Salve!
Ritorno dopo taanto tempo sul fandom di KuroShitsuji
per proporvi una piccola cosa senza troppe pretese. E’ una
Sebastian/Ciel of
course, ovviamente introspettiva e ovviamente malinconica. Forse un
po’
inquietante? Non so. *gratt*
I commenti sono il bene, ricordate. XD
Dedicata a Giulia
solo per vederla arrabbiarsi, perché mi deve dedicare ancora
troppe storie per pareggiare i conti. *king*
Red.
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Ogni spina, ogni rosa, ogni
goccia di sangue.
Mani
scarlatte e sanguigne a reggere il gambo delicato, ma
spinoso, di una rosa bianca, un sorriso appena accennato che sembra
urlare,
sussurrando, parole proibite di mondi lontani.
Ridono
anche gli occhi del perfettissimo maggiordomo, un’ironia
velata dietro i suoi gesti, una cura spasmodica nel togliere ogni
singola spina
da quel gambo così fragile; ogni singola spina, anche la
più piccola, ogni ostacolo
deve essere rimosso, il suo lavoro fatto con dovizia.
Le
mani sono bianche, ma mai menzogna fu più grande, le sue
mani grondano sangue, rosso e viscoso, che trasuda dai pori della sua
pelle,
pelle che lo rigetta ormai satura e quasi disgustata.
Ogni singola spina,
ogni singola spina.
Il
gesto elegante del braccio fasciato di nero posiziona la
rosa con grazia e maestria, poi ne prende un’altra e
un’altra ancora –
insaziabile.
Un gambo così fragile,
una rosa bianca così bella.
Gocciola
e scivola via, il sangue secco e quello ancora
fresco, a ricordar storie passate e promesse future, un rumore ritmico
e
assordante quello delle gocce che indugiano tra le dita attardandosi un
poco –
solo un poco – sulla punta, oscillando appena, per poi cadere
in un milione di
gocce.
Ma le mani sono
bianche, non vedi? Che
grande menzogna,
che stupida recita.
“Sebastian.”
È
un ordine, è una richiesta e un urlo al tempo stesso, una
preghiera o semplicemente un nome: un nome finto.
Dov’è la verità?
Dov’è?
È
morta,
l’hai uccisa tu.
“Sì,
Bocchan?
Una
semplice domanda, un ringhio ben celato, la rosa ancora
in mano e il sangue tra le dita.
“Vieni
qui.”
Sorride
apertamente posizionando la rosa e finendo la
composizione.
Si
avvicina al conte bambino e lo aiuta a vestirsi
sorridendo cortese, le mani bianche ad accarezzare la stoffa blu
stirando ogni
piega – tutte, tutte –sistemando gli stivali e
porgendo il bastone.
Quel
corpo chiaro sotto le sue dita [false] è di cera,
arrendevole e bruciato al tempo stesso,
schiavo dell’abitudine
come poco
cose; e non dice più nulla, Ciel, quando le mani su di lui
si soffermano più
del dovuto sul collo e sul petto, passando lente, livellando
asperità
invisibili di una pelle martoriata.
Un
ultimo sguardo alla stanza, un sopracciglio che si alza.
“Sebastian,
quella rosa non era forse bianca?”
Il
maggiordomo che china la testa, una mano sul petto [vuoto?].
“Dev’essersi
sbagliato signorino,” arrendevole come cera,
“quella
rosa è sempre stata rossa.” Sorride non visto,
bagliore di denti [bianchi] e di
occhi [vermigli].
Il
conte che lo osserva dubbioso, il maggiordomo che sorride
beato. La porta che si apre e richiude.
Il
ritmico picchiettare di dolore e peccato, sul pavimento
lastricato di vuoto e rancore.
Ogni rosa, ogni spina,
ogni goccia di sangue, ogni rimpianto, ogni sorriso e ancora, ancora.
Così
fragile, cera tra le dita sporche di vermiglio, quella
rosa è sempre stata rossa ma le mani sono bianche, non vedi?
Ogni
spina, ogni rosa,
ogni goccia di sangue
e ancora, ancora…
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