Chapitre 1
Ritorno al
passato: lo Specchio
Ottobre,
ventunesimo secolo. Parigi.
Giulia
Isabelle Nilsson, figlia della soprano più famosa e
richiesta da tutti i teatri
d’Europa negli ultimi quindici anni, scese dalla lucida
Porsche nera del
fratello, sorridendogli mentre correva a rifugiarsi nel suo abbraccio
per
sfuggire al freddo pungente di quel venerdì di
metà autunno. Ancora non aveva
nevicato, ma di sicuro non ci sarebbe stato da attendere molto prima
che le vie
di Parigi si imbiancassero come in un quadro natalizio.
Jean-Louis,
il fratello maggiore di Giulia, strinse la sorella tra le braccia,
attirandola
poi sotto il pesante cappotto per accompagnarla fino al foyer
dell’Opèra
Garnier, dove sarebbero stati finalmente al riparo. Una volta dentro,
infatti,
la ragazza tirò un sospiro di sollievo, sbottonandosi il
cappotto e rimanendo
solo con la camicia e un paio di pantaloni di velluto color prugna, che
stavano
già iniziando ad infastidirla; dentro il teatro, infatti, la
temperatura era
quasi afosa.
Come
sempre, l’immenso salone pullulava di addetti alle pulizie e
di turisti, che
gironzolavano da una parte all’altra delle scalinate in marmo
accompagnati dal
cicaleccio tipico di chi si trovava in quel tempio dell’arte
e ancora non
riusciva a crederci. Il pendolo dell’orologio
all’ingresso batté le 16 in
punto, e i due fratelli si diressero di tacito accordo verso la zona
degli
uffici e dei camerini delle varie comparse, ballerine, cantanti e
così via,
dove avrebbero potuto poggiare la loro roba prima di andare alla
lezione del
coro.
O
meglio, Jean-Louis si limitava ad accompagnare la sorella che, come
solista del
coro dell’Opèra, non poteva mancare a nessuna
lezione, e lui, in quanto figlio
di madame Gauthier, aveva il permesso di assistervi.
Quando
entrarono nella grande sala che avevano adibito ad aula prove, Giulia
ringraziò
mentalmente il cielo di non essere l’unica in ritardo. Le
altre ragazze si
stavano ancora sistemando ai loro posti, mancava quasi la
metà dei ragazzi e
neppure il maestro Vincent, il direttore dell’orchestra, era
ancora arrivato. Al
contrario madame Lambert, l’insegnante di canto, batteva
già i piedi dall’impazienza.
Con
un sorriso Giulia salutò il fratello che andò a
sedersi su una poltroncina
accanto al pianoforte che veniva utilizzato durante le prove, e
raggiunse le
sue compagne che le facevano cenno di raggiungerle. Dopo dieci minuti
furono al
completo, tutti seduti in cerchio in delle vecchie sedie che un mezzo
secolo
prima avevano fatto parte delle della platea, e madame Lambert che
sfogliava
distrattamente uno spartito in attesa che il brusio dei suoi allievi
cessasse.
Alla fine, per attirare la loro attenzione fu costretta a tossire un
paio di
volte, leggermente irritata.
«Bene,
ragazzi. Adesso che ci siamo tutti direi che possiamo
iniziare...» Sospirò,
tornando indietro con le pagine del suo fascicolo. «Volevo
che oggi provaste in
platea, ma monsieur Legrand, il direttore, mi ha chiesto la cortesia di
avere un po’ di pazienza
e di rimandare la
vera e propria prova generale, visto che i branchi di turisti
disturberebbero
la nostra esercitazione.»
Alcune
delle ragazze ridacchiarono sottovoce al tono stanco e spazientito
dell’inflessibile insegnante di canto, ma tacquero
immediatamente per evitare
che la rabbia della donna si abbattesse su di loro. Madame
batté le mani con
due colpi secchi, e tutti i ragazzi e le ragazze si alzarono
simultaneamente
assumendo ciascuno la propria posizione, dividendosi a seconda della
tonalità della
loro voce.
«Bene,
iniziamo con qualche vocalizzo semplice per riscaldarci le corde
vocali...
Maestro Vincent?»
L’anziano
direttore si sedette al piano, voltandosi verso la donna. «Oui, madame?»
«Datemi
un Do, per favore. Quanto a voi, ragazzi,» aggiunse,
rivolgendosi al coro.
«Fatemi sentire una bella scala di vocali. Cercate di non
deludermi anche voi
oggi, per piacere.»
Cercando
di trattenere dei sorrisetti, i soprani diedero inizio alla lezione,
seguendo i
gesti che madame Lambert faceva loro per aiutarli a mantenere il tempo
e il
ritmo. I vocalizzi, come al solito, durarono una mezzoretta piena, in
modo da
alternare i soprani con i tenori, i baritoni con i mezzosoprani e i
contralti,
e così via. Come sempre, alla fine degli esercizi le gote
delle ragazze erano
rosse come ciliegie, ed erano tutti così accaldati che
dovettero iniziare a
sventolarsi con alcuni ventagli per evitare di aprire le finestre.
Avere un
coro con l’influenza a pochi giorni dalla prima non avrebbe
fatto piacere a
nessuno.
«Va
bene, cinque minuti di pausa, bevete un sorso
d’acqua.» Concesse madame Lambert
alla fine, nascondendo il suo compiacimento. «Giulia, puoi
venire un attimo?»
La
ragazza si allontanò dal gruppo delle colleghe e raggiunse
l’insegnante al lato
opposto della sala, quasi certa di quello che la donna le avrebbe
chiesto.
«Hai
preparato quel brano che ti ho chiesto, chèrie?»
Le chiese infatti, sorseggiando un bicchiere di the dal thermos dal
quale non
si separava mai.
Giulia
annuì. «Si, certo. Die
Königin der Nacht,
vero madame?»
Madame
Lambert annuì a sua volta, lieta di sentire che la sua
allieva più brillante
aveva preparato anche quell’ennesimo e difficile brano.
«Si chèrie, ed
ora sono curiosa di sentire
come lo hai preparato... Anche se conoscendo te e conoscendo tua madre,
potrei
mettere la mano sul fuoco sul fatto che sarai impeccabile.»
L’altra
arrossì senza rispondere, riuscendo però a
mascherare l’irritazione. Le dava
fastidio, infatti, che tutti la paragonassero a sua madre, come se per
il
semplice fatto di essere la figlia di una così grande
cantante d’opera, anche
lei non sarebbe potuta essere da meno. Per carità, Giulia
amava il canto e in
particolar modo amava il teatro, ma c’erano delle volte
– e questa era una di
quelle – in cui avrebbe preferito essere la figlia di una
maestra delle
elementari piuttosto che di Eloise
Gauthier. Anche perché, per colpa degli sciocchi
favoritismi che le
riservava madame Lambert, tutte le altre ragazze del coro la
invidiavano, e non
era mai riuscita a farsene amica nemmeno una, per quanto tutte si
prodigassero
a trattarla come tale per non far irritare l’insegnante.
Con
l’ennesimo battito di mani, quest’ultima
attirò l’attenzione del resto del
coro, facendo loro cenno di avvicinarsi al piano, dove Giulia prese
posto di
fronte a maestro Vincent con lo spartito del brano aperto sul ripiano
dello
strumento. Mentre i suoi colleghi prendevano posto, la ragazza
notò alcune
occhiate che le altre soprano si scambiarono e sospirò,
rattristata; erano
tutte invidiose della sua posizione, ma non l’aveva certo
chiesto lei di essere
la solista del coro! Perché non si proponeva una di loro per
il posto? Glielo
avrebbe ceduto molto volentieri.
«Bene
ragazzi, adesso Giulia ci delizierà con un brano tratto dal
Flauto Magico di
Mozart, che di sicuro conoscete tutti. Avete già sentito
parlare della Regina
della Notte, n’est-ce pas?»
Tutti
annuirono e mormorarono consensi, prima di tacere e spostare
l’attenzione sulla
ragazza. «Maestro Vincent...» disse lei,
porgendogli lo spartito. «Qui.
Dall’inizio dell’aria...»
L’uomo
annuì, e dopo aver sistemato i fogli sul leggio di fronte a
sé e aver terminato
di suonare l’introduzione, le fece cenno di iniziare.
«Der
Hölle Rache
kocht in meinem Herzen,
Tod und Verzweiflung flammet um mich her!
Fühlt nicht durch dich Sarastro Todesschmerzen,
So bist du meine Tochter nimmermehr.
Verstossen sei auf ewig,
Verlassen sei auf ewig,
Zertrümmert sei 'n auf ewig
Alle Bande der Natur
Wenn nicht durch dich Sarastro wird erblassen!
Hört,
Rachegötter, hört der Mutter
Schwur! »
I
vocalizzi di quell’aria erano la parte che Giulia amava
più di tutto. Le davano
la possibilità di gridare tutta la sua rabbia e la sua
frustrazione senza che
nessuno si scandalizzasse, e perciò mise in quel canto tutto
il sentimento di
cui era capace. Alla fine, malgrado stessero rodendo
dall’invidia, le sue
compagne di canto non poterono fare a meno di applaudire, per quanto
fosse
evidente la voglia che avevano di strangolarla. Anche i complimenti di
madame
Lambert erano ben accetti, considerando che la donna li distribuiva
sempre con
moderata e avara parsimonia.
Ad ogni
modo, fortunatamente, anche quella lezione terminò, e dopo
aver salutato il
maestro Vincent e i due violinisti che lo accompagnavano durante le
arie, anche
Jean-Louis raggiunse la sorella, uscendo nel corridoio che si stava
riempiendo
lentamente.
«Alla
buon’ora, non ne potevo più!»
Esclamò il ragazzo una volta fuori, afferrando la
sorella per la vita e camminando abbracciato a lei. «Tutte
quelle oche mi
stavano davvero dando fastidio per il modo in cui ti
guardavano...»
Giulia
rise, seppur un po’ sforzatamente. «E come mi
stavano guardando?»
Jean-Louis
strinse gli occhi, arrabbiato. «Come se ti avessero voluto
strangolare! Che
nervi...»
«Non
importa, è così da sempre,
perciò...» Si limitò a rispondere lei,
scrollando le
spalle. Qualcuno però attirò la sua attenzione e
Giulia si aprì in un sincero
sorriso, salutando con la mano a qualche signora che da lontano il
fratello non
riconobbe.
«A
chi
saluti?» Si volle pertanto informare, curioso.
«A
madame Sindial!» Replicò lei, accelerando il passo
verso la signora. «Non te la
ricordi? La mia vecchia insegnante di danza di quando ero bambina! Ora
vado a
salutarla...»
Jean-Louis
la fermò in mezzo al corridoio, attirandola velocemente
verso di sé. «Aspetta
un attimo, Giulia, io credo che andrò a parlare con maman, mi ha detto che è
appena arrivata e vuole che la
raggiunga... Ci vediamo dopo all’ingresso, okay?»
La
sorella annuì, sorridendo. «Okay, saluta la mamma.
Ci vediamo dopo, ciao!» E,
dopo avergli schioccato un bacio sulla guancia, sparì in
mezzo alla folla.
«Madame
Sindial!» esclamò non appena le fu davanti,
volando nel suo materno abbraccio.
«Come state? È un secolo che non vi vedevo...
Siete stata male?»
La
donna sorrise a sua volta, gli occhi azzurri che brillavano di
felicità nel
vedere quella ragazza che aveva praticamente visto crescere e alla
quale era
sinceramente affezionata, e le passò una mano tra i lunghi e
morbidi capelli
castani, accarezzandola dolcemente. «Ah, Isabelle... Sei
sempre più bella, ma
chère.»
Giulia
sorrise, lasciandosi portare dentro lo studio della donna. «E
voi continuerete
a chiamarmi sempre Isabelle, non è
così?»
«Non
ti
piace, forse?» Replicò, fingendosi offesa.
La
ragazza rise, e questa volta di cuore. «Oh no, mi piace!
Però... Lo trovo così
antico...» Aggiunse, con una strana smorfia del naso.
«Ma non avete risposto
alla mia domanda! Siete stata male?»
Madame,
un’assennata signora sulla sessantina d’anni
splendidamente portati, non si era
mai ammalata da quando Giulia la conosceva: aveva sempre avuto una
salute di
ferro. Si sedette, offrendo del the alla sua giovane ospite.
«Tesoro,
lo sai che io non mi ammalo mai così facilmente.»
Ribatté, con un mezzo
sorriso. Poi sospirò. «In realtà era
mia figlia ad essersi ammalata, Josephine...
Ha sempre avuto una salute precaria, ma dopotutto anche mio marito
è così, e
quindi le serviva aiuto per badare ai gemelli. Sono cresciuti
tantissimo a
proposito, sai?»
Giulia
sorrise, nel vedere l’espressione orgogliosa della neo nonna.
«È da molto che
non vedo anche loro, in effetti! Quanti anni hanno, adesso?
Due?»
«Li
compiono fra due mesi, si.» Sorrise madame, annuendo.
Improvvisamente lo
sguardo della donna si fece malizioso e complice, e si chinò
verso di lei,
incuriosita. «E tu, tesoro? Non sei ancora
fidanzata?»
La
ragazza rise, scuotendo la testa. «Direi di no,
madame!»
Madame
Sindial sembrò delusa, mentre tornava al suo posto.
«Però tesoro, hai
vent’anni, dovresti rimediare alla svelta. Io alla tua
età ero fidanzata con
mio marito già da un paio d’anni.»
Per
prendere tempo, Giulia sorseggiò con calma il suo the.
«Veramente ne ho solo
diciannove, madame, e comunque non ho fretta! Quando
avverrà, e soprattutto se,
sarà ben accetto.»
«Va
bene, va bene, però sappi che lo voglio
conoscere.» Concluse, liquidando poi il
discorso con un gesto della mano. «Ah, prima che me ne
dimentichi! Voglio farti
vedere una cosa. Vieni con me.»
Prese
qualcosa da un cassetto della scrivania e poi si diresse verso la
porta,
facendole cenno di seguirla. I corridoi erano nuovamente vuoti, tutti
erano
tornati alle loro rispettive classi per le nuove lezioni, e i passi
delle due
donne rimbombavano sul tappeto che ricopriva il prezioso pavimento di
marmo.
«Cosa
volete farmi vedere, madame?» Chiese la ragazza, incuriosita.
La
donna le fece cenno di avvicinarsi di più a lei, in modo da
poterle parlare
sottovoce come se avesse avuto paura che qualcuno le sentisse.
«Dato che ho
passato quasi due settimane a casa mia, ho avuto modo di risalire in
soffitta per
spolverare, e ho trovato alcuni vecchi bauli che probabilmente erano
lì a fare
muffa dall’inizio del secolo...» Scrollò
le spalle, leggermente disgustata, ma
quasi subito una strana luce tornò ad illuminarle lo
sguardo. «Ovviamente li ho
aperti! E in uno ho trovato una chiave di bronzo sulla quale
c’era scritto O.
G. Opèra Garnier! Te ne
rendi conto?»
Giulia
annuì, affascinata. «E che cosa ci faceva una
chiave del teatro a casa vostra?»
«È
quello che mi sono domandata anch’io! Poi però mi
sono accorta che il baule e
tutti quegli oggetti appartenevano ad una mia antenata, una certa
Marguerite Mercier
che era stata prima ballerina dell’Opèra negli
anni Settanta del secolo scorso.
Quindi può essere che la chiave fosse del suo
camerino...»
«Non
siete ancora andata a vedere?»
«Sinceramente?»
Madame le scoccò uno sguardo penetrante prima di
risponderle. «Mi sentivo a
disagio al solo pensiero di andare a curiosare per il teatro da sola,
quindi ho
preferito aspettare. E meno male che sei arrivata tu, tesoro! Stavo
letteralmente morendo dalla curiosità. E comunque, so qual
è la stanza.»
Giulia
sollevò impercettibilmente le sopracciglia. «Lo
sapete? Ma allora...»
«Non
ne
sono del tutto sicura.» Precisò, svoltando
nell’ennesimo corridoio. «Che io
sappia, però, esiste solo una porta che non è mai
stata aperta, a teatro,
perciò presumo che sia
quella... Ora,
ad ogni modo, vedremo se i miei presentimenti sono esatti.»
Non
appena cessò di dire queste parole, madame Sindial si
fermò in mezzo al
corridoio, fissando una porta che si innalzava di fronte a lei,
intarsiata come
tante altre porte lì a teatro, dall’apparenza del
tutto innocua e anonima,
senza niente che potesse giustificare quello sguardo eccitato che
Giulia aveva
visto negli occhi della sua vecchia insegnante di danza.
«È...
questa?» Domandò infine, spostando lo sguardo
dalla porta alla donna, che
sembrava fremere.
Quest’ultima
stava bisbigliando qualcosa sottovoce. «Finalmente... Dopo
tanto tempo... La Loge Perdue...
Meg, adesso scoprirò
il tuo segreto, vedrai...»
Giulia
si avvicinò cautamente alla donna, toccandole un braccio.
«Madame? Vi sentite
bene?»
Madame
Sindial le rivolse un sorriso a dir poco abbagliante. «Si,
tesoro. Mai stata
meglio!» Poi quasi corse verso la porta, tirando fuori la
chiave e infilandola
senza sforzo nella toppa, dove girò fino a scattare come se
non fosse stata
chiusa che il giorno prima, e non cento anni prima.
«Sei
pronta ad entrare?» Le chiese, allungando una mano nella sua
direzione per
invitarla ad avvicinarsi alla porta ormai aperta. Giulia
annuì, raggiungendola.
L’interno
era però completamente immerso nel buio.
«Grazie
al Cielo fumo...» Replicò la donna, tirando fuori
da una tasca l’accendino e
avvicinandosi ad accendere le candele di un candelabro sistemato su una
mensola
accanto alla porta. Non appena la stanza iniziò a venire
rischiarata dalle
deboli luci delle candele, però, un cellulare prese a
squillare insistentemente,
e dato che Giulia aveva lasciato il suo nella borsa negli spogliatoi,
non potè
essere che quello di madame.
«Oh...
Merde!»
Esclamò, aprendolo e leggendo il
nome della chiamata. Dopodiché si voltò verso la
ragazza, con un’espressione
alquanto scocciata in volto. «È monsieur Legrand!
Vuole sicuramente che vada in
ufficio... Accidenti!»
Giulia
scrollò le spalle, senza sapere cosa dire. «Non
so, madame... Se volete vi
aspetto qui, tanto non ho fretta di fare altro, stasera!»
«Davvero,
tesoro?» Mormorò incerta, giocherellando con la
chiave. Ma non attese risposta.
«Ma si, certo, e poi mi fido di te, quindi... Tieni, ecco la
chiave. Io torno
subito, non ci vorrà molto.»
Dopodiché
quasi scomparve, chiudendo la porta alle sue spalle e lasciando la
ragazza da
sola.
Con un
sospiro, Giulia si avvicinò a posare il candelabro al tavolo
da toilette che
aveva intravisto in un angolo e, dato che la stanza era priva di
finestre, andò
ad accendere tutte le altre candele che vi trovò. La chiave
rimase abbandonata sul
ripiano in marmo di un grande comò.
Quando
finalmente la stanza fu ben illuminata, Giulia si accorse che quella
non era
una stanzetta per i vecchi mobili abbandonati come aveva creduto
all’inizio,
non appena vi aveva messo piede. Al contrario, aveva l’aria
di essere, o
perlomeno di essere stato, un prezioso camerino appartenuto forse ad
una
primadonna, a giudicare dalle dimensioni e dalla qualità dei
mobili. Come se
non bastasse, un’intera parete era ricoperta da un immenso
specchio circondato
da una cornice dorata, leggermente macchiata in alcuni punti come
così pure il
vetro, che era senza dubbio l’oggetto più
misterioso e prezioso di tutta la
stanza. Possibile che i direttori avessero deciso di tenere chiusa
quella
stanza? Anche senza la chiave di madame Sindial, se avessero voluto
avrebbero
potuto togliere la serratura e poi cambiarla, almeno per entrarci a
darvi
un’occhiata. Giulia era sicura che, una volta restaurato e
magari rimodernato
un poco, le primedonne e le prime ballerine
dell’Opèra avrebbero fatto a gara
per aggiudicarselo.
Mentre
studiava lo specchio, l’attenzione di Giulia si
spostò verso un oggetto
riflesso da quest’ultimo, e subito si voltò,
decidendo di osservare
direttamente l’oggetto in questione e non il suo semplice
riflesso. Si trattava
di un abito, uno splendido abito bianco, senza alcun dubbio
d’epoca, che
sembrava essere stato lasciato lì apposta, pronto per essere
indossato alla
successiva rappresentazione, magari di un Otello, a giudicare dal
taglio. La
ragazza si avvicinò ad esso, affascinata, sollevando una
mano per sfiorarne il
tessuto e stupendosi quasi dello strato di polvere che lo ricopriva
come un
velo.
Prima
di rendersi effettivamente conto di quello che stava facendo, tolse
l’abito dal
manichino in legno, scrollando via la polvere e indossandolo al posto
dei suoi
attuali vestiti: sembrava essere stato cucito e ricamato apposta per
lei. Si
portò poi nuovamente di fronte allo specchio, e
l’immagine che questo le
rimandò la fece per un attimo barcollare.
Aveva
l’impressione di essersi già vista con
quell’abito indosso, il che era
pressoché impossibile dato che lei stessa lo aveva appena
visto, e dato che era
sempre stato in quella stanza chiusa a chiave... Ma la sensazione di
dejà vu
che le trasmise il vedersi così le aveva messo i brividi. Si
poggiò contro lo
specchio, posando la fronte sulla gelida superficie di vetro di
quest’ultimo, sperando
che il cambio di temperatura l’aiutasse come minimo a
diminuire i battiti
furiosi del suo cuore, che sembrava volerle uscire dal petto.
All’improvviso
però sentì uno strano scatto, come il rumore di
una qualche molla che sembrava
provenire da dietro lo specchio, e allontanandosi da esso si rese conto
che la
cornice sembrava essersi spostata dalla parete nella quale, credeva,
fosse incassato.
Incuriosita,
si affacciò dietro lo specchio, certa di trovare solo la
fredda parete del
camerino, e stupendosi non poco nel trovarvi invece un passaggio
segreto, che
sembrava aver giaciuto silenzioso lì dietro, inutilizzato da
anni. Facendo leva
con tutte le sue forze contro lo specchio, riuscì a
spingerlo fino ad aprire
ulteriormente l’accesso ad un lungo e interminabile
corridoio, che si ritrovò a
fissare affascinata.
«Mio
Dio...» mormorò. Adesso comprendeva
l’eccitazione di madame Sindial! Eppure si
domandò se la donna fosse a conoscenza di quel corridoio
segreto.
Fece
per entrarci ma, prima di fare un solo passo, un barlume di
lucidità le
consigliò di prendere almeno il candelabro, per non essere
completamente al
buio. Dopotutto, se davvero era quasi un secolo che nessuno lo
utilizzava, chi
poteva sapere che cosa avrebbe potuto trovarci! Non era da scartare
neppure
l’idea di trovarvi dei topi...
Al solo
pensiero rabbrividì, disgustata, e quando si
pentì di aver imboccato quel
corridoio e si voltò, decidendo di tornare indietro,
scoprì di essersi già
persa.
«Non
posso crederci...» Bisbigliò, illuminando a destra
e a sinistra del corridoio,
cercando di decidere quale era la parte migliore verso cui dirigersi.
«Beh, una
vale l’altra... Questo posto avrà pure
un’uscita, da qualche parte. No?»
Aveva
iniziato a parlare ad alta voce per darsi coraggio, ma in
realtà il fatto di
non ricevere risposta e di udire al contrario l’eco della sua
stessa voce
finiva per avvilirla ancora di più. Con un sospiro tremante
continuò ad andare
avanti, con i tacchi delle sue scarpe che rimbombavano sulle pietre del
corridoio e le gocce di umidità che scivolavano per terra
con lo stesso ritmo
di un orologio. L’aria del suo respiro si condensava davanti
alla sua bocca non
appena espirava, e anche se i numerosi pizzi e merletti del vestito
erano
abbastanza pesanti, non poteva fare a meno di impedire i brividi di
freddo che
le saettavano lungo la schiena. Come se non bastasse, il braccio
iniziava a
dolerle per il peso dello scomodo candelabro d’ottone, e ad
un certo punto fu
costretta a posarlo per terra, spegnendo due candele e infilandosele in
tasca e
tenendo la terza in mano per illuminarle il cammino. Dopotutto, nessuno
le
avrebbe rinfacciato il fatto di aver lasciato un candelabro
d’epoca in chissà
quale sperduto corridoio, quando fosse riuscita a trovare
l’uscita.
Sempre
se l’avesse trovata. A
quel punto non
ne era più tanto sicura.
Dopo
aver svoltato l’ennesima galleria, inciampò in uno
strano oggetto, che per poco
non le fece spegnere la candela: illuminò per terra, e vide
che si trattava del
candelabro che aveva abbandonato poco prima. Questo le fece perdere la
testa,
furiosa. Diede un calcio al portacandele e imprecò ad alta
voce, tra le
lacrime.
«Accidenti!»
Gridò, mentre l’oscurità assorbiva la
sua voce. «Possibile che nessuno mi
senta?! Jean-Louis! Madame Sindial! Aiutatemi!»
Si
gettò contro il muro e lo tempestò di pugni come
se qualcuno l’avesse potuta
sentire dall’altra parte, ma nel farlo la candela ancora
accesa le sfuggì di
mano e cadde per terra, spegnendosi e rotolando fino ad una
pozzanghera. Adesso
era letteralmente immersa nel buio, non avrebbe potuto continuare ad
andare
avanti neanche se l’avesse voluto.
Singhiozzando
si lasciò scivolare per terra, raccogliendo attorno a
sé l’ampia gonna del
vestito e si rannicchiò il più possibile verso il
muro, cercando di
riscaldarsi. Aveva le mani gelide e spellate a furia di prendere a
pugni il
muro, e il vestito le si stava lentamente inzuppando a causa
dell’acqua che
scivolava dal soffitto e che si depositava per terra e tra i suoi
capelli. E se
anche si fossero accorti della sua scomparsa, sarebbero passate delle
ore prima
che a qualcuno fosse venuta l’idea di andare a cercarla
dentro uno stupido e
vecchio passaggio segreto.
Lentamente
però, la stanchezza iniziò a prendere il posto
delle lacrime, appesantendole le
palpebre e trascinandola dolcemente in un sonno profondo, privo di
sogni. Non
si era accorta della testa che le pulsava, feroce, sotto
l’influsso della
febbre, e si addormentò così, bagnata e
raffreddata. Chi la ritrovò, non molto
più tardi, temette che fosse morta, ma avvicinando il
proprio orecchio al suo
petto si accorse invece del contrario. Così la
sollevò tra le braccia,
portandola fuori da quell’Inferno.
Le
candele rimasero per terra, accanto ad uno strano candelabro nuovo.
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