PREFAZIONE
Probabilmente non ci crederete, penserete che sia una storia assurda
completamente campata per aria. Un fantasy o una semplice fantasia dell'autrice.
Penso che possiate vederla un po' come volete: è una storia con più
sfaccettature, può essere guardata da più angolazioni.
Come la favola che ha una morale alla fine, come una serie di memorie di un
tempo passato...
Insomma, avete davvero la scelta che volete.
Il mio compito, insomma, è solo raccontarvi una storia che mi è stata
raccontata. Come una volta facevano i bardi e i cantastorie, eccomi qui a
parlare e parlare per far giungere alle vostre orecchie qualcosa che viene da
un'altra epoca.
Sta a voi, ora, pensare se credere alle mie parole o lasciare che tutto vi
scivoli addosso, come se niente fosse successo. Il mio unico desiderio era solo
che questa piccola voce fosse sentita da più persone possibili, nel modo
migliore possibile.
Le nostre conversazioni sono qualcosa che mi ha segnato profondamente,
intimamente, qualcosa che mi ha lasciato un vago senso di nostalgia addosso,
come se tutto ciò dovesse finire al più presto.
Voglio solo che qualcuno la ricordi, proprio come farò sempre io.
La curatrice
Locatelli Laura
Sapete, quando ho scoperto che qualcuno poteva sentire la mia voce, la prima
cosa che ho pensato è stato “Deve sentirsi come me, se riesce a sentirmi”. Non
ho minimamente preso in considerazione la stranezza della cosa, e vi assicuro
che lo era.. Insomma,
succedeva per la prima volta da... quanto? Seicento anni?
Forse sono riduttiva, sapete, dopo un po' gli anni cominciano a confondersi,
anche se quello che è successo è chiaro nella mia memoria come se fosse successo
ieri. Se non sbaglio la prima persona che riuscì a sentire la mia voce, o quella
che lui immaginava essere la mia voce, fu mio padre (1).
Era una persona straordinaria, Antonio, e non smetterò mai di
rimpiangere il giorno in cui decise di abbandonare il progetto. Il suo libro
esprimeva tutto quello che pensava, tutto quello che provava: il suo
amore per l'arte, per l'architettura, era sopra ogni cosa. Sforzinda (2) era il
sogno di tutta una vita, ciò che avrebbe illuminato i suoi occhi come poche cose
al mondo sapevano fare. Quando fui costruita Antonio soleva aggirarsi sempre tra
i vari cortili pensando, rimuginando attentamente su tutto ciò che poteva minare
la sua Arte: le proporzioni, il "vuoto" e il "pieno" dovevano essere. La sua
architettura guardava al futuro, era geniale e bellissima. Era libera. Era
qualcosa che trascendeva il "nuovo" e l'"antico".
Lui, che camminava senza neanche guardare dove metteva i piedi,
immerso nei suoi pensieri e nei suoi disegni, il codino di capelli bruni
frustato dal vento, il profilo dritto del naso stagliarsi come un'incisione
sulla pietra sullo sfondo azzurro del cielo.
Il suo ospedale sarebbe stato bellissimo, moderno e artistico,
proprio come la sua arte.
E intanto io stavo lì e aspettavo.
Anche se Antonio aveva abbandonato i lavori, lasciandoli in mano
a uomini altrettanto capaci, io mi guardavo intorno cogliendo tutti i
particolari che riuscivo a cogliere. Era qualcosa di meraviglioso vedere così
tanta gente impegnata in un disegno che io avevo visto nascere sotto i miei
occhi, sui fogli vagamente ingialliti di Antonio.
Se avessi potuto piangere, all'epoca lo avrei fatto.
Ci vollero quasi trecentocinquant'anni perché finalmente
l'ospedale fosse finito.
Il mio piccolo regno, il cortile della ghiacciaia, era un
minuscolo mondo a se stante.
Qui, esattamente come in qualunque altro angolo dell'ospedale,
si consumavano piccoli drammi. Ricordo benissimo che una donna, una notte
d'estate, riuscì a intrufolarsi nel cortile senza farsi vedere da nessuno, e
depose un fagottino di stracci e coperte sotto l'albero in un angolo del
chiostro.
La donna si fermò e rimase a fissarlo, scossa dai singhiozzi. Fu
qualcosa di terribile rimanere lì a vedere consumarsi una tragedia del genere e
non poter fare niente. Dagli abiti si intuiva benissimo che doveva essere della
casta povera, forse una prostituta che non poteva prendersi cura del bambino. Lo
sapeva e per questo aveva cercato un posto dove qualcuno avrebbe potuto
prendersi cura di lui, spezzandosi il cuore per non vederlo morire.
Sarò anche fatta di pietra, ma possiedo un cuore.
Vedere quell'anima in pena piangere in silenzio tutte le sue
lacrime in ginocchio davanti al suo bambino sembrò offuscare la luna per un
attimo, un attimo solo in cui qualcuno, dio, forse, permetteva a quella donna di
stillare tutto il suo dolore senza che nessuno la giudicasse.
Rimase lì, inginocchiata come in preghiera, per un tempo che
sembrò infinito, dilatato nel buio della notte stellata. Poi un gufo, un fruscio
di foglie, e la donna era sparita.
Con occhio vigile e rattristato cominciai a tener d'occhio il
piccolo fagottino, temendo una sua fine prematura. Mi sentivo inutile. Per la
prima volta in quattrocento anni sentivo che la bellezza del luogo non bastava a
placare il mio animo, che la serenità che permeava ogni ramo e ogni volta non
riusciva in alcun modo a lenire il dolore che provavo in quell'istante.
Fortunatamente un'infermiera passò dal loggiato per il turno di
notte e in quel momento il neonato, forse trascinato da qualcosa di più
dell'istinto di sopravvivenza, cominciò a piangere come un disperato. La pia
donna, una signora abbastanza in là con gli anni ma ancora vigorosa come una
leonessa, si precipitò nel cortile, salvando la piccola creatura.
Quel bambino fu la seconda persona che udì la mia voce, ma ne
parlerò più avanti.
Ogni giorno che passava imparavo qualcosa di nuovo, e non solo
in ambito medico. Avevo imparato, a mie somme spese, direi, che l'animo umano è
spesso incomprensibile, pur essendo io una signora.
Un aneddoto che amo sempre ricordarmi è quello della tresca tra
una giovane infermiera e il primario dell'ospedale, ovviamente sposato. Si
davano sempre appuntamento davanti alla pigna di pietra che stava in cortile...
digredendo di un passo, è da anni che mi chiedo di chi fu l'idea di mettere
quell'obbrobrio in granito nel mio cortile.
è brutto come poche cose al mondo
io abbia visto, e vi assicuro che di cose brutte ne ho viste. Comunque, i due si
incontravano sempre in quel punto e sembravano amarsi davvero. Lui, un famoso
medico, aveva dovuto sposarsi con una donna degna della sua posizione sociale,
niente al confronto di una misera infermiera di basso ceto.
Purtroppo non si sono mai arresi... e la ragazza è quella che ci
soffrì di più, Campanile mi disse, poco tempo dopo l'ultimo incontro, che si era
buttata nei Navigli rosa dai sensi di colpa e dall'amore non corrisposto. Dopo
quel fattaccio ho visto il medico fermarsi spesso di fronte a quella brutta
pigna, carezzandone la superficie fredda e dicendo a ogni sospiro "mi dispiace".
Se si fosse imposto solo un po' di più forse avrebbe risparmiato
una vita. Anzi no, ora che ci penso ben due, la moglie lo spinse poi giù dalle
scale in uno scatto di rabbia e non posso dire che all'epoca ne fui addolorata.
Purtroppo il suo comportamento vigliacco mi segno profondamente. Tecnicamente
ero solo una spettatrice ma quando certe cose ti succedono sotto gli occhi,
letteralmente, non si può proprio fare a meno di schierarsi da una parte o
dall'altra.
Avevo accennato al bambino, vero?
La vecchia infermiera lo ribattezzò proprio quel giorno
Francesco, in onore di colui che aveva commissionato l'ospedale ad Antonio, il
grande Francesco Sforza, duca di Milano. Francesco si dimostrò fin da subito un
bambino intelligente: imparò a leggere e a far di conto a quattro anni e, più
gli anni passavano, più si dimostrava entusiasta di imparare qualsiasi cosa.
Rosa, l'infermiera, cominciò a portarlo con se all'interno dell'ospedale,
spiegandogli il funzionamento dell'ospedale. Divenne l'idolo di ogni infermiera,
i medici lo guardavano un po' sospetti ma nessuno aveva il coraggio di
allontanare un bimbo di otto anni tanto cortese e tanto attento a ogni minimo
dettaglio; alla fine a tutti nasceva un sorriso spontaneo quando compariva
Francesco in fondo al corridoio di una corsia. Era volenteroso e infaticabile;
ogni giorno correva da un padiglione all'altro solo per seguire questo o quel
dottore, o fare questa o quella domanda.
Francesco mi parlò per la prima volta quando aveva tredici anni.
Tutto il personale dell'ospedale era così affascinato da un
ragazzino come lui che decisero, un po' tutti di comune accordo, di pagargli gli
studi. In quel modo avrebbe potuto diventare quello che sognava: un medico vero
e proprio. E così ogni giorno si ritirava in un cortile, quale dipendeva
dall'umore, per studiare un sacco di libri diversi: letteratura, matematica,
scienze, anatomia. Lui divorava tutto, aveva fatto della conoscenza il suo
grande obiettivo e il suo unico hobby. Il giorno che decise che il chiostro
della ghiacciaia sarebbe stato perfetto, ne rimase affascinato.
Anche lui poteva sentire le note che il vento suonava tra i rami
dell'albero, il sole che filtrava pigramente tra le colonnine del loggiato,
l'erba che rimaneva sempre verde grazie al luogo riparato, il lieve spiffero
gelido che ogni tanto filtrava dai mattoni della ghiacciaia. Fu per questo che
sentì anche la mia voce. Francesco era attento e silenzioso e, quando percepì un
sussurro indistinto tra i suoni delicati dell'aria, alzò lo sguardo con un
sorriso gentile.
-Mi stavo chiedendo quanto tempo avrebbe messo per palesare la
sua presenza. Spero che il mio essere in questo posto non la disturbi, signora.-
All'inizio ne rimase talmente sconvolta (ero così intenta a
fissare i libri che stava leggendo) che non emisi più un singolo fiato, zittendo
persino quell'albero rachitico che non faceva altro che darmi della vecchia
comare. Quando la sorpresa sbiadì lasciando il posto a una gioia incontenibile,
cominciammo a parlare.
Mi raccontò della scuola, dei libri, di tutte le straordinarie
materie che doveva studiare... Francesco era un bambino che sapeva affascinare
le persone con la passione che metteva in quello che faceva. Anche se era così
giovane, mostrava una dedizione in quello che faceva che a volte nemmeno un
adulto riusciva a dimostrare.
Fu così che lo vidi crescere, lo vidi diventare prima uomo e poi
dottore. Lo vidi diventare primario del suo reparto e successivamente marito e
padre.
E ogni volta Francesco ancora veniva a trovarmi e a raccontarmi
le sue bellissime avventure. Dalla donna che aveva salvato all'aquilone che
aveva costruito per suo figlio.
Continuò a venire anche quando fu troppo vecchio per poter
continuare a lavorare, anche quando ebbe un bellissimo nipotino dai capelli del
sole a mezzodì e gli occhi del cielo all'alba. Quando Francesco morì, in una
delle stanze del loggiato che si affacciavano al cortile della ghiacciaia come
da lui richiesto, provai un dolore immenso. Fu come un terremoto, come se
sentissi le crepe allargarsi sul fusto e allungarsi, allungarsi, fino a
raggiungere la base dove poggiavo, per farmi cadere, farmi frantumare come quel
misero pezzo di pietra che ero.
Esattamente come quando sua madre lo abbandonò, così mi sentii
di nuovo persa e piena di un dolore che non avrei voluto provare.
Per mesi dopo la morte di Francesco il cortile rimase vuoto,
silenzioso, come anche la mia voce, che non ne voleva sapere di farsi sentire.
In quel momento pensavo che non avesse utilità far sentire la
mia voce quando la vita delle persone è così fragile, in confronto alla mia. Mi
sentivo devastare dal pensiero che, per quanti sforzi io avrei mai potuto fare,
per quanto avrei mai potuto prendere in simpatia qualcuno, quello sarebbe morto,
mentre io sarei rimasta lì, imperitura, levigata dal vento e dall'acqua ma mai
abbattuta.
Sentivo la vita, oltre il mio chiostro, nel cortile principale:
persone che camminavano, ruote dei carretti che cigolavano, un cicaleccio di
persone continuo e fastidioso. Ero invidiosa della loro vita, ero invidiosa
della loro morte, mi sentivo impietrita di fronte al fatto che io, in quanto
cosa non animata, non avrei mai potuto morire.
Ci vollero altri duecento anni prima che questo pensiero
abbandonasse la mia mente.
Nel 1943 l'Ospedale Maggiore fu quasi completamente distrutto
dai bombardamenti.
Ricordo poco e male quei giorni di paura in cui morirono un
sacco di persone innocenti. Di fronte alla spietata brutalità della guerra
inorridii al pensiero di aver davvero desiderato di essere come loro. Passai un
periodo in cui odiai le persone, la cattiveria insita in ogni loro parola, la
menzogna nascosta anche dietro il più piccolo dei sorrisi. Malgrado i miei quasi
cinquecento anni, cominciai a fare i dispetti come una colonna appena costruita:
mattoni che cadevano, intonaco che si sbriciolava, pezzi di volta che si
staccavano dal loro posto per cadere a pochi centimetri dalla testa di qualche
operaio.
Per questo motivo, insomma, per la mia cieca stupidità, il
chiostro fu chiuso perché pericolante.
Rimasi sola, immersa nei miei pensieri, per altri due anni. In
quel lasso di tempo ero venuta a patti con il mio brutto carattere e mi ero
ripromessa di comportarmi come si confaceva a una colonna della mia levatura.
Nel giro di cinque anni dalla mia rimessa in libertà, l'Ospedale
fu completamente ristrutturato da abili mani che non smetterò mai di
ringraziare.
Purtroppo per me, quello che venne ricostruito non fu affatto
l'ospedale. Lo scoprii solo più avanti ma subito dopo i bombardamenti l'edificio
venne ceduto all'Università degli Studi di Milano. Non ero particolarmente
esaltata, affatto, a essere pignoli, ma avere nuova gente intorno mi avrebbe
sanato lo spirito. Lo sentivo.
Liliana (3) fu certamente la persona che mi ispirò più simpatia,
in quel marasma della ristrutturazione. Non riuscì mai a sentire la mia voce,
sempre così impegnata con il suo "rigore scientifico" per ridare all'edificio
tutta la grandiosità di una volta. Fece un lavoro impareggiabile, ma fu così
fredda nel suo essere precisa, che non mi sentii mai di farle udire i miei
sussurri; senza contare che era così impegnata che non sembrava in grado di
sentirlo.
Quando finalmente le lezioni cominciarono, la gioia fu tale che
dimenticai per parecchio tempo come farmi sentire.
I tempi erano cambiati, era tutto così diverso da quando c'erano
i dottori. Ora camminavano tra i loggiati ragazzi giovani, poco più che ventenni
che, come Francesco, non volevano altro che imparare. Scordai per tantissimo
tempo come sussurrare al vento.
Passarono altri sessant'anni circa, l'avvento del nuovo
millennio e così via...
E io ero ancora in piedi, non parlavo con nessuno dalla morte di
Francesco e mi sentivo sempre più triste all'idea che c'erano così tante cose
che potevo raccontare e nessuno che voleva ascoltarmi...
Finché non incontrai lei.
Mi ricordava tantissimo Francesco anche se, decisamente, non
aveva il suo carattere gentile. Eppure guardarla ogni giorno pigiare
furiosamente i tasti di quel computer (la tecnologia era avanzata in maniera
così mostruosa da farmi paura) mi aveva ipnotizzato. Era così tanto tempo che
non vedevo qualcuno scrivere con così tanta dedizione e passione per piacere
che ne rimasi subito affascinata.
E decisi che valeva la pena tentare.
Mi ci vollero ben sedici tentativi (anche io, con gli anni,
avevo imparato a non arrendermi mai) per riuscire a farle staccare gli occhi
dallo schermo, levare lo sguardo verso l'alto e chiudere gli occhi. Quando vidi
il sorriso che le increspò le labbra dopo avermi sentito, mi sentii rincuorata.
Se poteva udire la mia voce significava che anche lei sentiva le note nell'aria,
sentiva quel profumo di conoscenza e libertà che aleggiava in quel piccolo
chiostro.
Cominciammo a passare le giornate così, io e lei. Io a parlare,
lei ad ascoltare. Le raccontavo la mia vita, le mie avventure, tutti gli
aneddoti che mi vennero in mente. Le parli di Antonio, di Rosa e di Francesco,
le raccontai dei due innamorati e feci lodi sperticate al lavoro di Liliana. Fu
qualcosa che mi risanò dentro, come se il poter finalmente parlare con qualcuno
lenisse la mia solitudine.
Non seppi mai, finché ovviamente non me lo disse a opera finita,
cosa stesse scrivendo a quel computer. Ne prima, ne dopo. Non me lo fece nemmeno
sospettare e anche oggi non riesco a fare altro che ridacchiare.
Però dopotutto non riesco ad essere arrabbiata, le ho detto
spesso di come mi sentissi sola, di come il non poter ricordare quello che mi
era successo in così tanti anni mi facesse pensare che, forse, non aveva senso
per me restare su. Dopotutto ormai ero solo una mezza colonna, dopo il
bombardamento e il restauro sono riusciti a ricostruirmi solo a metà, quindi
cosa poteva fare una come me.
Alla fine sono contenta di questo libro di memorie, sentire lei
che lo leggeva mi ha reso così felice che credo di aver addirittura riflesso la
luce del sole!
Magari qualcuno ora si fermerà un secondo, con gli occhi chiusi
e le orecchie tese, a sentire il mio sussurro.
Magari qualcuno ora si fermerà un secondo, con gli occhi chiusi
e le orecchie tese, ad ascoltare le mie storie.
NOTE DELLA CURATRICE:
(1) Ovviamente si riferisce ad Antonio Averlino, detto il
Filarete. Il progetto dell'Ospedale Maggiore fu affidato a lui da Francesco
Sforza, duca di Milano. Egli illustrò il suo progetto nel Trattato di
Architettura che stava scrivendo. Il Filarete lasciò il lavoro nel 1465.
(2) Nel suo Trattato il Filarete descrisse questa città ideale
costruita secondo il suo modello di architettura. Questa città fu chiamata
Sforzinda in cui era adombrata la Milano Sforzesca.
(3) Si riferisce a Liliana Grassi. A lei si deve buona parte del
restauro dell'edificio soprattutto della "crociera" quattrocentesca, condotto
con il rigore scientifico che le derivava dalla profonda ed estesa conoscenza
dell'architettura del Quattrocento lombardo nei suoi aspetti tecnici e formali,
e in pari tempo con la sensibilità ai valori spaziali ed estetici, restituiti al
pubblico in una forma che conserva intatta l'atmosfera di austerità e di
emozione per cui quei luoghi erano stati creati.
POSTFAZIONE:
Scrivere questa storia è stato elaborato.
Ho dovuto adeguare il linguaggio e renderlo più semplice, meno
altisonante di quanto, altrimenti, sarebbe stato. Lei è vissuta in un ambiente
ospedaliero prima e in uno universitario poi, guadagnando, a tutti gli effetti,
il titolo di iperletterata. Ha grandissime conoscenze in ogni campo e ho dovuto
adattare le sue parole a una parlata più discorsiva, meno difficile da
comprendere.
Mi sono sentita profondamente inadeguata a scrivere le sue
memorie, ogni volta che una macchia d'inchiostro vergava questo foglio sembrava
quasi non riuscisse in alcun modo a rendere quello che lei stava cercando di
dire. La sua solitudine, il suo dolore, non sono niente, sulla carta.
Eppure ho voluto imbarcarmi in un'opera del genere per aiutarla
a diffondere la sua voce, per renderla meno sola negli anni a venire.
Io morirò, prima o poi. Non potrò starle accanto per tutta la
vita, non potrò farmi raccontare tutte le storie che sicuramente ha da
raccontare, e ne avrà anche negli anni a venire.
Con questa storia voglio solo dire una cosa: io non potrò farmi
narrare tutto... ma VOI sì. Voi che state leggendo questo libro, voi che siete
in università a studiare... anche se fossero passati dieci anni dalla
pubblicazione, voi lo sapreste. Sapreste che lei è lì, che vi aspetta,
pronta a dischiudere davanti ai vostri occhi le meraviglie che lei ha vissuto.
Non fatela aspettare troppo.
La curatrice
Locatelli Laura
Sappiate tutti che in questo
momento sono la persona più contenta del mondo. Quando ho due secondi GIURO che
uppo due o tre immagini per farvi capire di cosa sto parlando, ho passato un
INTERO pomeriggio a fare foto e scartabellare tra vecchi libri per scoprire che
quello che mi serviva si trovava sul sito dell'università, quindi cercate di
capirmi xD
Sono morta xD
Ah sì, mi pare palese... molto
palese... che io ami la meta-letteratura. La idolatro. Quindi non cercate di
capire se è tutto vero o no xD Anche se, a essere pignoli, l'unico nome
inventato è quello di Francesco. Liliana Grassi è stata DAVVERO la restauratrice
e, palesemente, il Filarete è esistito veramente. Di base è tutto vero, alcuni
dettagli li ho inventati di sana pianta, come la chiusura per due anni del
chiostro della ghiacciaia. Mettetela così: se è vero non sta scritto da nessuna
parte.
Ah già, scritta per la Challenge
di FdP, amateli, a prescindere, anche se la fic non vi piace xD
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