragonabile
solo
alla disperazione.
FULLMETAL
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Rights Reserved.
Do
you know what’s worth fighting for? When it’s not
worth dying for?
Does it take
your breath away? And you feel yourself suffocating?
Does the pain
weigh out
the pride? And you look for a place to hide?
Did someone break your
heart
inside? You’re in ruins
[ “21
Guns”
Green Day ]
Star qui ad
ascoltar le mie parole potrebbe sembrar stupido,
insensato, ma voi che vi ci soffermate, cosa vi aspettate di trovar
scritto fra queste righe di memorie?
Lo dirò fin dal principio: non sto cercando espiazione
rendendo voi partecipi di questi ricordi, e non sono nemmeno sicuro che
voi
siate interessati a ciò che ho espresso.
Se volete seguirmi in questo lungo viaggio, però,
dovrò
cominciare dall’inizio di ciò.
Accadde tutto durante i miei
vent’anni, quando da ragazzino
ancora ingenuo e sognatore credevo che il mondo riservasse
sempre una via
di fuga dalla sua cruda realtà.
Dio, quanto mi sbagliavo.
Ma mi duole ammettere che se non mi fossi mai ritrovato lì,
in quel massacro di sangue e ceneri, non sarei mai diventato
l’uomo che sono
adesso.
Cinico e bastardo, dicono in molti.
Un uomo che per ottenere ciò che vuole è pronto a
calpestare
i piedi a Dio stesso, se mai esista un Dio in questo frivolo mondo.
Coloro che mi conoscevano e mi conoscono, però, sanno quanto
quella guerra che tutti noi abbiamo combattuto sia andata a gravare non
solo nel
mio cuore, ma anche nei loro, lasciandoci un qualcosa paragonabile solo
alla
disperazione.
Lasciate però, come già detto, che io parta dal
principio,
così che anche voi che non avete vissuto in prima persona
quei drammatici
momenti possiate, almeno
in parte, comprendere
l’angoscia che ci
attanagliava ogni secondo, lo sconforto che serpeggiava negli animi
come un
serpente infido.
Come dicevo pocanzi, avevo poco
più di vent’anni
quando
venni mandato al confine.
Giovane alchimista di talento, ero ancora convinto che la
mia alchimia potesse essere usata per far del bene, proprio come il mio
Maestro
mi aveva insegnato, e avevo quindi deciso d’arruolarmi
nell’esercito,
così da
poter essere utile al mio Paese.
Ma, quando gliene parlai, mi disse solo che mi sarei disonorato. Avevo
provato a convincerlo che con le sue conoscenze
sarebbe stato semplice diventare un Alchimista di Stato e che, in
fondo,
così
facendo avrei potuto aiutare sia la gente che l’esercito.
Quella nostra discussione non aveva
avuto un esito positivo,
purtroppo.
Malato ormai da molti anni, il mio Maestro morì quello
stesso giorno e i suoi segreti sarebbero scomparsi con lui se non li
avesse
affidati a sua figlia, Riza. Quando venni a conoscenza di tali segreti,
riuscii
ad affermarmi come alchimista proprio come avevo pensato al principio.
Quelli, però, erano gli anni della rivolta.
Dopo un periodo lungo sette anni, il Comandante Supremo
dell’esercito aveva ordinato di porre fine a quella Guerra
Civile, facendo
scendere in campo noi Alchimisti di Stato.
Non fu una guerra, però,
quella che mi ritrovai ad
affrontare.
Fu un massacro, un vero e proprio sterminio.
Donne, bambini, anziani... venivano tutti uccidi senza dar loro scampo.
L’inizio di quella guerra era stato segnato dalla
scelleratezza d’un soldato che aveva sparato - per
sbaglio, si vociferava... ma chi ci avrebbe mai creduto? - ad
un bambino innocente, e quindi, dopo tutti quegli anni, s’era
deciso di porre fine
a tutto con tale massacro.
Oh, se solo sapeste cosa vi fu, dietro a tutto questo! Ma
immergiamoci piuttosto in quei giorni, in quei momenti che
mozzavano il fiato di ogni singola anima che si trovava lì
ad Ishvar, ad atttendere il momento della resa o l'approssimarsi della
propria morte.
Ricordo che non udivo alcun suono, nelle
prime ore che
precedevano l’alba.
Nell’aria si librava in ogni momento, denso come i miasmi
dell’Inferno in cui ci eravamo ritrovati, l’aspro e
terrificante odore dei
corpi carbonizzati e della polvere da sparo.
Quasi mi sembra di riuscire ancora a sentirlo, se solo
chiudo gli occhi e respiro a pieni polmoni.
Ma non voglio soffermarmi su tale punto.
Era solo un aspetto marginale di quel confine fra vita e
morte.
Ciò che posso raccontarvi è solo il
modo in cui
io l’ho vissuta, il modo in cui questa guerra mi ha segnato,
e a
tal proposito mi torna alle mente ciò che un mio caro
amico mi disse.
Si era trovato lì anche lui, Capitano d’uno dei
molteplici
plotoni lì presenti.
«C’è
qualcosa di diverso, nei tuoi
occhi», mi aveva detto
in tono serio, guardandomi con quei suoi occhi verdi e profondi
attraverso
gli
occhiali che indossava.
E, mentre mi stavo asciugando il viso, avevo ricambiato quel
suo sguardo, specchiandomi in una grande tinozza d’acqua
presente lì
all’accampamento.
«Questo vale anche per
te», gli avevo risposto,
osservando
il mio riflesso. «Hai gli occhi d’un
assassino».
Eh, gli occhi di un assassino... tutti
noi avevamo quegl’occhi, ormai.
Non c’era soldato che non avesse assaggiato un boccone di
quella guerra.
Persino Riza, di cui vi parlavo pocanzi, non si salvò da
quel destino.
Sulla sua schiena portava il segreto delle mie fiamme,
segreto che è andato poi perduto proprio per mano mia.
A
differenza di noi alchimisti, però, lei era un cecchino, per
quanto ciò non implicasse comunque il suo essere estranea a
quel
massacro.
Non seppi mai rispondere con vera convinzione alle sue
domande, quando tempo dopo me le porse.
Mi ero sorpreso di trovarla lì, devo ammetterlo, e ancor di
più mi spiazzarono i suoi quesiti.
«Perché i soldati,
che dovrebbero proteggere i
cittadini,
invece li uccidono?»
Perché quello
è l’ordine che
devono eseguire.
«Perché
l’alchimia, che dovrebbe portare
felicità alla
gente, viene invece usata per ucciderla?»
Perché questo
è il lavoro di un
Alchimista di Stato.
Risposte semplici, concise.
Risposte alle quali, in realtà, non avevo mai creduto
nemmeno io.
Ogni cosa si accavallava e pesava enormemente nel mio animo,
senza lasciarmi alcuna tregua o un posto dove poter star solo con i
miei
pensieri. Non c’era mai un momento per
riposare, in quel luogo.
Se mi guardavo intorno, vedevo solo case in rovina: le assi
annerite delle case, le fiamme che man mano si spegnevano al debole
vento che
soffiava, deteriorando ogni possibile forma di combustibile; il fumo
che si
innalzava nero intorno a me, avvolgendo quella che un tempo era stata
una
ridente cittadina; corpi martoriati ammassati gli uni sugli altri come
se fossero semplice spazzatura, dove
sembravano esserci anche i resti di piccole recinzioni e trincee,
quelle stesse
trincee con cui avevano provato a difendersi dagli attacchi nemici.
Dai nostri attacchi.
Perché eravamo noi il nemico, eravamo noi gli invasori.
Più volte mi sentivo
stringere il cuore in una morsa, quando
mi si paravano
dinanzi quelle scene: i corpi che non ero stato io a bruciare - e
di cui
riuscivo a scorgere i profili - avevano molto spesso la pelle
livida ed
esangue, il volto tumefatto, e tutto ciò restava nel mio
animo, accumulandosi a poco a
poco.
Anche adesso è ben difficile che me ne dimentichi, a ben
vedere.
Fu difficile tornare alla vita di tutti
i giorni, dopo
quel massacro.
Ovunque guardassi, mi sembrava di scorgere solo corpi in
fiamme, membra a cui il fuoco attecchiva deteriorando pelle e muscoli,
lasciando nell’aria quell’acre odore di grasso che
tanto detestavo.
Mi ci voleva tutto il mio sangue freddo per cancellare
quelle raccapriccianti immagini.
La notte non dormivo, se non molto raramente, e, anche quando lo
facevo, gli incubi tornavano a farmi
visita.
Seppur mi mostrassi deciso, incurante di ciò che avevo fatto
durante quei giorni, non avevo mai dimenticato i volti di coloro che
avevo
ucciso, esattamente come mi era stato detto da uno dei soldati
lì presenti, Zolf J. Kimblee.
Arrivati a questo punto anche voi mi
considererete un
mostro, non è così?
Un lurido assassino che non si sporcava nemmeno le mani.
Sappiate, però, che tutto ciò mi toglieva il
fiato,
impedendomi di respirare.
Soffocavo nelle stesse nubi di fumo e cenere che creavo, non
potendo tirarmi indietro da quella realtà che io stesso
avevo forgiato con le
mie mani. Schioccavo le dita, creavo fiamme; ciò che poi
restava era
solo un corpo carbonizzato, soltanto il ricordo di quello che una volta
era stato un
uomo.
State ancora pensando che io sia un
mostro, non è vero?
Ebbene, avete perfettamente ragione.
Tutti noi alchimisti siamo soltanto semplici mostri. Siamo armi umane,
armi sfruttate dall’esercito per attuare
massacri che i comuni mortali non potrebbero compiere. Anche noi,
però, abbiamo i nostri sentimenti, e questo misero essere
quale
io sono ha un piccolo sogno,
quel sogno nato anni addietro su un campo di battaglia.
Sorrido ancora un po’
amaramente a quel pensiero, a quelle
parole scambiate con Maes, mio caro e fidato amico, durante quella
cerimonia
che aveva chiuso la guerra.
Ricordo anche che, poco prima che tale cerimonia
cominciasse, me ne stavo seduto su una di quelle macerie, in disparte
da tutti
e tutto.
La guerra era conclusa e, intorno a me, s’udiva il rumore
dei camion in partenza e il chiacchiericcio rumoroso ma allegro dei
soldati.
Era finita, saremmo tornati a casa.
Ma a che prezzo?
Per quale motivo avevamo affrontato tutto ciò?
Non avrei saputo darmi una risposta, così come non avrebbero
saputo darmela i commilitoni che mi avevano offerto da bere.
«Con
quelle fiamme
portentose ha
sempre fatto in modo che noi non morissimo invano»,
mi aveva detto uno
di loro dopo esserci scambiati un paio di convenevoli.
Facevano quasi tutti parte della mia truppa e io non ne
sapevo nulla.
Mi dissero i loro nomi e poi quelle parole.
Charlie, Richard, Dino, Fabio, Alberto, Roger, Damiano.
Non li scordai più, in seguito.
«Per
noi lei
è un Eroe. È merito
suo se molti di noi sono sopravvissuti. Le siamo grati, Maggiore».
Un
Eroe... ironico.
Ancora oggi vengo ricordato così.
Vengo ricordato come un Eroe per aver salvato le loro vite e
averne distrutte altre.
Non sembra anche a voi che ci sia un ché di sadico sarcasmo,
in tutto ciò?
Avete la mia stressa espressione dipinta in viso, adesso, ho
indovinato?
Avete arricciato un po’ il naso e aggrottato la fronte, come
se tutto ciò che ho fin’ora raccontato sia stato
solo il delirio d’un folle o
quello d’un assassino che cerca espiazione. Ma ormai sono in
rovina, miei cari.
Non è rimasto quasi più nulla in quel frammento
d’anima che
possiedo.
Anche adesso che osservo il corpo del mio compagno addormentato
qui, accanto a me, non posso fare altro che sentirmi un mostro.
Queste mie mani che lo accarezzano ogni notte sono le stesse
che hanno portato morte e scompiglio. È
una perversa ironia, questa.
Sorrido amaro mentre gli sfioro i
capelli biondi,
attorcigliandomi delicatamente le ciocche intorno ad un dito.
Forse lui è l’unico a capire realmente
come io mi
senta.
Siamo entrambi peccatori, entrambi abbiamo ambito
diversamente al Sole e non ne siamo usciti illesi, strisciando con le
nostre
misere forze fuori dal quel nostro personale Inferno.
Ancora una volta allontano le mani per
osservarle,
fissando intensamente pollice e indice.
Uno schiocco di dita ed
è tutto finito.
Un semplice gesto e tutto il mio mondo potrebbe ridursi in
cenere.
Forse è per tale motivo che, dentro di me, il ricordo della
colpa continua ad ardere, consumandomi.
Sapevo e so tutt’ora quali erano i miei ideali, qual era
l’obiettivo
che mi era prefissato e che sto ancora oggi cercando di raggiungere con
tutte
le mie forze, ma per quanto mi sforzi c’è sempre
quel martellante
interrogativo che anni addietro mi ponevo.
Quel pressante bisogno di sapere se ciò che reputavo giusto,
in realtà, non era sbagliato.
«Tu
perché combatti?»
«È
semplice, non
voglio morire. Ecco perché.
La ragione è sempre
semplice, Roy».
Guardo
intensamente quegli occhi dorati, ora non più celati
alla vista, e mi vien da sorridere ancora.
Se mi fossi lasciato vincere dal peso
che si era accumulato
sul mio orgoglio - senza sapere quale fosse la vera ragione
per cui avevo così
ardentemente lottato fino a quel momento -, probabilmente non
avrei mai
scoperto quella gioia che riesce a donarmi il semplice stare con lui,
il
condividere la mia vita in sua compagnia, il sapere che non avevo
attraversato
il dolore solo per riceverne altro.
La ragione era
semplice, forse Maes non aveva tutti i torti.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
storia/tributo
è nata per il contest
indetto
da Marghepepe,
“Da una Canzone”,
valutato
poi in seguito (Per motivi lunghi e complessi che non sto qui a
spiegare) da meli_mao, e si
è piazzata come seconda
classificata nonostante io avessi i miei dubbi che potesse essere
un'ottima storia.
E'
molto introspettiva e parla della guerra d'Ishbar. Ho
cercato di
attenermi al testo della canzone e a ciò che succede nel
manga, mettendo a nudo
le sensazioni del protagonista della shot: la guerra vista secondo i
suoi occhi
e quelli degli altri soldati; quello che prova durante quei momenti e
ogni particolare che intorno a lui sembra
cambiare durante quello sterminio. Ho anche provato a spiegare un
po’ gli
avvenimenti che conducono a quella guerra, visto che al giudice
iniziale conosceva poco il manga. I
dialoghi (Così come quelli in corsivo al di fuori di
“«” e “»”)
sono tratti
proprio da esso e, anche per tale motivo, negli avvertimenti ho
inserito
spoiler. Il titolo, poi, è un omaggio alla doujinshi di un
circolo che adoro:
GD Mechano.
Qui di seguito il commento della giudice che ha così
gentilmente sostituito la precedente:
- Originalità: 10/10
- Stile: 10/10
- Grammatica e lessico: 9.5/10
- Attinenza canzone: 8/8
- Attinenza personaggi originali: 7/8
- Giudizio personale: 4/5
- Totale: 48.5/51
Il mio giudizio forse non era 5/5, ma di sicuro fra tutte la
tua storia
era quella che più meritava il podio. Organica, scritta
bene, con uno sfondo non scontato come potrebbe
apparire all’inizio. I pensieri di Mustang sono perfettamente
espressi.
È originale e non ripetitiva, piacevole da leggere.
Per
spiegare il punteggio: ho tolto 0.5 alla grammatica per un piccolo
errore di distrazione, ma non incideva sul punteggio quindi
l’ho
segnalato a solo scopo indicativo. Per i personaggi ho preferito
togliere un punto perché io proprio il colonnello in una
storia omo non
ce lo vedo, ma ovviamente quello riguardava la mia visione del
personaggio, tipico donnaiolo.
Per il resto davvero complimenti perché li meriti tutti!
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