L'ho scritto, finalmente! Nato da uno scambio
di battute su msn con berlinene, ecco questo prequel del mio universo
Jun/Ken. Si tratta di un flash back di Jun in un futuro impreciso. Mi
piacciono molto i prequel nelle storie e, devo dire, questo lo amo
particolarmente. Perchè amo il personaggio di Jun e credo molto in ciò
che ho scritto su di lui in questa shot, a livello d'introspezione. Per
ora non la inserirò nella serie, perchè mi piace pensare che la storia
di Jun e Ken sia iniziata con "Il cuore e il pallone", anche se nelle
ff successive ho sempre accennato a un interesse precedente del
principe del calcio. Quindi lascio a voi la collocazione, un vero
prequel o una specie di AU? chissà...
Grazie
specialissimo a berlinene
per il betaggio e il supporto moraleXD Lei sa bene quanto tengo
a questo prequel!
Grazie
speciale alla mia oneechan Ichigo che ha
letto in anteprima! Grazie stella!!
a voi
tutte... Buona lettura!!
Il principe nello specchio
La mia carriera di calciatore è finita.
Questa fu la prima cosa che pensai, quando mi diagnosticarono la
malattia cardiaca. Durante gli allenamenti ero caduto al suolo, vittima
di un dolore al petto mai provato prima, convinto fosse solo la
stanchezza, uno sforzo sproporzionato alla mia età, ma comunque una
cosa rimediabile. Invece, la corsa in ospedale e tutte le analisi cui
ero stato sottoposto nelle successive e interminabili ore, avevano
mandato in frantumi le mie speranze: si trattava di un difetto
congenito al cuore, manifestatosi improvvisamente. E da lì in poi, il
baratro più totale. È proprio vero: la vita è come un uragano che muta
improvvisamente direzione, travolgendo ogni cosa senza pietà. E
così aveva fatto con il mio cuore, il mio tempo, i miei sogni. E tu
non sei in grado di fare nulla, puoi solo restare a guardare le energie
che ti abbandonano e si spengono, come quelle di una batteria scarica.
Era da qualche mese che conoscevo la verità, ma ancora faticavo a
incassare il colpo. Ormai avevo cominciato il viavai in ospedale,
soprattutto perché mi ostinavo a giocare senza ridurre il tempo, quel
tempo che diventava sempre più un acerrimo nemico, il peggior
avversario in campo. Più era necessario diminuirlo, più ne desideravo
ancora.
Anche quella mattina ero all’ospedale. Entrato per una visita… e non
ancora uscito, da due giorni. La camera che mi avevano assegnato aveva
un’ampia finestra, costruita per attenuare la sensazione di prigionia
che ti dà lo stare chiuso fra quattro mura. Convinzione errata, a mio
avviso, perché, mostrare ad ampio raggio ciò che sta al di fuori,
contribuisce invece, a mio parere, ad accentuare il grigio senso di
isolamento del paziente. Inoltre, era una stanza singola, la mia
famiglia poteva permettersi di pagarla, non pensando, però, che ciò
avrebbe potuto alienarmi ancora di più. Il capitano della Musashi,
ormai disprezzato dagli stessi compagni di squadra, convinti che la sua
mancata partecipazione a partite e allenamenti fosse dovuta a un
eccesso di superbia: troppo bravo, per poter sprecare tempo con loro!
Che pensassero quello che volevano! Meglio essere creduti superbi, che
malati di cuore.
C’era anche un divano a due posti a rendere più accogliente
quella camera. Ma bastava chiudere gli occhi e inspirare a fondo per
accorgersi che l’aria aveva l’odore dell’alcool. Quella mattina ero lì,
in piedi e immobile davanti alla finestra, come se fissassi qualcosa
oltre il vetro, ma, in realtà, nulla laggiù attirava la mia attenzione,
che era rivolta a qualcos’ altro. Sollevai la mano avvicinandola alla
finestra, la sfiorai e feci poi una leggera pressione, lasciando infine
scivolare le dita lungo la mia immagine riflessa; un tocco
impercettibile, le dita che tremavano, quasi avessero il timore di
rompere quel vetro. Nell’osservare la mia figura, provai una sensazione
di freddo distacco. Possibile che del Jun Misugi di una volta,
rimanesse solamente un riflesso, quello di una carriera neanche
iniziata, eppure già finita?
Ero diventato… un campione di vetro?
Strinsi i pugni nervosamente, alzando lo sguardo sulla striscia di
cielo che s’intravedeva fra i palazzi.
“È una bella giornata, perché non usciamo in giardino a fare due
passi?” Yayoi apparve alle mie spalle con la delicatezza e la
discrezione di una figura angelica, ma nella sua voce c’era qualcosa di
forzato. Sapeva bene che non uscivo dalla camera dal giorno del
ricovero. “Il cielo è di un azzurro chiaro.” Sorrise ancora.
“No, non mi va…” Sibilai, continuando a fissare il cielo, che, ai miei
occhi, appariva piuttosto di un azzurro cupo.
“Dai, possiamo scendere comunque a prendere una boccata d’aria, magari
mangiamo una granita al chiosco qua sotto, le fanno buonissime!” Yayoi
cercava invano di strapparmi un sorriso. “No, non mi va.” Ribadii
duramente, freddando il suo entusiasmo. Dal riflesso, la vidi abbassare
lo sguardo e stringere le mani sulla gonna, sospirando amareggiata. Si
preoccupava molto per me e sapeva bene quanto stessi soffrendo. Oltre a
ciò, stava facendo di tutto per starmi vicino.
“Beh…” Dissi poi, voltandomi e abbozzando un sorriso. “Se ce l’hanno
all’arancia, la granita, la prendo volentieri!”
Yayoi sollevò gli occhi “Sì! Sì, che ce l’hanno!” Esclamò entusiasta,
mentre lasciava nuovamente spazio a un sorriso, più sincero rispetto a
quello di poco prima.
“Bene, allora andiamo!”
Lo facevo soprattutto per lei, non era giusto trascinarla con me nel
baratro.
Uscimmo dalla camera, ma, nell’istante in cui chiusi la porta alle
nostre spalle, sentii serpeggiare l’amara sensazione che, scomparso il
riflesso su quel vetro, del principe del calcio non sarebbe rimasto più
nulla.
Prendere una boccata d’aria fu un vero toccasana. Il delicato sapore di
arancia zuccherata aveva preso il posto di quello di plastica e
disinfettante che fino a pochi istanti prima avevo avvertito sulla
lingua, mentre il profumo di ciliegia della granita di Yayoi, rianimò
dolcemente l’olfatto. Camminammo un poco per il viale alberato
dell’ospedale, chiacchierando del più e del meno, come se stessimo
facendo una normalissima passeggiata, dimentichi del vero motivo per
cui ci trovavamo là. La voce di Yayoi era quella cristallina e gentile
di sempre, e anche la mia appariva rilassata. E, forse, in
quell’istante lo era davvero. Tuttavia, l’illusione di quei momenti
s’infranse nell’attimo in cui varcammo ancora una volta le porte
dell’ospedale, del nostro vociare era rimasto solo un lontano ricordo.
Io e Yayoi salimmo le scale in totale silenzio, con la testa abbassata
e l’animo rassegnato. Eravamo ancora chiusi nel nostro mutismo, quando,
raggiunto il piano per i degenti della cardiologia, notammo una certa
confusione nel corridoio: personale medico faceva avanti e indietro da
una delle camere prima della mia, mentre un uomo e una donna in abiti
tradizionali, probabilmente marito e moglie, attendevano sull’uscio,
guardandosi con aria incerta. Fui colpito soprattutto dallo sguardo
dell’uomo, che tentava di nascondere la sua apprensione dietro un
atteggiamento austero e inflessibile, ma tutt’altro che indifferente.
Avanzai al fianco di Yayoi, continuando a guardare avanti con totale
noncuranza: di solito evito di ficcare il naso nelle cose altrui, o
accalcarmi nella confusione, ma non potei esimermi dal bloccarmi sul
posto, quando udii delle grida capricciose provenire da quella camera:
“Non ci voglio stare qui, in mezzo ai cardiopatici!”
Chi diavolo sbraita in questo modo? Pensai. E in questi
termini!
“Ken-kun, non si lamenti! Siamo in un ospedale!” Quella doveva essere
la voce di un medico.
“Sì, ma io sono sanissimo, a parte la gamba, e sono giovane! Che ci
faccio in questo reparto?” Continuò quella voce insolente. Vidi i due
coniugi scambiarsi un’occhiata rassegnata seguita da un sospiro, quindi
voltai lentamente la testa per sbirciare dentro la camera, dove
continuava l’andirivieni del personale sanitario e, fra quelle figure,
intravidi un ragazzo sul letto, la cui gamba ingessata veniva sollevata
sul supporto dalle infermiere. Mi soffermai a guardarlo: aveva lunghi
capelli neri che gli cadevano sul viso e le spalle, ciocche ribelli,
come, probabilmente, lo era lui. Le maniche della camicia erano
rimboccate fino al gomito e lasciavano scoperte le braccia che notai
essere particolarmente muscolose. Di sicuro, avrei fissato
quell’immagine all’infinito, se il ragazzo in questione non si fosse
voltato, incrociando, in uno spiraglio fra i corpi, il suo sguardo con
il mio. Uno sguardo contrariato, e, in quel momento, un po’ irritato,
nel quale, però, lessi anche fierezza e determinazione.
Le stesse che vedevo riflesse nel vetro, negli occhi del principe
del calcio.
Levai fulmineo gli occhi, non riuscendo più a reggere quelli
dell’altro, anche se non avevo la certezza che stesse fissando proprio
me, né che mi avesse realmente notato in tutta quella confusione.
“Ah, sì, l’ho sentito stamattina…” Disse all’improvviso Yayoi,
sottovoce, mentre riprendevamo ad avanzare. Quanti secondi erano
passati? Avevo l’impressione che il tempo avesse ripreso a scorrere
solo adesso. “Il reparto d’ortopedia ha avuto problemi, non ho
capito bene se all’impianto elettrico o idrico… boh? Comunque: stanno
smistando i pazienti in altri reparti, come quel ragazzo! Era proprio
buffo!” Ridacchiò Yayoi. “Però anche poco rispettoso, mica si grida
così in ospedale!” Continuò lei, alzando l’indice con rimprovero.
Sorrisi, pensando che non aveva tutti i torti, ma pensai anche che quel
ragazzo mi suscitava simpatia. Tornammo in camera: di lì a poco
sarebbero arrivati i miei genitori e avrei iniziato la serie di analisi
previste per la giornata, mentre Yayoi sarebbe ritornata a casa, con la
promessa di avvicinarsi l’indomani, subito dopo la scuola. Quella
mattina l’aveva saltata per me, ma non poteva continuare ad assentarsi,
anche se a lei la cosa sembrava non importare, preferendo di gran lunga
starmi vicino.
“Ken è un giocatore di calcio, proprio come te.” Rispose il
dottore, mentre armeggiava con l’apparecchio per misurare la pressione.
Avevo approfittato della visita per chiedergli cosa ci facesse quel
ragazzo nella stanza accanto, e strappargli qualche informazione in
proposito. Ero stranamente curioso!
“Eh? Davvero?” Non riuscii a nascondere la sorpresa.
“Sì, precisamente un portiere, così mi ha detto il collega
d’ortopedia...” Spiegò il medico, stringendo la fascia nel braccio e
cominciando a pompare l’aria. “Si è ferito alla gamba per salvare un
cagnolino che stava per essere investito. Ammirevole, davvero…” Con un
sorriso, il dottore si alzò poi dalla sedia, rassicurandomi sui valori
della pressione.
… un giocatore di calcio. Un portiere. Non riuscivo a crederci, io e
quel ragazzo, anzi, io e Ken, eravamo più simili di quanto
pensassi.
Forse era per quello che avevo avvertito una sorta di magnetismo
nell’incrociare il suo sguardo?
“Ma… guarirà?” Domandai, apprensivo.
Il medico scrollò le spalle, esprimendosi con sincerità. “Certo che
guarirà, una gamba rotta guarisce, solo che ci vorrà tanto riposo e
tanta pazienza per farla tornare come prima. Quindi per un po’ di tempo
non potrà assolutamente fare sforzi. Il ragazzo era molto preoccupato,
soprattutto per sua la squadra. Ma in queste situazioni non bisogna
avere fretta, o si rischia di peggiorare le cose.” Terminò, con tono di
voce professionale.
Come pensavo. Le eliminatorie di distretto erano appena iniziate e le
squadre vincitrici avrebbero avuto l’accesso al campionato nazionale…
se lui era un portiere, sicuramente ora soffriva all’idea di essere
allettato e non poter aiutare la propria squadra. Lo capivo bene. I
miei compagni si allenavano ogni giorno, mentre io me ne stavo lì, in
quel letto d’ospedale, a intorpidire muscoli e mente.
Il dottore mi disse poi di seguirlo, doveva farmi un
elettrocardiogramma e un altro paio d’esami che allora mi sembravano
impronunciabili ma che ben presto avrei imparato a memoria. Fu molto
semplice uscire dalla stanza, tutto sembrava tranquillo, ma, non appena
mi trovai a pochi centimetri dalla porta della camera di quel ragazzo,
ebbi un sentore insolito e indietreggiai di un passo, fermandomi. Era
come se qualcosa m’impedisse di procedere: una forza simile a quella di
repulsione fra due magneti. Rimasi lì, inerme per brevi secondi, un po’
confuso, col cuore che batteva irregolarmente e scosso da una strana
carica d’energia. Il medico non si era accorto della mia esitazione e
stava per entrare nell’ambulatorio; dovevo muovermi prima che se ne
accorgesse. Feci un grosso, profondo, respiro e imposi alle gambe di
riprendere a camminare. Appoggiato il piede a terra, al primo passo, fu
come essere inghiottito da un potente campo magnetico, a cui cercai
invano di ribellarmi. Tutto il mio corpo era attratto da una forza
potente e avversa alla mia direzione, che infine mi sopraffece,
costringendomi a voltarmi piano verso l’interno della camera, a
scoprire quel ragazzo che osservava assorto la finestra, dalla quale
entravano i raggi del sole, quel giorno particolarmente luminoso. Nel
suo sguardo colsi un misto di malinconia e fierezza. Di sicuro, Ken si
stava proiettando oltre quella finestra, pensava ai compagni che si
allenavano sul campo con impegno e fatica, orfani del loro portiere. E
lui si vedeva lì, con loro, a difesa della porta, cercando di
mantenerla inviolata. Stava attento al pallone che sfrecciava fra i
piedi dei giocatori, pronto ad afferrarlo qualora si fosse avvicinato
minaccioso alla sua area, avvertiva le mani prudere e il sudore colare
dalle tempie. Le sensazioni che provava erano talmente vivide da
sembrare quasi vere.
Conoscevo bene quel tipo di immaginazione, purtroppo.
Poi, una scossa impercettibile, e il ragazzo sbatté più volte le
palpebre, stropicciandosi un po’ gli occhi abbagliati dal sole,
risvegliandosi da quel sogno ad occhi aperti per ricordarsi di essere
in ospedale, inerme sopra un letto. Nel tremore di quel corpo, scorsi
la frustrazione data del sentirsi impotenti.
Conoscevo anche quella, di sensazione.
Il ragazzo abbassò la testa, quindi fece un profondo sospiro, levando
lo sguardo dalla finestra, per rivolgerlo all’entrata, dov’ero io.
Nell’istante in cui mi accorsi di quel movimento, scostai gli occhi,
cercando di mantenere una sorta di distacco, nel tentativo di rendere
tutto qualcosa di casuale. I nostri sguardi
s’incrociarono per una manciata di secondi, che coincisero con il passo
che mi liberò da quello strano campo magnetico. Appena l’entrata della
camera fu alle mie spalle, abbassai gli occhi e cominciai a respirare
più velocemente, come se avessi fatto un enorme sforzo e continuai a
camminare in avanti a testa bassa, finendo per scontrarmi con qualcuno
che veniva dalla parte opposta.
“Jun…?” Mi sentii chiamare.
Alzai lo sguardo confuso. “Pa… papà!” Esclamai sorpreso.
Lo sforzo più grande in quel momento, fu cercare di mantenere una
parvenza di tranquillità e indifferenza agli occhi dei miei genitori
che, l’uno di fianco all’altro, mi guardavano perplessi, mentre
avvertivo le guance bruciare e l’agitazione cogliermi con irruenza,
come se fossi stato colto in flagrante sul luogo del misfatto.
“Come stai, tesoro?” Domandò mia madre, apprensiva, accarezzandomi una
guancia.
“Bene!” Sorrisi, con finta calma. “Stavo andando col dottore a fare
l’elettrocardiogramma!” Esclamai, ricordandomi improvvisamente cosa,
realmente, dovevo fare. Quindi avanzai, facendo loro cenno di seguirmi
nell’ambulatorio dove il medico attendeva.
Terminata la visita, mi avviai con papà e mamma verso la mia camera, ma
stavolta evitai di scrutare dentro quella di Ken. Fu davvero difficile
lottare contro il desiderio di guardarlo ancora una volta.
“Cerca di guarire in tempo per il Campionato Nazionale!”
Mi fermai improvvisamente, sentendo quelle parole.
“Ciao, tornerò a trovarti! Adesso devo andare a lavorare alla
bancarella!”
A quel punto mi voltai e vidi un ragazzo che usciva dalla camera di Ken
e si allontanava di corsa, sparendo oltre la porta del reparto. Non ero
riuscito a scorgere il suo viso perché era di spalle, ma di lui notai i
capelli scuri e la pelle abbronzata di chi sta molto sotto il sole,
forse a causa del lavoro. Con noncuranza ripresi a camminare,
raggiungendo in silenzio la mia stanza. Mi sedetti sul letto e
sprofondai nel materasso morbido, mamma e papà mi parlavano, ma avevo
la mente altrove.
Il campionato nazionale… quindi, anche lui e la sua squadra, vi
mirano.
I giorni seguenti furono un susseguirsi angosciante di visite e esami,
ma, fortunatamente, qualcosa mi distraeva. Quando ero costretto ad
attraversare il corridoio, ogni tanto gettavo lo sguardo dentro quella
camera: a volte Ken era intento a leggere una rivista, altre mangiava
quelli che mi sembravano wafer, altre ancora incrociava il mio sguardo,
osservandomi interrogativo. Fu per quest’ultimo motivo che, dopo
episodi simili, ritenendo di essermi esposto troppo, non ebbi più il
coraggio di lanciare occhiate al suo letto. Almeno durante il giorno.
Per questo aspettavo ansioso la sera, quando mi assopivo per qualche
ora, prima di svegliarmi nel cuore della notte. Allora mi alzavo
silenziosamente, attento a non fare alcun rumore, infilavo le morbide
pantofole e scacciavo i piccoli brividi di freddo sfregando le mani
sulle braccia. La stanza era buia, ma dalla porta filtrava la luce dei
deboli neon accesi nel corridoio. Rimanevo qualche secondo in piedi,
concentrandomi sui movimenti che udivo al di là della camera. Si sa,
durante la notte, i sensi si amplificano e sei in grado di cogliere ciò
che, durante il rumoroso giorno, non riesci a sentire. Pertanto, quando
i passi degli infermieri si affievolivano, afferravo una manciata di
yen e mi avviavo lentamente fuori dalla porta. Se avessi
accidentalmente incontrato qualcuno, avrei spiegato di starmi dirigendo
ai distributori automatici all’entrata del reparto, sorpreso da
un’improvvisa fame o sete. Mentre camminavo, avevo l’impressione che i
passi rimbombassero fra le pareti del corridoio, e così anche i battiti
del mio cuore, che avvertivo agitarsi e agitato. Tuttavia, nell’istante
in cui le mie gambe si fermavano, e il corpo si avvitava per voltarsi
in quella direzione, il respiro trattenuto il gola, improvvisamente
calava un pesante silenzio e il suono sembrava non essere mai esistito.
Ken era lì nel letto, addormentato. Spesso le lenzuola lo coprivano fin
sotto il torace, che era avvolto da un leggero pigiama di cui non
riuscivo a cogliere il colore, e teneva un braccio fuori, mollemente
appoggiato sul corpo, la gamba ingessata che s’intravedeva fra le
pieghe della coperta. E io stavo in piedi a contemplarlo, per il tempo
concessomi, prima che l’infermiera turnante cominciasse il giro
notturno. Era bello quel portiere, mi piaceva guardarlo. In quei
frangenti, i capelli ammantavano selvaggi il cuscino, confondendo il
loro colore nero con l’oscurità della notte; gli occhi chiusi, dal
taglio allungato, donavano una sorta di tocco delicato a quel volto che
durante il giorno si mostrava fiero e orgoglioso. Ma non per questo
poco gentile, anzi. Lo avevo visto sorridere, a quelli che dovevano
essere i suoi genitori. E mi era sembrato davvero dolce. Ogni tanto lo
avevo sognato. Sì, io e lui sul campo, a volte compagni di squadra,
altre rivali. E se la cavava bene come portiere, riusciva spesso a
parare i miei tiri e in quel caso sorrideva. Non sarcastico, ma
sinceramente felice e io lo ero per lui. Quando ripensavo a quei sogni,
mentre lo osservavo dormire, il cuore batteva forte: ero emozionato, ma
allo stesso tempo sereno. Gli unici istanti in cui stavo bene dentro
quell’ospedale. Non mi era mai capitata una cosa del genere, nemmeno
con Yayoi, per la quale rimasi a lungo convinto di provare un profondo
sentimento. Ma allora ero ancora un bambino, incapace di attribuire un
nome o di decifrare determinate sensazioni, perciò seguivo solo quello
che mi dettavano mente e corpo, senza troppe domande.
Infine arrivò quel giorno. Il cielo era grigio e il sole lottava dietro
le grosse nuvole, senza successo. Avvertii la pioggia imminente e in
quella sensazione vi fu una sorta di presagio. Fu Yayoi stessa a
comunicarmi la notizia, quando entrò in camera. “C’è movimento nella
stanza di quel ragazzo…” Esordì con un sorriso, dopo avermi salutato e
teso una busta contenente dei biscotti alla cannella fatti da sua
madre. “Pare lo stiano dimettendo!”
Non so neppure io come riuscii a non mostrare alcuna reazione,
mormorando un semplice “Ah, davvero?”, dietro il quale, invece, si
stavano nascondendo stupore e angoscia.
D’allora in poi sarei rimasto… solo, in quell’ospedale? Per quanto
tempo, ancora? Lui stava uscendo, fra breve avrebbe ripreso il
suo posto in squadra, mentre io…avrei più potuto giocare a calcio?
Queste furono le domande che mi porsi, nel guardare l’ingresso
dell’ospedale dalla finestra della mia camera: Ken veniva aiutato dal
padre a salire in macchina, aveva sempre la gamba ingessata, ma ben
presto sarebbe guarito. E per allora, anch’io sarei stato in grado di
giocare, lo promisi a me stesso, con forza. Non avrei rinunciato alla
mia passione per il calcio. Mai
Guarisci presto, portiere. Perché presto ci rivedremo in campo.
Poi l’auto si allontanò con un rumore morbido e nello stesso istante
cominciò a piovere. Il cielo si fece ancora più cupo, le gocce presero
a battere sulla finestra, prima lentamente, poi sempre più incalzanti,
scivolando copiose sul vetro. In esso, osservai ancora una volta la mia
immagine riflessa, notando la tristezza che dominava nello sguardo.
Sentivo solamente un’inquietudine irrefrenabile, un infinito senso di
vuoto. E non sapevo se qualcuno sarebbe mai stato in grado di colmarlo.
FINE
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