Il rumore che
la porta a pannello fece aprendosi fu soltanto un lievissimo fruscio di carta,
e un rollio basso, che si persero agevolmente nello
stillicidio delle gocce e nel sussurro del vento, quasi appartenessero
anch’essi al microcosmo del giardino ancora inargentato dopo il breve
temporale. Né ruppero l’armonia il tocco di quella
mano elegante sull’intelaiatura della porta, e il suono sordo e pieno di quel
passo, del legno dei sandali contro il legno inzuppato e odoroso del pavimento.
Il giardino continuò a respirare e a gocciolare come se l’esile ragazza dai
capelli corvini che si era affacciata alla porta gli appartenesse, come fosse
solo una delle sottili betulle brinate di cristallo, come se la sua presenza
fosse abituale, contemplata, inserita nel cerchio delle stagioni. Almeno per il
giardino, non era un’estranea.
Arashi
appoggiò il capo contro lo stipite della porta, e si arrese, si arrese a
respirare l’odore umido e aromatico dell’aria, ad ascoltare la canzone delle
ultime gocce che scivolavano giù dalle foglie affaticate, a perdere lo sguardo
tra il verde lucidissimo e le ragnatele che parevano gioielli di vetro e di
giada. Le piante, gli alberi, l’erba bassa, i sassi lucenti, tutto l’aveva
accolta e inglobata con la sua pace: per il giardino non era un’estranea.
Era per lei
che il giardino era estraneo.
Adesso, tutto
le era divenuto estraneo, ogni cosa di quel luogo dove aveva passato la sua esistenza sembrava fuggirle davanti e scivolarle da sotto le
dita; gli incensieri, gli altari, il santuario, i torii,
tutto pareva ritrarsi al suo passaggio, e chiudersi geloso dietro cortine di
fumi stordenti, di bruma impalpabile. E lei rispondeva
nello stesso modo, stringendosi indifferente nelle falde del suo kimono,
voltando lo sguardo da quel mondo che non riconosceva, dal suo ordine
esasperante, dalla sua soffocante armonia.
Non ricordava
più niente. Non capiva come quella potesse essere la
sua “casa”. Del resto, quale posto avrebbe potuto adesso essere per lei una
“casa”? Da bambina, aveva chiamato con questo nome lo squallido
sottotetto dove aveva vissuto con sua…madre (aveva avuto una madre…la visione di un istante di
un’onda di capelli nerissimi, e poi più nulla…). Poi la sua casa era diventata
quel tempio, il suo mondo recluso, il suo silenzio carico di presenze mute, e
di potere. E infine, una leggerissima reminescenza, come l’impressione di un
sogno sfumato, di una casa che aveva immaginato, una stanza in penombra e una
parete tutta a finestre, i vetri rigati di pioggia nera che tamburellava e scivolava
veloce, il bianco di un grande letto disfatto, e poi
il calore di una mano sulla sua spalla nuda, restare seduti senza parlare nella
morbidezza di quel candore, ad aspettare domani… No. No, non lo ricordava.
Probabilmente sapeva solo che questo doveva aver immaginato, una volta, ma non
era un suo ricordo. Era come se quella vita fosse appartenuta a qualcun altro,
e adesso ne stesse solamente sfogliando un album di
fotografie, immagini a volte sfuocate, altre volte più nitide; le ultime pagine
erano vuote. Vuote. Come lei.
Cos’era che la
teneva in vita? Forse quella stessa forza che faceva aprire i fiori di quel
giardino, che imponeva agli steli senza volontà di rialzarsi dopo ogni
temporale, che maturava i frutti sui rami inconsapevoli, che staccava
le foglie d’inverno e allo stesso tempo inturgidiva le gemme in primavera. Una
divinità? No, la sacerdotessa nascosta del tempio di Ise non credeva più a nulla. Era solo una forza cieca, incausata e senza scopo, che la trascinava ancora un altro
passo più avanti nella vita, alla quale lei rimproverava ogni minuto vuoto,
ogni istante che scorreva inutile, tutti quei giorni deserti
che il destino aveva voluto allungarle quasi beffardamente, come perle gettate
nel fango. Se quel maledetto destino li avesse regalati
ad una qualsiasi di quelle migliaia di persone morte negli infiniti grattacieli
di Tokyo, quei giorni che a lei non servivano a niente…
Improvvisamente
ritrasse la mano ancora appoggiata alla porta scorrevole, come se il legno
avesse preso fuoco. Si morse il labbro, e si strinse quella fredda mano al
petto, come per ritirare dentro di sé ogni atomo della sua esistenza, ogni sua
aura di presenza. Le succedeva sempre così da quando era tornata al tempio: non
riusciva a toccare più niente di quello spazio sacro, le sembrava che le sue
dita macchiassero di rosso ogni cosa che sfioravano,
le sembrava che il suo solo passo contaminasse il legno lucido dei pavimenti,
che il suo respiro intorbidasse i fumi dell’incenso, che la sua sola presenza
incrinasse l’aerea inconsistenza degli spiriti. E
insieme era come se il tempio avesse ingaggiato una silenziosa battaglia contro
di lei, e contro di lei muovesse compatto, per risvegliarle dentro un senso di
fastidio e rifiuto, come se la sotterranea potenza di quel luogo stridesse e
mandasse scintille contro il suo potere personale che avvertiva ancora vibrare
nelle sue membra. E allora sentiva affiorare di nuovo
dentro di sé quella forza indifferente, quella furia fredda e imperturbabile,
constante, senza perché, che l’aveva fatta salire, quel giorno, tra le lamiere
contorte della torre di Tokyo, ammantata in quel drappo bianco, macchiato di…
Ma non ricordava neanche questo.
Forse qualcuno
era morto per lei, quel giorno. O forse era stata lei
ad uccidere qualcuno.
Non sapeva.
Poi si accorse
che il gocciolio si era quasi spento del tutto. Le foglie lucide andavano
asciugandosi, le corolle dei fiori avevano lasciato cadere le loro perle
d’acqua, ed ecco, adesso un raggio di sole era riuscito ad averla vinta, ecco
che la luce tornò ad illuminare di tutta la sua gloria il
mondo verde, ancora freddo e stillante del giardino.
Dopo la
pioggia, torna sempre il sereno.
E allora pianse. Non si
accorse che lo stava facendo, ma come i petali ignari si piegavano di lato per
lasciar scivolare via le gocce di pioggia, così le lacrime abbandonavano le sue
ciglia nere e le colavano giù contro la guancia appoggiata allo stipite. E come le foglie non lo sapevano, che era estate, ma solo si
asciugavano più in fretta, così lei non capiva che il suo inverno era finito,
non sapeva che le lacrime le stavano rigando il viso come non succedeva da
tanto, tanto, infinito tempo, ma solo…
…solo riusciva, adesso, a distinguere con precisione, con tumultuosa
perfezione i tratti di quel viso ridente, a sentire il passo di corsa di
sandali simili ai suoi sulla ghiaia del vialetto del giardino, solo riusciva,
adesso, a ricordare. E poteva adesso vedere
distintamente che stagliata contro la luce dorata c’era una figura che le
correva incontro, e ora le tendeva le braccia, chiamava il suo nome, e rideva,
in un turbinio confuso di lunghe vesti bianche e nere. Fra le lacrime, si sentì
crescere dentro un sorriso. E poi si lasciò invadere da quella forza impaziente
e gentile, si lasciò sollevare da quelle braccia ancora salde, si lasciò
annegare nel respiro un po’ affannato e nella risata di lui.
Sorata strinse
tra le braccia il corpo sottile e leggero della giovane donna, e sorrise a
sentirsi sfiorare la guancia solcata da un profondo taglio dal bacio di due
labbra tiepide. “Non piangere” disse “Non piangere. Adesso sei a casa.”
Lei sollevò le
ciglia ancora imperlate di lacrime, e incontrò quegli occhi dorati che in un
istante risposero a tutte le sue domande, colmarono il vuoto di un abisso che
aveva creduto senza fondo, la bagnarono della dolcissima luce del perdono,
tutto le fecero ricordare e dimenticare.
Arashi chiuse
gli occhi, abbandonò il respiro, allungò le braccia, e si strinse con tutte le
sue forze alla sua estate.
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[Note….. Chiarisco
che non ho visto il film di X, e dell’anime mi sono capitati sottomano solo i
primi episodi, quindi non so assolutamente come vadano a finire, anche se un
po’ me lo posso immaginare… Ho solo quest’idea di un’Arashi che per qualche motivo dimentica gran parte del suo
passato –come potrebbe unirsi ai Sette Angeli, se non dimenticando tutto? Un
po’ come per Fuuma, che sa bene chi siano Kamui o Kotori,
ma ha perduto ogni traccia di coinvolgimento personale. E
mi è rimasto molto impressa la primissima pagina del numero 1 di X, con Arashi e Subaru ammantati nei
drappi bianchi dei Draghi (del Cielo o della Terra?)… Sono questi i motivi che
uniscono questo piccolo racconto con il precedente Le rouge et le blanc, anche se le due storie si possono leggere
indipendentemente (e originariamente non avevo progettato Dopo la pioggia come un sequel, solo
nello scrivere mi sono accorta dei legami).
Spero di non avervi troppo annoiato, grazie davvero
di aver letto! E doppiamente grazie a chi ha letto anche Le rouge et le blanc!!
Shu]