Useless Habit [Annoy you is a old game]
L’abitudine assuefa lentamente.
È una di quelle cose che ti si conficca a poco a poco fino
al centro del cervello, in silenzio. L’abitudine. Non si fa
quasi sentire mentre avanza con malagrazia ed avvizzisce tutto
ciò che tocca.
Grimmjow Jaegerjaquez spense l’ennesima sigaretta sotto i
piedi, poi si spostò dal muro dove era poggiato da pochi
minuti.
Il bordo del cassonetto come disastrato posacenere, la bettola alle sue
spalle ridotta ad un comodo poggia spalle ed i residui di una
disgustosa, ultima paglia a sporcargli le dita di cenere e carta.
Non era piacevole. Il ceruleo sapeva essere molto sincero con
sé stesso, quando non si trattava di trovare sciocchi
pretesti per ravvivare qualche litigio.
E la verità era che lui probabilmente detestava quei minuti
sprecati in strada, davvero, di un odio viscerale in grado di
insinuarsi fin dentro le ossa. E sapeva che anche ai suoi polmoni non
dovevano andare particolarmente a genio.
Si portò il mozzicone alle labbra e dopo aver sospirato il
fumo, fino a farlo entrare nella parte più profonda di
sé, lo gettò fuori, guardando fisso oltre la
strada.
Cercava ancora di ricordare che sensazione dovesse dare
l’aspro della nicotina sulla punta della lingua. Ma quello
oramai doveva essere un sapore lontano.
Un pregio dell’abitudine è anche questo, in fondo:
rende le cose così schifosamente banali che se non fosse per
il malato bisogno di assecondarla, probabilmente ci si ritroverebbe a
lasciarsele alle spalle ancora prima di rendersene conto.
Rovinate, graffiate e sgualcite, con i loro pregi ed i loro difetti.
Intrise di peccato o lerce di vecchi ricordi; l’ordinario non
vi bada più di tanto, alla fine dei conti.
Ciò che sembra contare per lui, che il demonio lo porti
via!, è cibarsene avidamente, spolparle fino alle ossa e
lasciare al loro posto una carcassa maleodorante che, a conclusione
dell’intera favola, si riassume nel monotono passare dei
giorni. Ordinari a loro volta.
E sporchi, fin dentro, di quell’assurda bestia che
è l’abitudine stessa.
- G… Grimmjow-kun… -
Che gioco malato.
Si era mangiato davvero ogni cosa, quell’ingrato nemico.
L’odio, il rancore, il risentimento.
Il fastidio, poi, aveva quasi dimenticato che sapore avesse.
Più ci pensava e più giungeva a conclusione che
oramai era un sentimento troppo lontano per essere più
riafferrato.
Il cameriere era piuttosto sicuro di questa sua conclusione.
O il borbottio umano, dai tratti perfino civili, con cui si scoprì ad
accogliere l’entrata di quella donna nel marciapiede
antistante il locale avrebbe perso la benché minima traccia
di sensatezza.
- Kurosaki-kun non riesce più a
trovare le chiavi di casa… -
- Notevole. -
Inoue Orihime era rimasta immobile sulla soglia del locale per una
discreta manciata di secondi, a fissare con un interesse definibile
quasi encomiabile la punta delle proprie scarpe e tormentandosi il
gomito sinistro con una mano.
Non si era spostata neanche nell’istante in cui il ceruleo
aveva svogliatamente mosso un passo nella sua direzione, al tintinnio
di qualcosa di indefinito nelle sue tasche.
- …mi chiedevo… se potessi restituirgliele. –
- Ti ha mandato lui a chiedermelo? Talmente inetto da nascondersi
dietro alla sottana di una donna? Tsk, dannato Kurosaki! -
- Veramente adesso è impegnato… in altro.
– precisò Orihime, lanciando un’occhiata
preoccupata all’interno sala, interno che Kurosaki Ichigo
stava per l’appunto scrupolosamente controllando, seppur in
maniera diversamente ortodossa.
- E’ convinto che sia stato un cliente a prenderle. Quindi,
sarebbe il caso che tu… le tornassi indietro, adesso. -
Un uomo corpulento attraversò l’ala sinistra del
locale in un unico, grande volo.
Alle sue spalle un ragazzo dinoccolato, da una folta capigliatura
rossiccia, si fece spazio fra due tavoli rovesciati, borbottando una
mezza imprecazione fra i denti.
Grimmjow trattenne a fatica un’espressione compiaciuta.
- Privandomi così del piacere di vederlo dannarsi
inutilmente? -
- Andando avanti di questo passo il capo lo licenzierà.
–
A quella precisazione, il cameriere dai capelli azzurri alzò
istintivamente il capo, stupito dall’improvvisa piega di
inattesa ovvietà che il discorso stava prendendo.
- Se… se qualche cliente non dovesse essere in grado di
andarsene sulle proprie gambe, credo… credo che Kenpachi-sama
sarà costretto a… ad allontanare Kurosaki-kun dal locale. –
fu l’impercettibile conclusione di Orihime.
E prima ancora che la donna riuscisse ad esporre le proprie ragioni,
con quel velo di sottile preoccupazione che come una seconda pelle
oramai accompagnava la sua voce, il ceruleo si scostò dal muro,
porgendole la sigaretta.
- Reggimela un attimo. - sbottò infastidito, dopo aver
affondato con malagrazia una prima mano nelle tasche.
Uno dei due motivi per cui Grimmjow Jaegerjaquez aveva accettato di
prestare servizio in quella bettola di periferia era stato per il
piacere, l’onore ed in parte perfino l’onere, di
avere l’esclusiva su di quell’inutile impiastro
arancio fosforescente.
L’altro per appurare di persona l’esatto numero di
denti che alla fine di ogni discussione fosse riuscito a fargli sputare
fuori a sangue.
A dieci, aveva avuto perfino una mezza idea di regalargli un buono
sconto per una cena per due persone.
- Qua. – esclamò quindi scocciato, facendo
sventolare davanti al viso della cameriera un mazzo di chiavi
disgustosamente arancio, con una discutibile fragola rossa intenta a
dar fiera mostra di sé al centro.
- Su come lo hai ritrovato puoi dirgli quello che vuoi. Non mi importa. -
A quelle parole le labbra di Inoue non poterono fare a meno di
sciogliersi in un sorriso gentile, uno di quelli in grado di far venire
il diabete cronico perfino ad un salutista convinto.
- Grazie… Grimmjow-san. – cinguettò
entusiasta, spalancando la porta del locale e - non senza essersi prima
scostata dalla traiettoria di uno sgabello - raggiungendo subito dopo
l’uomo dai capelli arancioni.
Grimmjow annuì a malapena con il capo, accendendosi l’ultima
sigaretta della serata con un gesto svogliato della mano e
riappoggiandosi alla parete.
- Piacere mio. – si limitò a mugugnare, facendo
scivolare fra le dita un’ultima chiave, anch’essa
di un curioso arancio elettrico, ed insolitamente simile a quella del motorino di
Kurosaki Ichigo.
L’abitudine, del resto, è una di quelle cose che
assuefa lentamente.
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