Luce sotterranea
Il gatto del buio
Sei parte d’una parte ch’era tutto,
del buio che la luce generò.
W. Moers
Un
sotterraneo non è mai ciò che sembra. Acquisisce autonomamente, senza
l’influsso dell’uomo, connotazioni del tutto particolari.
Un
sotterraneo è tutto fuorché una semplice cantina. In un sotterraneo sopravvive
in eterno la notte, il buio più profondo colto nella sua forma più subdola.
In
un sotterraneo, amici miei lettori, alberga l’essenza stessa della tenebra
umana.
Quella
che mi appresto ora a raccontarvi è una storia particolare, fatta di quel buio
e di quell’oscurità che animano, talvolta senza essere percepiti, il nostro
stesso animo.
Ma
è anche una storia che parla di luce, di quella luce che gli uomini stessi,
anche i più oscuri, sanno produrre.
Centinaia
di anni or sono, quando le Tempeste ancora imperversavano sulle Terre di
Wongar, nei boschi del Confine viveva un uomo, il cui nome non ci è stato
tramandato dalle leggende.
Egli
era un brigante e un assassino.
Nei
villaggi sparuti dei limiti delle Terre, il timore di ciò che quel farabutto
avrebbe potuto compiere occupava senza sosta le menti dei contadini.
Tra
razzie, scontri e tafferugli continui, la gente aveva paura di ogni cosa:
nemmeno l’Antica Magia bastava a frenare l’impeto del terrore.
Le
Tempeste erano ormai il pane quotidiano di ogni uomo e di ogni donna.
Ogni
giorno dovevano lottare contro il pericolo che inesorabile sopravanzava, ogni
secondo delle loro esistenze passato a guardarsi le spalle, forti solo di una
labile quanto imperfetta alleanza.
Poi,
però, dopo dieci anni di un clima di puro terrore, venne eletta Regina Wyn Lithuen,
maga di luce. Era una strega forte, potente, sicura di sé e determinata oltre
ogni dire.
Non
accettava consigli e non permetteva ad alcuno di imporle una volontà a lei
estranea. Ma riuscì, lei sola, a portare la pace.
Con
l’ausilio delle proprie arti la maga regina fermò le rivolte, placò il popolo,
e catturò il brigante.
Quell’uomo
senza nome, il cui cuore si era macchiato delle colpe più turpi, fu arrestato
senza colpo ferire e condannato senza appello alla pena più perfetta: la
detenzione sempiterna nelle Carceri Sotterranee.
Percosso,
distrutto, annichilito, il malvagio assassino fu gettato come un sacco nella
segreta più buia, e lì rimase, accasciato e immobile, per giorni. I giorni si
trasformarono in settimane, le settimane in
mesi, e i mesi infine, per quell’incontrovertibile proprietà che ha il
Tempo di scorrere senza mai fermarsi, divennero anni.
Decine
e decine di lunghi anni trascorsi nel buio.
Nemmeno
una lama di luce filtrava nella cella.
Era
quella la vera pena che si infliggeva a coloro che avevano compiuto i reati più
gravi: la mancanza assoluta di ogni forma di luce e, con essa, la rinuncia
definitiva al sublime senso della vista.
Nel
buio, tuttavia, gli altri sensi erano affinati, come se ogni piccola particella
dell’uomo volesse cogliere, in barba ad ogni tortura, un minuto frammento di
realtà.
Ogni
fruscio risultava amplificato, ingigantito; ogni percezione ricavata dalle
dita, gelide per il freddo, era esasperata, eccessiva.
Molti,
il brigante lo sapeva bene, finivano per impazzire in quelle celle.
La
cecità forzata, il gelo, la paura atavica del nulla apparente: tutto, in
qualche misura, contribuiva a forzare fino allo spasimo lo scrigno instabile
della mente umana, distruggendone, alla fine, il prezioso tesoro della ragione.
Fu
anche per questo, si tramanda, che egli non si stupì troppo quando, in un
momento imprecisato della sua detenzione a vita, cominciò a udire una voce.
Era
un mormorio suadente, leggero, sibillino. Si insinuava, quasi senza che fosse
possibile accorgersene, attraverso il condotto uditivo e poi scendeva giù giù
fino al timpano. Lo faceva vibrare dolcemente, come per una carezza, e poi si
insediava nel cervello, quasi quello
fosse il suo habitat naturale.
E
da lì, da lì non si allontanava mai.
Per
il brigante, quel sussurro non era altro che la voce della sua follia.
In
realtà, esso era molto, molto di più.
Quel
costante stillicidio sonoro, quell’insinuante e subdolo frusciare di parole non
dette, era, più semplicemente, la voce carezzevole del Buio Sotterraneo.
Il
tempo passò, continuando a scorrere ineluttabile. Nella cella il regolare
alternarsi del giorno e della notte non produceva alcun effetto: ormai, in
effetti, il brigante passava dal sonno alla veglia senza soluzione di
continuità, perdendo addirittura il senso e la percezione di sé, cancellando
giorno dopo giorno ogni pensiero.
Frattanto,
la voce costituiva una sgradita e infinita compagnia, come fosse un ospite
importuno e incapace di allontanarsi da lui.
Con
il malinconico fluire dei mesi, l’assassino si accorse però di una consistente
variazione: la voce, che continuava incessante, esasperante, a sussurrare
parole alla sua anima oscura, si faceva via via più densa.
La
sensazione che provava il nostro uomo era proprio questa: il mormorio sembrava
staccarsi progressivamente dal mondo dei suoni ed invadere, come una muffa
dannosa, tutte le sfere sensoriali.
Era
una voce corporea, fisica, quasi tangibile. Dopo un tempo che gli parve
infinito, il brigante fu certo –certo nel profondo del proprio spirito- che il
sussurro fosse ora una creatura, un essere vivo, reale, che si stava
scrupolosamente nutrendo di lui.
Solo
l’idea terrorizzò il pover’uomo, lo colpì al punto da farlo urlare, a lungo e
senza requie, nella sua notte eterna.
Una
voce, una voce lo stava divorando! Era come un tarlo che lo rodesse
dall’interno, in modo meticoloso, continuo, crudele. E intanto, il fruscio si
faceva più forte, più robusto, sì, più vivido.
Si
faceva più vivo, e questa era l’unica verità degna di essere pensata.
Fu
all’improvviso, quando la situazione sembrava essersi stabilizzata in questo
nuovo baratro di terrore puro, essenziale, che il brigante fu toccato dal buio.
Un
tocco leggero, vellutato, quello che ci si sarebbe aspettato dalla carezza
leggera di una mano inguantata, proprio sulla sua caviglia martoriata dalla
catena. L’uomo ebbe un brivido di orrore, un fremito che non avrebbe mai
provato se si fosse trattato semplicemente di un ratto.
Aveva
superato da molto, ormai, la fase del disgusto verso l’ambiente che lo circondava.
Ciò che in quei momenti lo poteva toccare era solo qualcosa di grande, di
antico e di potente. Non ebbe dubbi sulla natura di quel tocco. Seppe subito,
senza doverci riflettere nemmeno per un secondo, che era stato il Buio, il buio
del sotterraneo, a sfiorarlo.
L’episodio
si ripeté, pressoché analogamente, molte altre volte: man mano, però, il tocco,
caldo e suadente, indugiava più a lungo e più fermamente. Un poeta di corte
avrebbe detto che il buio era voluttuoso, animato da una rovente e gelida
cupidigia, ma lo stanco assassino riusciva solo a formulare pensieri vacui,
alla ricerca inesausta di un’escatologia, di un destino un poco più luminosi.
Il
contatto con la tenebra, a quel punto, non era più assimilabile a quello con un
guanto: piuttosto, in modo se possibile ancor più inquietante, esso faceva pensare a un non so che di
animalesco, di bestiale. L’immagine che per prima si presentò agli occhi ciechi
del malfattore fu infatti, così si dice, proprio quella di una coda.
Una
lunga coda flessuosa, nera come la pece, lucente come l’ala di un corvo, mobile
come l’aria invernale. Nella sua mente la visione apparve così chiaramente da
provocare un violento sobbalzo: e proprio mentre il brigante stava lì,
raggomitolato e tremante nel buio, a riascoltare nella mente i fruscii della
propria paura, la coda lo toccò ancora, e la voce parlò chiaramente.
-Ti
saluto, uomo malvagio- esordì
con lo stesso tono suadente e sibilante insieme che aveva caratterizzato tutte
le sue parole smozzicate.
-C-cosa
siete voi?-
Una
risata, un solo, cristallino scoppio di risa ancor più inquietante del silenzio
completo della segreta.
-Chi
sono io? Tu, sciocco mortale, reo di mille colpe, tu che ti sei macchiato
dell’assassinio dei tuoi fratelli, tu! Tu osi domandarmi chi io sia?-
La
frase della voce rimbombò, crepitò, si insinuò in ogni anfratto della mente del
brigante, facendolo ricadere nel più completo ottundimento.
Non
disse nulla, e un silenzio pregno di significato si instaurò tra le due
creature.
Fu
la voce, sempre calda e tintinnante, gelida e suadente insieme, a rompere
quella fugace malia.
-Te
lo dirò, allora, crudele mortale. Sappi però che né le tue suppliche né il tuo
silenzio hanno avuto il potere di farmi parlare; ma l’hanno posseduto la tua essenza, la tua anima cui ho attinto
senza riserve, il tuo spirito oscuro e senza remissione. E sappi dunque,
mortale, che io sono il Sotterraneo, l’Oscuro, la Tenebra. Io sono colui che
nel cuore della terra ha aspettato una nuova anima; io sono colui che oggi si è
risvegliato; io sono il Buio, il Buio Sotterraneo!-
La
voce si era levata alta, possente, violenta. La terra stessa, le pietre antiche
del sotterraneo sembravano rimbombare del suo potere, riecheggiando con energia
sempre rinnovata quelle parole terribili.
Una
disfonia di suoni sinistri si impadronì della cella. Rumore, echi, frastuono.
Un lampo improvviso di luce –una luce malsana, crudele anch’essa- sferzò
d’improvviso la mente del brigante.
E
allora egli vide la creatura da lui stesso alimentata, quella che da mesi,
ormai ne era certo, gli stava risucchiando la mente e lo spirito. Nel fragore
di tuono riverberato dalle pietre, in quel fugace istante illuminato dalla
scarica di luce, il brigante spalancò gli occhi e, finalmente, scorse colui che
lo tormentava, il Buio.
Era
un gatto.
Un
gatto che sembrava fatto della stessa materia che risiede tra le stelle più
lontane: nero, rifulgente di uno splendore oscuro, malefico, rimandava lo
sguardo annichilito dell’uomo con due inquietanti, profondissime iridi gialle.
Intorno
alla sua coda, di cui il malfattore aveva già avuto una visione, sembrava
avvolgersi una nube di puro nulla, il nulla dei buchi neri e delle notti senza
luna, quel nero così forte da inglobare in sé ogni cosa. In altre parole, il
gatto del buio stava assorbendo, assimilando su di sé l’oscurità dilagante nel
cuore dell’uomo.
La
nuvola baluginava nella propria tenebra, si avviluppava tremando, mentre, tanto
fugaci da apparire inconsistenti, immagini sempre diverse si affastellavano
sulla sua superficie.
Volti, fuochi, fiamme, case. Gente urlante, lacrime,
pianti. La paglia di un fienile data alla furia del fuoco. Il volto tumefatto
di un contadino pestato. Il fulgore sottile di una catena d’oro puro.
Quelle
visioni oniriche si avvicendavano senza sosta, in una girandola sempre più
rapida, sempre più vorticosa. La vertigine si impadronì del brigante, così
repentina da impedirgli, ancora una volta, il pensiero. Le pietre del
sotterraneo tremavano, vibravano sempre più forte, ripercuotendo incessantemente
una sorta di accordo ancestrale.
Il
mondo girava, senza freno. Una cacofonia intollerabili di voci urlanti si
mescolò al vortice delle immagini, ormai il rosso delle fiamme si confondeva
con le scariche di luce, mentre il nero del gatto di buio si estendeva sempre
più.
Un
ultimo guizzo, un ultimo spasmo, e la tenebra tornò a dominare.
Silenzio,
a lungo, mentre il tremore si acquietava.
-Ecco,
questo sono io- profferì
il gatto sotterraneo in un soffio sibilante.
Il
brigante tacque. Per la prima volta da quando
si trovava in quella cella, nell’oscurità vorace di quella segreta, per la
prima volta in quel momento gli sembrò di riuscire a pensare con chiarezza.
Quelle
immagini, quelle tremende visioni di cui era stato coatto spettatore, erano il
simbolo e la rappresentazione delle sue colpe, egli lo sapeva molto bene.
Fu
in quell’istante che provò, ci dicono le leggende, l’emozione più forte della
propria vita.
Tutte
le sue colpe, ogni singolo peccato da lui commesso contro i suoi simili uomini, in un solo istante gli
si era rivelato: lo shock era stato enorme, ma proprio allora il brigante si
sentì libero.
Non
aveva mai provato nella propria vita una simile sensazione di serenità.
Egli
era libero, libero come gli uccelli del cielo, capace di volare, davvero e
compiutamente, oltre quel luogo, oltre il sotterraneo, oltre il gatto, oltre il
buio. Ma soprattutto, in quel momento egli si accorse di poter volare oltre se
stesso.
Colui
che era stato assassino, comprese allora la portata del proprio crimine; colui
che era stato ladro, capì con certezza che aveva fatto del male; colui che si
era distinto nel buio, si rese conto di dover tendere alla luce.
Fu
un solo istante, fuggevole ed effimero. Ma quell’istante si verificò, non so se
per miracolo o per destino, e l’uomo comprese anche che il gatto-sotterraneo,
la personificazione della tenebra, l’oscuro tormentatore della sua esistenza,
l’aveva in realtà salvato.
In quell’unico, monolitico istante
di eternità, un ruscello di pura luce sgorgò nella sua mente, spazzando via
lungo il suo corso ogni brandello di tenebra.
Scorreva così, tintinnando
argentino, come un arpeggio suonato da mani di fata: e con sé portava quella dolcezza commossa, incomprensibile, priva
di fondamento, ma reale come può esserlo la salvezza, che è inevitabilmente
sottesa al cuore di ognuno.
Il
gatto del buio, avvolgendosi la coda intorno al corpo flessuoso, emise dagli
occhi d’oro un bizzarro, assurdo bagliore: e poi scomparve, silenzioso e
frusciante com’era venuto, come riassorbito dalle pietre stesse del
sotterraneo.