Elizabeth aveva un
cugino.
Si chiama Ciel Phantomhive ed è il suo promesso sposo. E non
avrebbe potuto essere stata più fortunata, perché
lei di quel bambino adorava ogni minimo particolare.
Adorava il sorriso sereno che aleggiava costantemente sulle sue labbra,
la sfumatura affettuosa che tingeva la sua voce quando la chiamava per
giocare insieme, il calore delle sue braccia che la stringevano per
confortarla quando piangeva.
Le loro risate seguitano ad echeggiare nei corridoi di casa
Phantomhive, sebbene sembri che ormai Elizabeth sia l’unica
ad udirle e a cercare con gli occhi gli spettri di quei due bambini che
si rincorrevano nelle stanze della magione.
Inizialmente, talvolta domandava a Ciel se anche lui riusciva a sentire
quelle risa intrise d’un’allegria che è
svanita da tanto tempo, ma il conte si limitava a scuotere la testa e a
rimproverarle la sua eccessiva fantasia.
Infine, lei ha smesso di chiedere e, per quanto continui ad adorare il
suo fidanzato, le dispiace che abbia dimenticato come si sorride.
Elizabeth aveva una zia.
Ricorda il suo nome di battesimo, Angelina Durless, soltanto se lo vede
scolpito sulla sua lapide bianca. Parimenti chiunque altro la
conosceva, l’ha sempre chiamata Madame Red.
Le piaceva, sua zia. Le piaceva il velo di rosso che adornava ogni suo
più insignificante dettaglio – le labbra carnose,
che la ragazzina aveva sempre pensato dovessero essere infinitamente
dolci, al pari dei sorrisi nei quali si incurvavano, gli occhi gentili
eppure un poco malinconici, i capelli e gli abiti, l’
anima –,
la sua mania di scompigliarle la frangia bionda quando andava a
trovarla, le sue battute che la facevano ridere – sebbene
fosse ancora giovane per comprenderne appieno il significato
–, mentre sua madre inarcava un sopracciglio.
Elizabeth non lo sa, come Angelina sia morta, e, per quanto
l’abbia chiesto a Ciel, lui non ha mai voluto risponderle
– eppure lei glielo legge negli occhi, che nasconde la
verità.
E questi suoi silenzi ostinati, accompagnati dalla dura concretezza
della tomba che la giovane Middleford va spesso a trovare, le
impediscono di credere che Madame Red, dal luogo
dov’è ora, vegli su di loro –
quello è solo un sogno.
Poi, c’erano lo zio e la zia Phantomhive.
Nella sua mente, una fitta foschia avvolge i loro volti, che
sbiadiscono come inchiostro lavato via da uno schizzo d’acqua.
Vorrebbe poter ricordare meglio le loro voci calde, il sorriso dolce
della zia ed il portamento elegante dello zio che suo cugino ha
ereditato – Ciel, tuttavia, non vuole i loro ritratti in
casa, dunque lei può affidarsi soltanto alle proprie vaghe
reminescenze.
Elizabeth aveva una famiglia.
Era numerosa e vivace, ma il fuoco ha divorato la maggior parte dei
suoi componenti e bruciato il sorriso dei pochi rimasti.
Ogni tanto le capita di sognare la dimora dei Phantomhive avvolta dalle
fiamme e non comprende come Ciel sia capace di non piangere mai e di
circondarsi di gente simile a quella che vede quasi alloggiare, ormai,
nei corridoi della magione.
Non le piace il fuoco e forse è per questo motivo che non le
piacciono nemmeno le persone che adesso hanno sostituito gli zii nella
vita di Ciel.
Non le piace l’uomo che spesso si intrattiene con suo cugino,
quello con gli occhi dalla bizzarra forma allungata che sembrano
costantemente chiusi – non le piace il fetore di fumo che
emana –; non le piace l’eccentrico becchino che a
volte il suo promesso sposo va a trovare, quello con i capelli lunghi
ed il cappello strano che gli nascondono il viso – non le
piacciono le candele d’incenso che è solito
accendere nella sua dimora –; e non le piace molto neanche il
maggiordomo, con quei suoi vestiti sempre tutti neri e
nient’affatto carini – non le piacciono le sue
iridi scarlatte, che sembrano racchiudere le fiamme
dell’Inferno.
Si chiede per quale motivo Ciel voglia tenersi stretto al petto quello
stesso fuoco che ha strappato loro tutto ciò che avevano
quando, senza che suo cugino lo venga a sapere, si ritira in soffitta e
contempla i quadri ingrigiti di ragnatele e scoloriti a causa
dell’incuria, in una mera illusione della famiglia che erano.
Eppure, riflette, a lei piace il cuoco mentalmente instabile
– malgrado la sua malsana passione per il fuoco –,
le piace la domestica con gli occhiali rotti che fa sempre a pezzi
l’argenteria – nonostante i suoi capelli della
tinta scarlatta delle fiamme –, le piace il giardiniere che
evidentemente ha frainteso i suoi compiti, dal momento che
anziché prendersi cura del cortile lo distrugge –
sebbene la sua forza le ricordi l’enorme potere del fuoco
– e le piace quel bizzarro omino dai capelli grigi e la
risata simpatica – benché il the fumante che ha
costantemente fra le mani le riporti alla mente la nera coltre di fumo
che l’incendio esalava.
In fondo anche lei, parimenti il suo promesso sposo, è
inesorabilmente attratta dalle fiamme.
Ed infine lo capisce, il bisogno di Ciel d’essere a contatto
con quegli uomini, perché è il medesimo che la
spinge a vestire i domestici d’indumenti graziosi
ogniqualvolta va a visitare il cugino. Se una famiglia numerosa ed
unita com’era la loro viene brutalmente divisa, i frammenti
che restano vanno in cerca d’un’altra che le si
accosti il più possibile.
Elizabeth conta sulle dita i membri della famiglia Phantomhive presenti
prima dell’incendio, li sottrae a quanti ne sono morti ed
ottiene quanti ne sono rimasti.
Per un istante osserva l’indice, il medio e
l’anulare ancora sollevati – se stessa, il suo
fidanzato e sua madre – e si stringe nelle spalle nel
ricordare il gelo che annebbiava la magione vuota e cupa ed i loro
cuori in seguito alla ricostruzione, poi aggiunge chi si è
unito alla casata nel corso degli anni.
-Che cosa stai facendo, Elizabeth?- domanda Ciel
nell’inclinare il capo da un lato, scrutandola con le mani
intrecciate sul ginocchio accavallato sulla gamba gemella.
-Lizzy, Ciel caro.- lo corregge. -Te lo dico sempre, che devi chiamarmi
soltanto Lizzy-.
-D’accordo,
Lizzy.-
sbuffa il conte, inarcando un sopracciglio in un’espressione
esasperata. -Hai intenzione di muovere? Ormai sono dieci minuti che
attendo: di norma avresti già oltrepassato il tempo limite
ed il turno passerebbe a me-.
-Ma Ciel, non potremmo non fare scacco matto?- chiede la ragazzina in
tono speranzoso.
Il cugino ricambia il suo sguardo intriso d’aspettativa e
porta con lentezza una mano alla fronte, scuotendo la testa. -E come
pensi che uno di noi possa vincere, se nessuno farà scacco
matto?-.
-Non dovremmo distruggere ciò che abbiamo.- commenta
Elizabeth, assorta, chinandosi sulla scacchiera ed indicandogli una per
una le pedine rimaste in gioco. -Non adesso che abbiamo ricostruito una
famiglia anche più ampia di prima. Vedi? Ci sono Bard,
Maylene, Finian, il signor Tanaka, Sebastian,
quell’uomo… come, ehm, si chiama…?
Ecco, il signor Lau! E il becchino, mia madre, e poi io e te.-
conclude, mostrandogli il re nero e la regina bianca.
-L’ultimo scacco matto ci ha portato via gli altri e non
dovremmo permettergli di farlo una seconda volta, non pensi?-.
Talvolta Ciel non capisce la logica infantile della sua fidanzata
– in particolar modo la sua totale inettitudine per il gioco
degli scacchi.
Ora, tuttavia, ha compreso e vede nei suoi occhi verdi il riflesso di
quel che erano un tempo – con i suoi genitori, Madame Red,
zia Frances e loro due da bambini, quando lui sapeva ancora ridere
–, ciò che il fuoco ed il sangue li hanno
costretti ad essere – con se stesso, Elizabeth e zia Frances
in un qualche modo separati da una parete di dolore che, al contrario,
avrebbe dovuto unirli – ed infine quanto erano divenuti
– con le persone che avevano conosciuto e che, poco a poco,
avevano iniziato a considerare una nuova famiglia.
-Fa’ come ti pare.- borbotta poi, agitando una mano con
indifferenza.
Ed Elizabeth sorride, avvicinando l’una all’altra
le pedine bianche e nere.
In realtà,
questa one-shot - ispirata al proverbio cinese sotto il titolo -
l'avevo scritta un po' di tempo fa. Ultimamente l'ho ripresa, l'ho
riguardata, ho pensato che in fondo mi piaceva e volevo pubblicarla
nella speranza che potesse piacere a qualcun altro.
Fondamentalmente ha una struttura semplice, in quanto Elizabeth
è innocente quanto una bambina, ed al tempo stesso
complessa, perché le circostanze l'hanno costretta a
diventare l'adulta che ancora non è.
Un piccolo particolare: non ho fatto confusione con i tempi verbali.
Semplicemente, quando uso il passato remoto/prossimo e non il presente
significa che quella cosa non c'è più. Come, ad
esempio, all'inizio, dov'è è scritto che
Elizabeth adorava questo e quello di Ciel. Ho scritto adorava e non adora
perché sono tutte azioni - sorridere, abbracciare, giocare,
ridere - che il conte compiva prima
dell'incendio e che dunque, adesso, non ci sono
più.
In ultimo, se mai apriranno questa pagina, vorrei ringraziare steste e Globulo Rosso per le
loro recensioni a Would
you kiss me?: ne sono stata molto felice <3.
Onore a Elizabeth, uno degli unici personaggi femminili che non mi
stanno sui cosiddetti! *_*7
Chu.