Alice riemerse strisciando dalla buca, puntellandosi coi
gomiti e con le ginocchia per uscire. Quando infine si ritrovò seduta, in uno
sbuffo di chiffon azzurro, sul prato – la luce radente del tardo pomeriggio
smorta e strana ai suoi occhi, dopo quella fiabesca, policroma del mondo
sotterraneo – prese un gran respiro e, sdraiandosi sull’erba verde-argento, il
mento poggiato sul palmo delle mani, rifletté su quello che era tornata a fare.
Dopo tutte le cose straordinarie – e pericolose, e folli, e
insensate - che le erano capitate negli ultimi giorni, beh, di certo non poteva
proprio pensare di sposare Hamish... e di trascorrere la sua vita
preparando insipidi brodi di pollo per il suo stomaco delicato.
Alice aggrottò la fronte.
Sembravano passati secoli da quando Lady Ascot le aveva
detto, in tono distaccato, che suo figlio aveva una “digestione delicata”, e
che un piatto sbagliato avrebbe potuto provocargli un “blocco”. Alice non aveva
potuto evitare di immaginare un paonazzo Hamish – con la sua pelle da albino
chiazzata di rosso e gli occhi sporgenti – che, sbuffando e grugnendo come un
porcello, tentava di liberarsi le viscere da un incauto cupcake alla crema.
Alice abbozzò un mezzo sorriso.
Povero, insignificante, banale Hamish Ascot, col suo mento
sfuggente e la fronte troppo alta: povero, slavato, noioso Hamish, che non
comprendeva l’originalità perchè non ne possedeva, che disprezzava ogni stravaganza; povero Hamish,
per il quale ogni tipo di fantasia risultava così estraneo alla sua visione del
mondo, da non riuscire proprio a capirlo.
Alice poteva quasi vederlo, mentre affondava nella banalità
fino alla punta dei capelli rossicci, e mentre invecchiava, seduto - giorno
dopo giorno, imbronciato - su una poltrona accanto al fuoco.
Povero, insipido Hamish, con quei capelli pel-di-carota
lisciati all’indietro e la voce impostata, coi denti da coniglio e
l’espressione ottusa; povero Hamish che non aveva mai avuto un’illusione, mai
un sogno che fosse fuori dall’ordinario: non c’era proprio speranza che potesse
piacerle... né quel giorno, né fra un anno, né mai.
Per un attimo, al ricordo del rosso, slavato Hamish se ne
sovrappose un altro, nel quale un’analoga zazzera color aragosta tremolava
appena – arida, arruffata - contro il viso di Alice, mentre un Cappellaio
ancora più matto del solito le sussurrava all’orecchio uno dei suoi bislacchi
saluti... Un saluto che suonava più o meno come buon viaggio a vederci.
Alice, distesa sul prato verde smeraldo, l’abito azzurro
allargato (come la coda di un pavone) attorno alle sue gambe ripiegate,
ridacchiò piano, scuotendo la testa. Gli spettinati capelli biondo-cenere le
ricaddero sugli occhi.
Buon viaggio a vedersi... che pazzo, folle,
meraviglioso modo di dirsi addio. Alice rialzò di scatto la testa. Addio?
Il suo cuore si contrasse in un improvviso spasmo di
sofferenza: perchè mai, in nome del cielo, aveva lasciato quel pazzo, folle,
meraviglioso mondo... e quel pazzo, folle, meraviglioso spaventapasseri
dinoccolato dai pallidi occhi verdi – occhi da gatto, occhi da pazzo: gli occhi
più strani che avesse mai visto - per tornare alle lezioni di francese, ai
corsetti, alle stupide quadriglie?
Perchè non era rimasta con quel buffo spilungone col
cappello, con quella bizzarra camicia abbottonata fino al mento e l’enorme,
chiassosa cravatta a farfalla al collo...?
Oh, se c’era una cosa che Alice desiderava, in quel momento,
era sapere che differenza c’era fra un corvo e una scrivania, e voleva che a
dirglielo fosse un timido, strabico, squinternato Cappellaio matto.
Oh, perché non poteva essere come Hamish, il fortunato
Hamish che non aveva mai dubbi, che avanzava sereno nel suo mondo privo di
dilemmi, che schiacciava ogni incertezza passandoci sopra col tiro a quattro
della sua stolida, granitica sicurezza!
Girò lo sguardo verso l’imponente villa bianca degli Ascot,
dove la gente era ancora assiepata nel giardino – gli abiti bianchi delle
signore che si gonfiavano nella brezza – e guardò verso il gazebo sotto il
quale, con sguardo attonito, Hamish (Alice poteva sentire la sua vocetta
cerimoniosa e querula persino da quella distanza) stava balbettando qualcosa a
sua madre, in tono offeso.
Che cosa aveva mai, quel mondo smorto e prevedibile, da
offrirle? Come potevano quella luce spenta, quella gente banale – le stupide gemelle
Chattaway, il fatuo, sleale Lowell, l’irritante Lady Ascot - competere coi
fiori parlanti e le regine, i conigli col panciotto, gli animali da fiaba?
Alice tirò un pugno stizzito, impotente all’erba, e strinse gli occhi per non
piangere come una bambina.
“Quello che voglio...” sussurrò, in modo incoerente,
mordendosi le labbra “Quello che voglio, solo questo, voglio...”
Alice rimase per qualche attimo rannicchiata strappando
l’erba coi pugni, a lamentarsi in modo sconnesso, irragionevole, senza nemmeno
sapere con certezza di cosa stesse parlando, conscia solo dell’infantile
irritazione verso se stessa, dell’acuta sofferenza che provava. Quando infine
si rese conto di quanto fosse sciocco e inutile il suo comportamento, su alzò
in piedi e si ricompose come poteva i capelli e il vestito. Prese un paio di
profondi respiri e si preparò a tornare verso il giardino degli Ascot, dove gli
ospiti di Lady Ascot si stavano certamente chiedendo – ignari della sua
avventura – dove diavolo fosse finita.
Raccolse le idee. Non avrebbe dedicato più di un paio di
parole all’inutile Hamish: spiegare a lui quel che sentiva sarebbe stata
un’assoluta perdita di tempo; ma aveva il dovere di rassicurare sua madre, e di
mettere bene in guardia l’infedele Lowell; poi si sarebbe presa il piacere di
rimettere al loro posto quelle stupide Chattaway e – ora lo sapeva – doveva
discutere al più presto di affari con Lord Ascot.
Non aveva ascoltato suo padre? Bene, avrebbe ascoltato lei.
Si alzò di scatto e raccolse la gonna con le mani. Per un
attimo rimpianse di non avere indossato le calze... Avrebbe dovuto smetterla
con quei capricci infantili: forse valeva la pena di infilare un corsetto o un
paio di calzini, se con questo poteva evitare di portare sua madre perennemente
all’esasperazione. Quante cose le sembravano sciocche, ora!
Gli stupidi battibecchi con sua madre le sembravano, adesso,
così insignificanti e puerili... Perchè mai aveva sprecato tutto quel tempo
facendo infuriare una donna che voleva solo il suo bene, quando nel mondo
sotterraneo aveva dovuto lusingare la Regina Rossa, che voleva ucciderla?
Alice pensò che avrebbe potuto andarle peggio: aveva avuto
un padre visionario e affettuoso; e sua madre, anche se non altrettanto
anticonformista, cercava almeno di essere indulgente con le sue stravaganze...
Chissà che avrebbe detto, Lady Ascot, se fosse stata sua figlia ad
uscire di casa senza bustino!
Le sarebbe venuto un “blocco”, come minimo.
Un attimo prima di spiccare la corsa verso gli invitati di
quella che – buffo, ora che ci pensava! – avrebbe dovuto essere la sua festa,
venne colta da un pensiero improvviso.
Tornò a passi svelti verso la tana di coniglio che l’aveva
condotta ad Underland (Wonderland?, pensò Alice), si inginocchiò per un
attimo e guardò in giù. Non vide altro che terra, foglie marce e buio, ma
sapeva che, là sotto, c’era molto, molto di più di quel che si poteva vedere.
“Tornerò”, sussurrò, impulsivamente. “Bayard, Coniglio...
tornerò... oh, tornerò presto!” Si morse un labbro, poi aggiunse, in tono
diverso. “E tu, mio caro amico, sappi che tornerò, prima che tu te ne accorga.
E di certo non mi dimenticherò di te... pazzo di un Cappellaio!”