Prologo:
Ogni
persona nasce, o almeno, così dovrebbe, dall’amore di due persone. E se non
dall’amore, almeno dall’unione di due corpi.
Ogni persona ha una madre e un padre.
Tranne me.
Io sono stata creata dal potere dei nostri dei.
I Vala.
Di terra è fatto il mio corpo.
Di acqua il mio sangue.
Il vento è il mio respiro.
Che cosa sono?
Non mortale.
Non della razza dei nani.
Non sono un elfo, anche se è questo il mio aspetto.
Una Maiar?
Forse.
Che importanza avrà?
Non sono venuta al mondo per questo.
Io devo solo combattere quanti si ribellano al disegno di
luce dei Valar. Non importa da chi sia rappresentato. Che siano orchi, goblin,
troll, balrog o Sauron o Morgoth in persona… per me non fa differenza. La morte
per me non ha alcuna importanza. Nemmeno la mia vita ne ha, ad essere sincera.
L’unica cosa che conta, è la mia missione.
L’hanno affidata a me e ora null’altro deve contare.
Mi è stato detto di non avere sentimenti.
Ne gioia.
Ne tristezza.
Sono solo una bambola assassina.
Solo questo.
Sono
andata avanti così per secoli, guardando il mondo cambiare senza che
m’importasse nulla.
E avrei potuto andare avanti così per sempre.
Se solo non avessi incontrato lui.
Se solo i miei occhi non avessero incontrato i suoi.
Quegli specchi di ghiaccio dove brillavano le stelle che gli
davano il nome.
Quegli specchi che mi avevano rubato l’anima e il cuore.
Avevo creduto di essere immune all’amore e alla passione.
L’avevo creduto per secoli e millenni.
E poi, dovetti ammettere, che quello che mi batteva in petto
era pur sempre il cuore di una donna.
Per la prima volta nella mia lunga, millenaria esistenza,
desiderai di vivere.
Volevo vivere per stare con lui.
E per la prima volta, la mia missione non mi parve più
solamente fine a sé stessa.
Per quanto fosse un desiderio utopistico, desiderai di
portare a termine la mia missione.
Per vivere per sempre in pace. Con lui.
Mai come allora, il mio compito mi parve così importante.
Combattevo ancora.
E lo facevo per amore.
Cap. 1: Il principe e la bambola.
Dodici.
Mi ero trovata in situazioni peggiori.
Anche migliori in verità, ma non ero in vena di
sottilizzare.
Dodici orchi.
Non particolarmente grossi e con l’aria di essere degli
sbandati. Ma avevano l’aria di saper essere scaltri. Ed erano armati fino ai
denti!
Non che costituisse uno svantaggio così netto.
La mia alabarda, Helkaluin, sembrava incutere loro un certo
terrore e sulle spalle, sentivo il peso rassicurante della Claymore*, nel
remoto caso in cui avessi dovuto perdere la mia prima arma.
Mi accerchiarono.
Restai rilassata, concedendomi un sorriso: non c’era motivo
di preoccuparsi.
Uno di loro scattò verso di me, brandendo una specie di
ascia ricurva e mirando al mio fianco. Lo bloccai, parando la lama tra le punte
dell’alabarda. Voltai appena il capo a guardarlo, schifata.
“Tutto qui?” domandai, deridendolo.
“Mai distrarsi!” un altro mi attaccò da dietro. Era un
grosso capo orco con una catena di denti umani al collo. Ornamento di pessimo
gusto! Schivai. La sua mazza colpì il terreno facendo schizzare zolle di terra
dal punto dove mi trovavo solo un istante prima. Atterrai in piedi,
molleggiando le gambe qualche metro più in là, al di fuori del cerchio. Scattai
di nuovo verso di loro. La mia alabarda si bagnò del sangue di altri due orchi.
Gli altri mi si avventarono contro.
Parai, nonostante cercassero di colpirmi da ogni parte.
Passai al contrattacco.
Furono tra gli istanti più frenetici e brutali che avessi
dovuto affrontare fino a quel momento. In sincerità, non riesco più a ricordare
bene quel che successe, fatto sta, che dopo alcuni minuti di macabro
combattimento, gli orchi da dodici erano arrivati a cinque. Ed io ero ferita
alla spalla. Una cosina leggera, quasi da nulla, ma era bastata perché
cominciassi ad alterarmi!
E questo Non è una buona cosa: mai lasciarsi prendere dalle
emozioni durante una lotta.
Di nuovo un attacco alle spalle. Solo che questa volta non
fui così attenta. Ne così veloce. Persi l’equilibrio e caddi a terra, rotolando
su me stessa per allontanarmi.
Mi raggiunsero, ma riuscii comunque ad allontanarmi da loro.
Un’ombra al mio fianco.
Mi voltai appena in tempo.
Il loro capo calò l’ascia su di me. Alzai l’alabarda per
parare il colpo. La sua ascia s’incastrò tra i denti di Helkaluin, facendo
stridere il metallo. Sentii la forza del colpo farmi tremare il braccio. L’orco
approfittò della mia debolezza per strapparmi l’alabarda dalle mani.
Balzai indietro per non dargli modo di attaccare mentre ero
disarmata.
Un altro pensò di approfittarsene attaccandomi alle spalle.
Mi voltai estraendo claymore. Un istante dopo, l’orco non aveva più il braccio,
e l’istante successivo, le sue gambe non erano più attaccate al torso. Il
sangue m’impiastricciò il volto e gli abiti. Lo lasciai lì, morente. Parai
l’attacco di un altro ma mi presero tra due fuochi, scivolai via e li attaccai
da dietro. Le loro teste furono spiccate dal collo e rotolarono lontano. Ne
restavano due.
Uno di loro fece per fuggire, nascondendosi nella vicina
boscaglia. Lanciai la spada e lo colpii alla schiena, trafiggendolo da parte a
parte. Mi tuffai a recuperare l’alabarda mentre il più grosso mi si avventava
contro. L’afferrai e, a terra, respinsi il suo corpo. Mi rifeci avanti con un
urlo e le nostre armi si scontrarono di nuovo, generando una pioggia di
scintille.
Restammo per un attimo immobili, le nostre forze
perfettamente uguali, in precario equilibrio. Scattai a destra e lo colpii al
fianco. La sua ascia quasi mi spiccò la testa. Liberai Helkaluin con un sordo
risucchio e lo colpii di taglio sul gomito, movendomi rapida.
La sua ascia cadde con un tonfo sordo insieme a una metà del
suo braccio. Mugghiò di dolore e rabbia ed estrasse un lungo coltello,
avventandosi contro di me, accecato dalla collera, caricandomi a testa bassa.
Sentii il pugnale entrarmi nelle carni, trafiggendomi il
ventre, mentre Helkaluin lo passava da parte a parte.
Sentii il terreno mancarmi sotto ai piedi. Trascinati dalla
foga del mostro, cademmo entrambi. Giù dalla scogliera. Per un tempo che parve
incredibilmente lungo. Sentii per un interminabile istante il rumore della
risacca confuso con quello del vento che ci infuriava intorno, al momento della
caduta. Vidi il terreno sabbioso venirci incontro a incredibile velocità e
rocce scure spuntare come ghignanti denti aguzzi qua e là. Non urlai neppure.
Musica…
C’era della musica…
Ero forse tornata alla corte degli Ainur?
Sentivo la testa pulsare in modo sordo, mentre il mio corpo
giaceva abbandonato, dolorante e indolenzito. Sentivo su tutto il corpo,
specialmente sulla schiena, lividi e graffi. Mi costrinsi ad aprire gli occhi.
< Ben svegliata, ragazza. > Voltai la testa,
nonostante le fitte di dolore. Cercai di parlare ma il dolore mi avvolse e le
parole morirono in gola. L’elfo cominciò a pestare delle erbe in un mortaio,
senza apparentemente badare più a me. Portava una tunica chiara e i suoi
capelli biondi erano pettinati secondo la maniera dei guaritori. Tentai di
alzarmi a sedere ma, con un gemito, ricaddi sui cuscini. < Non affaticatevi.
Restate sdraiata. > Si voltò appena verso di me. Aveva gli occhi verdi e
un’incredibile austerità nello sguardo e nei lineamenti duri e sottili. < Il
mio nome è Ormal e sono guaritore alla corte di Sire Gil-Galad, a Falas, dove
vi trovate ora. > Disse, quasi in risposta alle mie domande. Mise le erbe a
bollire e tornò verso di me. Alzò il lenzuolo che mi copriva, rivelando il mio
corpo nudo. La ferita sulla pancia era stata pulita e bendata. Svolse le bende
e la esaminò, poi andò verso un piccolo, basso armadio con le ante di vetro ed
estrasse una ciotola con dentro delle erbe sminuzzate. Spalmò la pomata sulla
mia ferita e rifece la bendatura, in silenzio.
< Come… > Cominciai. La mia voce tremava mentre
parlavo e non riuscii a terminare la frase. < Sono stato io a portarvi qui.
> Mi voltai verso l’origine della voce. Un altro elfo entrò nella stanza.
Aveva lunghi capelli d’ebano, neri e lucenti, che scendevano
sciolti sulle sue spalle e lungo la schiena, arrivando fino a metà. Due occhi
argentati brillavano sul suo viso affusolato, severi e curiosi, orgogliosi ma
anche con qualcosa di… canzonante. Come se si burlassero di chi li osservava,
in quella loro forma sottile e leggermente allungata verso l’alto.
Le sue labbra sottili si aprirono in un quieto sorriso
mentre mi fissava. Chinò appena la testa in un cenno di saluto, facendo
scintillare alla luce solare la sua corona d’argento e mithril, cinta attorno
al suo capo con complicati arabeschi. Era vestito interamente di blu e l’orlo e
il collo della sua blusa erano ricamati d’argento con un motivo a foglie
stilizzate.
Mi resi conto di essere nuda. Ormal si affrettò a ricoprirmi
ma non abbastanza in fretta da impedire al nuovo arrivato un’occhiata quasi
cupida. < Non dovreste essere qui, altezza… > Borbottò. Quello sorrise.
Un sorriso derisorio che avrei rivisto molte altre volte. < Volevo solo
conoscere meglio la nostra ospite… > Chinò ancora il capo, portando la mano
al cuore, in un inchino forse troppo esagerato, che però mi fece sorridere.
< Ereinion Gil-Galad, al vostro servizio. Posso sapere il vostro nome? >
pronunciò, una nota scherzosa nella voce. < Ghiliat… > Risposi
semplicemente.
Lui annuì, pensoso, mentre Ormal borbottava una sorta di
rimbrotto. Il principe, o re, ancora non sapevo, non sembrò curarsene
particolarmente, limitandosi ad osservarmi. Mi metteva quasi a disagio:
sembrava che tutta la sua attenzione fosse concentrata su di me. L’unica
attenzione a cui ero abituata, era quella che avevo dai miei avversari durante
un combattimento! Ma questo era diverso. Sembrava più che altro incuriosito.
< Ebbene Ghiliat, consideratevi pure mia ospite per tutto il tempo che
vorrete. >
Gil-Galad mi rivolse un ultimo sorriso prima di uscire,
chiudendosi la porta alle spalle.
Rimasi a lungo ad osservare quella porta. Poi mi riadagiai
sui cuscini, esausta, lasciando che i miei sogni si confondessero con la
realtà, concedendomi riposo.
I giorni
passarono, mentre le mie ferite guarivano con una velocità sorprendente, anche
per gli elfi. Presto potei lasciare il mio letto per qualche solitaria
passeggiata nei giardini, o fino alla spiaggia, quando mi sentivo più in forze.
Per la prima volta nella mia lunga vita, assaporai il sapore
della pace. Una pace fragile e illusoria. Effimera. Ma pur sempre pace.
Per tutto il tempo che ci misi a guarire, Gil-Galad rimase
con me. Non seppi spiegarmi il perché del suo gesto, ma mi piaceva la sua
compagnia. Era un guerriero ma anche una persona colta e un vero mago delle
erbe! Un esperto di epica. Parlare con lui era un toccasana per il corpo e per
la mente.
Le mie armi erano state recuperate, ma per i primi giorni,
non osai neppure pensare di servirmene. Non sarei neppure riuscita a tenerle in
mano. Poi, un giorno, mi alzai dal mio giaciglio e andai allo specchio.
La ferita sulla pancia non era diventata altro che un’altra
delle mie tante cicatrici. Anzi, era quasi invisibile. Recuperai i miei abiti e
la mia armatura da una cassapanca e mi rivestii in fretta. Claymore e Helkaluin
erano appoggiate a una rastrelliera di legno. Le raccolsi e le incrociai
entrambe sulla schiena, stringendo le cinghie.
Osservai la mia immagine riflessa. Il mio corpo sottile,
quasi affusolato, abbandonato dalle sete che in quei giorni mi avvolgevano, di
nuovo abbracciato dai caldi e logori abiti da viaggio, lisi dalle intemperie,
dagli stinti colori del verde e del bruno. Le mie gambe erano fasciate da nuovi
stivali. Camoscio. Stretti al polpaccio, che salivano fino alle ginocchia. Non
avevo più un mantello. Il mio era lacero dopo la caduta e non ero riuscita a
trovare nulla che potesse sostituirlo. Infilai i bracciali e la cotta. Mi
voltai per uscire.
< Te ne vai,
Ghiliat? > Gil Galad stava ritto davanti alla porta, bloccandomi il
passaggio. < Pensavi di andartene così? Alle prime luci dell’alba? >
Entrò nella stanza e mi passò accanto, andando a un tavolino e fissandosi del
vino in una coppa. Sorseggiò piano la bevanda. Rimasi immobile, in silenzio,
senza approfittarne per uscire, evitando domande e spiegazioni. Non avevo
programmato di salutarlo o cosa, ma in quel momento, mi sentii indegna nel fare
una cosa del genere. Mi guardò da sopra il calice, incrociando i suoi occhi
d’argento coi miei, di tempesta. Pensai fosse un congedo: non ero pratica di
saluti. Mi voltai. < Discreta e silenziosa… come una ladra, si potrebbe
dire. > < Si potrebbe dire. >
Replicai, semplicemente. Non capii se mi stesse deridendo, come alle volte
faceva, o se il suo fosse un insulto velato, nato dal mio comportamento. <
Dove andrai, ora? > Chiese ad un tratto. < Al nord. Verso Mordor.
Qualcosa si sta movendo da quelle parti. E io devo scoprire cosa. > Risposi.
La mia voce suonò dura. Decisa. Quasi arrogante. < Perché devi? > La
semplicità della domanda mi spiazzò. < È la mia missione. > Mi guardò
interrogativo, ma non fece domande. Rimasi immobile per un istante, giusto per
assicurarmi che la conversazione fosse finita. < Tornerai? > < Non lo
so. È improbabile. Quasi certamente, questo sarà un addio. > Sorrise,
fissandomi enigmatico. < Allora mi aggrapperò a quel quasi. > Si avvicinò
a me e mi fece voltare, in modo da potermi guardare in faccia. Lentamente, mi
si avvicinò. Le sue labbra sfiorarono le mie. Un bacio a labbra chiuse. Si
allontanò. < Ci rivedremo, Ghiliat. Non so perché, ma ho la sensazione che
le nostre strade si incroceranno ancora, prima che quest’era giunga alla fine. >
Non riuscii a staccare i miei occhi dai suoi. Il suo viso. Le sue mani. Le sue
labbra… < Prendi Alata. È un ottimo cavallo. Ti condurrà bene e velocemente,
ovunque tu voglia andare. >
Mi superò, uscendo dalla stanza. I suoi passi leggeri si
persero presto lungo il corridoio deserto.
Lasciai
Falas mentre il sole sorgeva ad est.
Non mi voltai indietro, lasciandomi alle spalle il porto e
il mare. La campagna scorreva sotto gli zoccoli del mio nuovo cavallo, un
animale meraviglioso, candido come la neve e dai liquidi e vivaci occhi neri.
Divorava le miglia sotto i suoi zoccoli, allontanandoci sempre più. Sarebbe
trascorso molto tempo prima che rivedessi quel posto. E ancora più tempo
sarebbe passato perché rivedessi Galad. Ma non era importante in quel momento. Ero
concentrata sul mio obbiettivo e null’altro aveva importanza in quel momento.
Il vento mi fischiava nelle orecchie, turbinando per la
velocità.