Bene! Prima storia che riesco a concludere. E ho pensato di divulgarla un po' nella speranza che piaccia a qualcuno leggerla quanto a me è piaciuto scriverla. Ordunque. Innanzitutto c'è un neonato e un buon cuore. E, poi, molti nomi. E quelli sono importanti, si sa. A volte condizionano la... vita delle persone. Irrimediabilmente.
Ci troviamo in Persia, circa quattromila anni fa. La vita è bella e gioiosa come una donna incinta. Ma per quanto resterà così?
Sogno e Rinascita
Sono nudo, ma il caldo sole che sorge
sulle montagne lontane scaccia il freddo e la notte. Ma il gelo resta
dentro, e
nulla può portarselo via. Un ritmico dondolio mi culla, ma
non riesco ad essere
tranquillo. Piango. Chi è quest’uomo? Cosa vuole
da me? Mi tiene in braccio e
mi guarda con tenerezza, ma mi fa paura. I suoi capelli sono scuri e
lucenti,
come la sua pelle e i suoi occhi. La barba che gli copre la
metà inferiore del
viso sembra ispida, ricciuta. È diverso da qualunque uomo io
abbia mai visto prima
di adesso. Il
dondolio continua, e finalmente mi
addormento.
Lei non è la mia
mamma. Questa donna
non è la mia mamma. Dove sono? Cosa è successo?
Dov’è mia madre? Piango. Mia
madre non c’è, e ho come la sensazione che non la
rivedrò più. La donna mi
culla dolcemente, mi stringe al petto, mi dice che sono suo, suo, suo,
il suo
Kamal, la sua preghiera esaudita dagli dei, il frutto di un dono divino
che mi
ha portato tra le sue braccia. Non smette di cullarmi e di baciarmi la
fronte.
Mentre una lacrima cade lungo il suo viso scuro, rigandole una guancia,
io cado
di nuovo nel sonno.
Un giaciglio allestito
all’ultimo
momento è il mio letto. Di tanto in tanto – forse
sogno, forse ricordo, forse
scherzo del dormiveglia – apro gli occhi e vedo il viso di
quella donna. Che
non è mia madre. Però mi vuole bene, e lo so
perché me lo sussurra in
continuazione. Vuole bene a me, al suo, suo, suo piccolo Kamal. Troppo
stanco
anche per mugolare. Mi nutre, mi rimbocca la coperta di lino candido
attorno al
corpo, mi accarezza, mi guarda. Chiudo ancora gli occhi.
Stavolta
li apro davvero, ed è giorno, ed è oggi,
è adesso ed è vita, vita vera, che mi
strappa da un’età confusa e mi riversa tra gli
altri bambini. Sono scuri,
piccoli e in carne. Io no, io sono diverso. Li vedo osservare
interessati i
miei occhi chiari, la mia pelle candida. Ma non mi scacciano. Giochiamo
insieme
a rincorrerci, e mi cercano, quando non ci sono. Vengono a chiamarmi
davanti
casa e urlano il mio nome finché non metto la testa fuori
dalla porta e con una
risata li seguo.
“Kamal,
Kamal, Kamal”.
Li
attraggo, li affascino, li attiro intorno a me come se fossero insetti,
e io il
fiore. Un fiore che non ha spine, è appena nato, ma
crescerà. Obbediscono a
tutto ciò che dico, fanno ciò che desidero. Mi
seguono correndo nel mercato, ma
le mie gambe sono più lunghe, più svelte,
più bianche delle loro. Li semino e
li riprendo, li scaccio e li accolgo, a mio piacimento.
Ho
sette anni, e mi sento il padrone del mondo.
Un
mondo che è il villaggio attorno alla reggia, le case
piccole e ordinate,
accoglienti. Un mondo che è le braccia di mia madre, e anche
quelle sono
piccole e accoglienti. Non le ho ancora chiesto perché sono
così diverso. Da
lei, da mio padre, da tutti. Ma non ce n’è
bisogno. «Sei un dono, Kamal. Gli dei ci hanno dato
in dono il figlio più bello. La perfezione. Come il tuo
nome». Me lo
ripete spesso, e nella mia mente di fanciullo mi credo un dio.
Andrò presto a
lavorare come paggio a palazzo, con gli altri, con mia madre.
Sarà divertente.
Vedrò il re, che mio padre nomina di rado con tanto rispetto.
Ho
nove anni, e sto pulendo gli ori nella sala d’ingresso. Con
me ci sono Adel e
Aram. Adel è il mio migliore amico, è
l’unico che riesca a tenermi testa ed ad
atterrarmi quando giochiamo alla lotta. Mi ha fatto mangiare la
polvere, e da
allora siamo inseparabili. Ha un anno in più di me, ma a
volte sembra quasi che
ne abbia molti, molti di più. Il suo sguardo è
così diverso da quello di tutti
gli altri.
Mi
lancia addosso la sua pelle di yak, unta di oli, con cui stava pulendo
una
coppa intarsiata. E ride. Ride. Si piega in due, tenendosi la pancia.
Ed è così
bello quando ride, gli compaiono due minuscole fossette ai lati della
bocca.
Resterei ad osservarlo, ma la vendetta e il gioco e il bisogno di
prenderlo a
pizzichi diventano insostenibili. Mi lancio contro di lui, cacciando un
urlo
che quando ci picchiamo è il nostro inno di battaglia. Aram
ride piano, ma non
prende parte al gioco: sa che non è bene intromettersi tra
me e Adel, sa che
finiremmo per coalizzarci contro di lui, così piccolo e
gracile. È calmo, come
il suo nome.
Tanto
per cambiare, Adel riesce ad atterrarmi. Non ha smesso un attimo di
ridere, e
appena vede che sto ansimando per il gioco e che ho bisogno di
riprendere
fiato, si lancia sui miei fianchi, mettendo in atto ciò che
avrei voluto fare
io, ovvero prenderlo a pizzichi. Ma è una tortura piacevole,
almeno fino a
quando le mie risa non giungono alle orecchie di un cortigiano di
passaggio.
Kamal, come avrete intuito, significa "perfezione", in persiano.
Aram invece ha il significato di "quieto, calmo". ^.^ |