“So many things I
would take back
You were the best I ever had
I don't blame you for hating me
I didn't mean to make you leave.
You and I were living like a
love song
I feel so bad, I feel so bad
that you're gone
Now I know you're the only one
that I want
I want you back, I want
you”
State of Shock
La mattina seguente, Carter ebbe
qualche problema ad alzarsi
dal letto. Fino a notte fonda era rimasto sveglio, seduto sul divano a
gambe
incrociate e con le mani sulle ginocchia. Aveva guardato un punto ben
preciso
nel muro, e l’aveva trasformato in uno schermo dove
proiettare i suoi pensieri
per poterli guardare come al cinema. Lo faceva spesso fin da quando era
un
bambino, fin dalla morte di suo fratello. Così poteva
pensare a lui tanto
intensamente che gli pareva di vederlo lì, sul muro davanti
a lui, che gli
sorrideva un’ultima volta. Allo stesso modo quella notte
Carter vide Abby.
Proprio lei, che con gli occhi lucidi gli urlava addosso tutto quello
che lui era
significato, tutto quanto lui non aveva mai voluto ascoltare. Era
fuggito da
quelle verità, e si era rifiutato di guardare negli occhi il
fatto che il bene
più prezioso l’aveva perso andando in Africa. Che
fosse amore, che fosse
amicizia, aveva perso il bene più grande della sua
complicità e della sua
comprensione. Gli ci erano voluti anni per desiderarlo, anni per
ottenerlo e
solo poche ore per buttarlo via. E lei glie l’aveva detto
così, in faccia,
quando erano ormai due estranei; e sembrava che fosse stato facile per
lei
urlare quelle cose, come se l’avesse sgridato
perché aveva scordato di comprare
lo zucchero al supermercato. Ma John sapeva quanto in realtà
le ci fossero
voluti anni per elaborare tutto quanto, forse neanche lei se ne rendeva
veramente conto: pensò che probabilmente anche lei era
rimasta sveglia tutta la
notte domandandosi da dove fossero venute tutte le cose che aveva
detto, quando
era riuscita a metterle in ordine e a dar loro un senso. Sicuramente si
era
chiesta se le pensava davvero, o se in realtà tutto era
stato dettato da un
momento di follia, di scardinamento dell’ordinario. E poi
c’era ancora quel
piccolo pensiero che si intrufolava nella mente di entrambi…
Era per lui che
lei era tornata?
Alla fine Carter riuscì a
tirarsi su dal letto e a vestirsi.
Mentre si radeva si guardò allo specchio: era pallido e due
profonde occhiaie
gli solcavano il volto. Si sentiva incredibilmente vecchio e stanco, e
forse
non era più capace di gestire queste situazioni
così piene di sentimenti, di
emozioni affievolite e riesplose e di parole taciute
e all’improvviso cacciate fuori di getto.
Così, come se per tutto quel tempo fossero rimaste
agganciate alla gola con un
filo sottilissimo, che era bastato uno sguardo perché si
spezzasse. Si sentiva
appiattito, devastato dalla malinconia e dai rimpianti, e forse tutto
quello
che desiderava era mettersi a letto e dormire per il resto della vita,
senza
dover più rispondere di nulla. Eppure, anche se quella
sensazione se la sentiva
incrostata addosso come uno sporco permanente sulla pelle, quella
mattina gli
sembrava che ci fosse qualcosa di diverso. Era come una pulce
nell’orecchio,
qualcosa che lo teneva sulle spine, come una certa
curiosità; pensò che era da
tanto che non provava più curiosità per qualcosa:
non aveva più niente da cui
aspettarsi alcunché. Si accorse che stava facendo tutto
insolitamente in
fretta, come se volesse arrivare al Policlinico il prima possibile per
incontrarla… Pensò che era uno stupido. In fondo
perché lei avrebbe dovuto
essere lì? Non ci lavorava. Ma lui ci lavorava. Avrebbe
dovuto venire lì
soltanto per lui? John non osò rispondersi a questa domanda.
Per un attimo
pensò che sarebbe stata la cosa più bella del
mondo, ma poi si disse che non
doveva né aveva alcun diritto di sperarlo: era legato a Kem,
e lei era legata a
Luka. E lei aveva Joe a cui badare: non poteva sempre lasciarlo a
qualche
vecchia baby sitter, o al nido dell’ospedale, dove qualche
vecchia conoscenza
era disposta a farle il favore di tenerlo per qualche ora.
Sì, sì,
assolutamente: doveva pensare a Joe, non a lui.
E allora perché lui stava
pensando a lei?
Quando arrivò al
Policlinico, John era come in un altro
pianeta. Entrò nel salottino trattenendo il respiro, come
aspettandosi di
vederla lì appena entrato, ma lei non c’era.
Rimase quasi deluso, ma poi si
riscosse con rabbia da quel sentimento: non doveva pensare a lei. Non
le doveva
niente, era acqua passata. Acqua che aveva già abbastanza
inquinato di
infelicità il suo passato. Ma poi rise, rise di
sé: lo pensava sul serio?
Riusciva ancora a vedere Abby solo come una fonte di pessimismo, di
disgrazia?
E anche se fino a un paio di giorni prima non l’avrebbe mai
creduto in quel
momento ci sperava, se non altro per il bene di entrambi.
Carter stava correndo sulla sabbia,
tenendo tra le braccia
una ragazzina. Era sudato e sporco di terra, esausto, ma correva.
Guardava la
ragazzina, semisvenuta e agonizzante, con un piede quasi staccato dal
resto del
corpo. Un’altra mina, un altro innocente, come ogni giorno.
Stava entrando di
corsa dentro l’ospedale da campo, altri medici e gli
infermieri gli corsero
incontro. Dietro di lui una donna urlava e piangeva in modo straziante,
come solo
una madre può fare, come se con quell’urlo avesse
potuto trattenere a sé la
vita di sua figlia. Tutti gli altri rumori erano spariti, Carter faceva
meccanicamente, disperato, ciò che sapeva di dover fare.
Ciò che faceva ogni
volta. Flebo, antibiotici, i pochissimi antidolorifici che erano
rimasti nelle
scorte. Poi vedeva il chirurgo arrivare di corsa, e nel giro di quelli
che
sembravano soltanto pochi minuti il piede era stato del tutto amputato.
Carter era
lì, impietrito, ricoperto di sangue, abituato ormai anche al
ripetitivo,
straziante urlo della madre. Ma vivo, perché era viva quella
bambina, un’altra
bambina ancora in questo mondo grazie a lui. Un’altra che non
era Joshua, ma
era pur sempre una vita in più.
“Carter!” – sentiva chiamare, ma non
aveva
intenzione di girarsi, voleva rimanere così, pieno di quel
dolore che sapeva
tanto di vita, immobile con se stesso. “CARTER! Ci
sei?”
John stavolta si riscosse. Si era
praticamente addormentato
durante la dialisi, il rumore ripetitivo della macchina che girava
spesso gli
conciliava il sonno. Ma quel giorno era crollato davvero pesantemente.
Quando riaprì
gli occhi davanti a lui c’era Abby. “Ma come
sapevi…?” – iniziò.
“Me l’hai detto
tu, Carter” – rispose lei prima ancora di
aver sentito la domanda – “e un po’ ho
parlato con Morris. Sapeva dov’eri”.
“Già…”
– Carter non trovò niente di più
intelligente da
dire, e per un po’ rimasero in silenzio. Abby era un
po’ nervosa, e si vedeva
che non era sicura di voler stare lì. Guardava
alternativamente le sue scarpe e
il pavimento. Carter la guardava, ma il suo sguardo era spento, stanco.
“Senti Carter, mi dispiace
per quello che è successo ieri. Probabilmente
sono stata presa dai ricordi, dalle vecchie storie, ma ora sono chiuse.
Io sono
innamorata di Luka, e già una volta ho rischiato di
distruggere tutto. Ho ripreso
a bere mentre Luka era in Croazia, ad assistere il padre che moriva.
Mentre lui
era lì ad occuparsi di cose importanti io ero già
convinta di essere stata
abbandonata, di essere diventata una madre single senza aiuti e
totalmente
fragile. Così ho ripreso con l’alcol, e ci sono
ricaduta in pieno. Ho trascurato
Joe, non sai quante volte mi sono svegliata coi postumi di una sbornia
sentendolo piangere e trovandolo con la faccia viola. Chissà
da quanto piangeva
così. Sono andata a letto con Kevin Moretti, e quando mi
sono svegliata nel suo
letto la mattina dopo neanche mi ricordavo come c’ero
arrivata. Provavo uno
schifo immenso per me stessa, per quell’uomo, per quello che
stavo facendo e
avevo fatto a me e alla mia famiglia. Ovunque mi volto porto guai, e
non so perché
sono tornata ora… stamattina mi ha telefonato Luka, mi ha
chiesto dov’ero, si è
arrabbiato perché ci ha messo tanto a perdonarmi e a
superare quello che è
successo e pensa che io non lo consideri importante. Non voglio
distruggere
anche te. Non sono qua per vendicarmi del dolore che mi hai causato
scomparendo
in Africa, lasciandomi con poche righe di lettera e tornando con la tua
nuova
fiamma africana, incinta per giunta. Non voglio rivangare il passato,
che è
doloroso per te quanto per me, non voglio aggiungere sensi di colpa a
quelli
che già ci sono. Non voglio fare del male a nessuno dei
due… Né a Luka, né a
Joe. Sono solo confusa. Ho un aereo per Boston già prenotato
per domani
pomeriggio, e voglio che tu dimentichi quanto è successo e
pensi soltanto a
curarti. Nient’altro.”
Carter la guardò
riprendere fiato, in silenzio, senza sapere
cosa dire. Lei aveva tanto da perdere stando lì. Lui aveva
un matrimonio
distrutto, un figlio morto, e una posizione in lista per un trapianto
di rene. E
se quel rene non fosse arrivato in fretta lui sarebbe morto, o sarebbe
dovuto
restare attaccato alla macchina per la dialisi tutta la vita.
“Se non sei qua per fare
tutto questo… Tutte queste cose che
mi hai detto… Perché sei qua?”
– chiese semplicemente alla fine, non trovando
altre parole per cercare di trattenerla.
“Devo andare ora,
Carter” – ribatté Abby duramente.
“Aspetta, Abby, ti prego.
Non posso alzarmi e rincorrerti,
non mi posso staccare da qua. Non andartene ora, ho ancora bisogno di
te.”
“No, John – Abby
si voltò bruscamente verso di lui – tu hai
bisogno di qualcuno. Qualcuno che ti stia accanto, in generale, che ti
accompagni nel tuo calvario. Ma in una lista di possibili qualcuno io
sono la
persona meno adatta e lo sai bene, no? Non sono mai felice, sono
negativa, tu
stesso me l’hai detto anni fa. Hai fatto una scelta e io ho
fatto la mia. Forse
saremo accomunati dagli stessi rimpianti, dalla stessa disperazione,
come lo
siamo sempre stati. Ma di base quelli come me e te sono soli, e due
solitudini
non fanno una compagnia, mai, in nessun caso. Forse se
l’avessimo scoperto
prima avremmo evitato di farci del male più del necessario.
Quindi ora non
volermi qua, ti prego. Non fare sentire me la persona orribile che ti
volta le
spalle nel momento del bisogno, perché non è un
ruolo che mi si addice. Buona fortuna,
Carter”.
Detto questo, Abby girò i
tacchi e se ne andò, lasciando
Carter da solo, col filtro della dialisi in vena, impotente e con gli
occhi
pieni di lacrime.
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