Mi piaceva tanto spaccare vetri
Mi piaceva tanto spaccare vetri,
sporcare specchi e ridere sino a perdere il respiro. Strappavo fogli per hobby,
perché me lo chiedevano.
Avevo quattro anni.
Compresi d’improvviso di
essere cresciuta quando le ferite appena procurate smisero di bruciarmi. Ero
cresciuta perché non sentivo più il dolore, perché la mia mente era già
concentrata sui possibili modi di farmi ancora più male.
Io ho conosciuto l’amore in
un negozio di dischi polveroso, il cui proprietario era un pianista cieco che
non rideva più. Ho conosciuto l’amore con indosso un vestito blu, grigio e
bianco addosso e senza niente sotto, e ricordo ancora le sue mani esitanti che
mi sfioravano sorprese…
Ridevo per rancore e
desideravo vendicarmi di tutti quegli specchi rotti, delle mie mani gocciolanti,
del lieve, leggero sangue che mi bagnava le ginocchia bianche.
Raggomitolata su me stessa
aspettavo che la luna sorgesse e mi domandavo dove cominciasse e terminasse
l’arcobaleno della mia follia.
…sorprese di trovare solo
pelle nuda, sorpreso lui stesso di sentire il mio respiro calmo sulla sua nuca.
Perduti per sempre tra la polvere, noi due, insieme, in quel negozio chiuso da
anni.
Lui fingeva di non udire
la mia voce rotta, venerava le mie cicatrici rosse e ancora umide di dolore come
se fossero reliquie sante, mi accarezzava le caviglie e ripeteva ai suoi dischi
quanto io fossi bellissima.
Tutto è finito quando ho
cominciato a spaccare gli orologi della sua stanza. Io vedevo il tempo passare,
lo sentivo ferirmi e mangiarmi e lui non poteva saperlo. Non mi hai mai vista,
gli gridai senza parlare. Non puoi sapere come il tempo mi ha ridotta.
Frantumai in silenzio anche il
mio rancore e aspettai che lui, chiuso nell’altra stanza, spaventato dal suono
dei vetri e dalle urla della mia follia, smettesse di piangere.
Il grammofono suonava senza
sosta in quel luogo maledetto e incantato.
Non aver paura, mi ripeteva lui
ogni sera, carezzandomi i capelli. Spacca tutti i vetri che vuoi.
Se li spacco poi mi faccio male,
rispondevo io ogni sera, lasciandomi carezzare i capelli. E poi guardo quei
pezzi scintillanti tra le mani e le chiudo a pugno senza…
Mi baciava piangendo e lasciava
che dai suoi occhi scoloriti colassero nella mia bocca aperta tutte le lacrime
che non riuscivo più a piangere.
Quando siamo morti me lo
ricordo ancora. Visto che non ti fa paura il dolore, mi scrisse, ti lascio un
pugnale argenteo chiuso in una busta di plastica. La busta si trova nel baule
con gli intarsi dorati, dietro le pile di dischi di Čajkovskij e dei libri di
teoria musicale.
Gli sussurrai, prima di calare
il pugnale sul suo petto scintillante, che credevo fosse cieco.
Mi sorrise solo un’ultima volta
prima di baciarmi ancora e lasciare che lo ferissi mortalmente.
Giurami, mormorò, che sono stato
l’ultimo vetro che hai deciso di frantumare. Passami il pugnale.
Lo giuro.
E poi mi uccise.
Ogni tanto ascoltiamo
ancora qualche buon disco sorseggiando tè caldo, a volte mi suona ancora le sue
belle composizioni, altre volte sediamo ancora l’uno accanto all’altra
contemplando la pioggia e la polvere, altre volte lo cullo ancora tra le mie
braccia in notti senza senso, aspettando che esca dai suoi incubi, dalle sue
paure sottili e dai suoi dolori insondabili per tornare ad amarmi.
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