Capitolo
29° - Polpetta al sugo
Mi
portai le mani alla gola e le posai sopra le sue,
nell’infantile tentativo di graffiarlo e sfuggire alla sua
presa. Cosa vana che, piuttosto, fece sogghignare Emmett malignamente
che, nel gesto di stringere più forte, mi tolse il fiato di
cui non avevo poi gran bisogno per vivere. Eppure il mio viso aveva
assunto un colorito davvero pallido, ma non perché mi
mancasse il respiro o perché il sangue avesse interrotto
forzatamente il suo ciclo all’altezza della carotide. No,
affatto. Ero pallida perché avevo paura. Paura di cosa
quell’uomo affogato nella sua stessa irascibilità
aveva in mente di fare di me. Stavo per diventare carne da macello. Sul
menù era già scritto “polpetta al
sugo”.
«E
per sugo…
sapete cosa intendo, vero?»
Sgranai
gli occhi, serrai i denti, conciai a calciare forsennata.
Ero
terrorizzata dall’espressione soddisfatta e piena di goduria
che vedevo disegnarglisi in volto con linee più marcate ad
ogni secondo che trascorrevo in quella posa. Agonizzante come
può esserlo un tonno nella rete dei pescatori, e facile
preda della disperazione, persi ogni cognizione logica sia della parte
umana di me che di quella mutata. In conclusione, ero troppo agitata
per poter anche solo sferrare un attacco con un esito a mio favore.
Sapevo
bene quanto Emmett Word fosse sempre stato più forte di me.
Avevo chiari i ricordi degli addestramenti nella palestra, ma quello a
farmi rabbrividire erano le immagini di quando l’avevo visto
all’opera coi cacciatori di terra sull’isola di
Manhattan. Dio, quell’uomo (se tale poteva definirsi) era la
furia fatta persona.
E
lì mi sorse spontanea più di una domanda: in cima
alla lista c’era il perché Emmett fosse stato
mandato da solo
ad affrontare sia me che Alex (il quale, cazzo, si defilava come al
solito nei momenti meno opportuni!!!).
In
secondo luogo mi chiesi se io, Angel 1-9-2 predestinata ad abbattere
Alex Mercer, sarei mai stata capace di trovare in me la forza
immagazzinata allo scopo di abbattere Zeus e sfogarla piuttosto su un
compatriota.
In
fine, il dilaniante dubbio che fosse tutta una trappola cominciava a
raschiarmi con le unghie la parete dello stomaco.
Insomma,
le cose si mettevano piuttosto male.
L’unico
modo per evitare uno scontro diretto con chi sapevo essere dieci volte
il mio peso e la mia forza (soprattutto così imbottito di
collera) era scappare.
«Diciamola
tutta: il piano era saltato. Alex era improvvisamente scomparso, di mio
padre o i suoi cacciatori nemmeno l’ombra, senza contare il
fatto che i laboratori e gli uffici della base erano silenziosi come
cimiteri. C’era da preoccuparsi sul serio, e non solo
perché Emmett stava giusto per giocare a shangai con le mie
ossa. Cos’altro avrei potuto fare? Cosa avreste fatto voi?!
Personalmente tenevo molto al mio culo…
all’epoca.»
Peccato
che allontanarsi di lì diventava altrettanto difficoltoso
quanto prendere e fare il mazzo tanto al mio nuovo nemico.
-Dovresti
sapere che è inutile agitarsi tanto- sghignazzò
Emmett soffiandomi in faccia il suo alito freddo come una tempesta
siberiana, a contrasto con le sue dita bollenti strette attorno al mio
collo.
-Emmett…
ti prego… lasciami! Lasciami spiegare!- biascicai con una
voce che non riconobbi mia.
Il
ragazzo mi sbatté alla parete oltre le mie spalle senza mai
lasciare la presa. -Sei una sfottuta traditrice, Emily, non
c’è nulla da spiegare! Ed io non te la
farò passare liscia, costi quel che costi!-
digrignò sprezzante a tanto così dal mio volto.
Perché adesso parla
di costi?! Sono sicura che il settore pagherebbe invece di comprare
qualcuno che si sbarazzi di me! Il lavaggio del cervello non
l’hanno ancora scoperto, quindi, anche se volessero non
tornerei mai a lavorare con gli Angeli! Quello che so basta e avanza
per avere ragione ad ammazzare pure te, stronzo! Pensai
fissandolo negli occhi, per quel che mi fu possibile.
All’improvviso
avevo ritrovato il furore smarrito nel primo impatto. A sostenere i
miei pensieri, i miei ideali c’era il ricordo di due dolorosi
anni trascorsi nella convivenza con quest’essere. Forse avrei
potuto pareggiare i conti, una volta per tutte, con la sua testa calda.
Forse avrei potuto finalmente mostrargli di cosa sono fatta, mi dissi,
e dargli magari un assaggio dell’Emily Walker che, se avesse
voluto, avrebbe abbattuto il Blacklight
con una mano sola!
Fu per
me un dolore atroce sentire le ali venire dalla mia schiena e spingere
contro la parete dietro di me, nel riuscito tentativo di portarmi in
avanti quel tanto che bastò per finire addosso ad Emmett e
scaraventarlo dal lato opposto del corridoio.
Lo
schianto che produsse il suo corpo sbrindellò
l’intera parete, che gli crollò addosso assieme ad
una porta vetrata e dei frammenti del soffitto. I detriti lo
ricoprirono lasciandomi il tempo necessario di tornare coi piedi per
terra. Mi massaggiai il collo tirandomi dritta a poco a poco, senza mai
distogliere la mia attenzione dal cumulo di macerie sotto al quale era
“intrappolato” il mio avversario.
Spero che Lucy mi perdoni per
quello che sto per fare… gemetti stringendomi
il polso destro, e contemporaneamente tramutai la mano negli artigli
che avevo visto usare più volte anche a Mercer.
Dopodiché affondai il pugno nel pavimento del corridoio e
sentii la mia essenza mescolarsi alla terra sotto ai miei piedi. Diedi
lei una direzione precisa, portandola verso i detriti che schiacciavano
l’Angel 1-9-1, e chinai il capo. Preferii non guardare quando
una dozzina di spuntoni risalirono dal suolo e si conficcarono nelle
macerie, spaccando oltremodo pavimento, pareti e soffitto.
Se un
tempo sotto quelle macerie c’era stato il mio nemico, ora
conficcati a quegli spuntoni che io stessa avevo evocato, non
c’erano altro che blocchi di cemento armato.
È scappato. Sgranai
gli occhi. Quel
maledetto figlio di puttana è scappato! Mi
ripetei con più convinzione, constatando la sua sparizione
con l’ausilio della vista termica.
-E
ancora una volta, sbagli-.
La
calda voce di Emmett alle mie spalle mi irrigidì
all’improvviso. Il signor Word si era rigenerato dietro di me
da una piccola pozza scura, strisciata dal cumulo di macerie a sotto le
mie suole senza che me n’accorgessi. Un potere, quello, che
non avevo mai visto in nessun Angelo prima di allora.
Feci
per voltarmi, ma il ragazzo fu più veloce di me e mi
afferrò le ali con entrambe le mani, spezzandole
dov’erano più fragili, ovvero alle giunture, con
un colpo secco.
Il
dolore divenne atroce tutt’a un tratto e proprio non riuscii
a trattenere un grido.
-Ti
piacciono queste nuove abilità, Emily?!- mi
ringhiò contro vedendomi inginocchiarmi ai suoi piedi. Mi
afferrò per i capelli tirandomi indietro la testa, e allo
stesso tempo affondò con violenza il tallone destro nella
mia spina dorsale, rompendola. -È un vero peccato che tu ci
abbia abbandonati prima di poterle ricevere- si beffò
chinandosi alla mia altezza e costringendomi ad avvicinare il volto al
suo. La sua mano tra i miei capelli tramutò in cinque
affilati artigli che mi aprirono altrettanti tagli sulla fronte e sulla
nuca. Il mio stesso sangue mi traversò la faccia e
bagnò la schiena prima che potessi reagire in qualsiasi
modo. Chiusi gli occhi, ma la mia linfa vitale
m’inumidì le palpebre, rendendole appiccicose lo
stesso.
Emmett,
non riscontrando in me alcuna reazione, mi sollevò
nuovamente da terra e con una forza disumana mi gettò contro
una parete sana. Questa mi crollò addosso nella medesima
maniera in cui aveva rinchiuso lui poco prima, con la sola differenza
che la metà superiore del mio corpo restò
esposta. Nel frattempo i tagli superficiali sulla nuca e sulla fronte
si erano rimarginati e la spina dorsale scricchiolava macabramente.
Quando
riuscii a guardare nella sua direzione, Emmett era seduto sui talloni a
pochi passi da me, coi gomiti poggiati sulle ginocchia e gli artigli
(sì, esatto, proprio quelli di Alex) che sfioravano il
pavimento, grattandolo.
-Chi…
chi ti ha dato questi poteri?- chiesi flebilmente, tossendo sangue
subito dopo.
Emmett
si strinse nelle spalle con naturalezza. –Un certo
Bradley… dottor Bradlay Ragland. Sembra faccia parte del
pacchetto assieme alla sorella di Mercer, che la squadra speciale ha
portato alla base qualche mese fa- si beffò con una certa
ironia. -Ti ricordi, no? L’arma
segreta- aggiunse facendo l’occhiolino,
sorridente.
Quelle
parole risvegliarono in me i ricordi di poche ore prima
dell’attacco alla base, quando Alex, Max, mio padre ed io ci
stavamo ancora preparando ad attraversare l’Hudson…
Il
fiume che circonda l’isola è una macchia densa e
scura. L’orizzonte si confonde nei fumi e nelle macerie dei
palazzi abbandonati di New York, vuota di ogni forma di vita. Le strade
sono deserte e silenziose, una brezza invernale solleva le polveri di
sangue secco. I teschi di bestie mostruose riposano sui marciapiedi,
semafori spenti sono crollati nell’asfalto e scompaiono nelle
nubi violastre di virus. Sulle coste nord della sponda opposta,
l’unico edificio luminoso è la Base Phoenix del
Settore Angels. Tutto il resto è avvolto da un cielo nero
senza stelle.
È
questa la vista meravigliosa che si apre davanti ai miei occhi quando
raggiungo Alex sul tetto dell’edificio che ospita
l’ospedale di Max. I profughi sono nelle loro capanne di
latta già da ore; il nostro arrivo al “quartier
generale” non ha minimamente disturbato il loro sonno
stressato e costantemente minacciato dall’inalazione di
qualche fatale gas che potrebbe trasformarli in quelle orrende creature
alle quali fanno resistenza. Posso quasi sentire i loro respiri
mescolarsi all’aria che io stessa getto nei polmoni, come se
ne avessi bisogno. In realtà, il mostro che sono non avrebbe
bisogno né di mangiare, né di bere, né
di respirare. Se faccio tutto questo è solo per sentirmi
umana quel tanto che basta per portare il nome che hanno scelto mia
madre e mio padre per me.
Mercer
fissa l’orizzonte dinnanzi ai suoi occhi, azzurri a tal punto
da sembrarmi grigi. È in piedi a pochi passi ancora da me, e
non distoglie la sua attenzione della Base Phoenix nemmeno un secondo.
So bene che si è accorto di me. Eppure non dice o fa nulla
per dimostrarmi quanto in realtà sia infastidito dalla mia
presenza.
Mi
avvicino ancora, se allungo un braccio posso quasi toccarlo
all’altezza del gomito. Vorrei che si voltasse, ho bisogno di
parlargli, di ringraziarlo per avermi portata dalla sua e dalla parte
di mio padre, ma prima che posso solo saggiare la pelle del suo
giubbetto sotto i polpastrelli, è lui a guardare
nella mia direzione.
Mi
astengo dal sobbalzare per lo stupore, non aspettandomi di vedermi
così trafitta dai suoi occhi celesti.
Ci
fissiamo allungo, l’uno attendendo l’intervento
dell’altra. La nostra attesa sembra durare in eterno, fin
quando Alex non torna a fissare la sponda opposta di New York. Nelle
sue pupille vedo specchiarsi le luci del mio ex quartier generale.
-Perché
lo fai?- chiedo a tradimento.
Mercer
inarca un sopracciglio, sorpreso dalla mia domanda.
-Cosa
vuoi dimostrare ancora?- insisto. –La tua guerra è
finita. Potresti andartene se vuoi, però non lo fai.
Perché?- spiego meglio.
-Hanno
preso mia sorella- risponde lui con naturalezza, -e un caro amico.
Finché non li porto vivi fuori di lì è
ancora la mia
guerra- sottolinea impassibile.
Tornai
in me quando Emmett stava per affermarmi di nuovo, pronto a spezzarmi
definitivamente in pezzi come uno stuzzicadenti, ma un improvviso tuono
di arma da fuoco mi rimbombò nelle orecchie.
Chiusi
gli occhi giusto un istante, e, quando li riaprii, Emmett era piegato a
terra su un ginocchio, voltato verso una figura avvolta
dall’oscurità.
-Angel
1-9-1, ti ordino di fermarti! Ora!-.
Matt?!
Seguii
lo sguardo dell’Angelo che si era posato sull’esile
(in confronto a lui) figura di Matt, il mio coordinatore, apparso tutto
trafelato e col fiato grosso sul pianerottolo delle scale lì
accanto.
-Sparisci,
moccioso! È una questione personale!- ruggì
Emmett estraendosi il proiettile dalla spalle e alzandosi in piedi.
Lanciò il bussolotto che andò a conficcarsi su
un’anta dell’ascensore a pochi passi dal ragazzo.
-Non
fare il coglione, Emmett; sai bene che Lewis la vuole viva!-
strillò il mio coordinatore avvicinandosi
all’Angelo con l’arma spianata.
-Fottiti!
Io non prendo ordini né da te né da quel figlio
di puttana!- ringhiò Emmett in tutta risposta.
Nel
frattempo, alle spalle del mio ex compagno di Clan distratto da Matt
sempre più vicino a noi, ero riuscita a sollevarmi su un
gomito e liberarmi dalle macerie che mi schiacciavano. Una volta in
piedi indietreggiai, avendo via libera per un buon pezzo.
Emmett
si accorse troppo tardi della mia fuga imminente, quando Matt gli
piantò in petto altri cinque colpi.
-Emily,
scappa!- m’incitò il mio coordinatore, scaricando
sul suo bersaglio tutto il caricatore.
Non
indugiai un istante.
Aggiustandomi
le ali in una frazione di secondo spiccai un balzo e mi librai in volo
nel corridoio.
Emmett
assorbì i proiettili nel proprio corpo e se ne
liberò in pochi secondi, trasfigurandoli in appuntite
puntine di metallo, che poi espulse addosso al ragazzo.
La
pistola gli sfuggì di mano e Matt crollò a terra,
in una pozza di sangue, bucato come una groviera.
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