Entrò nella mia stanza guardandosi intorno.
Ero nervoso; era la prima persona che penetrava così direttamente
nella mia intimità. Lì dentro c'era tutta la mia vita, i ricordi, gli anni
accumulati in libri, musica e souvenirs di un passato lontano.
Cos'avrebbe pensato nell'entrare in una stanza che sembrava un
museo, tale era l'accozzaglia di oggetti e di stili diversi?
Cosa le avrebbero raccontato tutti quei frammenti di passato?
Non ne avevo idea ma mi sentivo sotto esame; per la prima volta
nella mia vita immortale ero in balìa del giudizio di un essere umano.
La guardai mentre esaminava ogni particolare, fermandosi di tanto in
tanto assorta davanti a qualcosa che la incuriosiva. Era meravigliata,
non vedeva un letto in quella stanza, me lo disse.
Le rivelai che non dormivo mai e reagì come se le avessi appena
parlato di una cosa qualunque; chissà se ostentava indifferenza o
aveva semplicemente accettato qualcosa che per chiunque sarebbe
stato assurdo? Non lo capivo. Cercavo di tradurre ogni suo
movimento, ogni suo sguardo ma mi sentivo spaesato.
Quando si avvicinò allo stereo sentiì crescere un terribile imbarazzo.
Ascoltavo ogni tipo di musica ma senza dubbio la mia preferita era la
classica, Debussy in particolare. Un genere che mal si addiceva
all'adolescente che interpretavo da oltre un secolo.
Mi sentiì inadeguato e smascherato, come se cercassi di appartenere
ad una vita che non era la mia, come se rubassi.
Potevo far parte del suo mondo se oltre la maschera si celava un
vecchio centenario dai gusti fermi al secolo scorso?
Avrei dovuto essere morto, insieme alla mia famiglia, tanto tempo fa,
quando quella musica era la naturale colonna sonora dei pomeriggi
spensierati prima della guerra. Allora, ricordandomi, nessuno
avrebbe trovato strano che adorassi Debussy, ero come tutti gli
altri, ero davvero un ragazzo.
Adesso ero solo un ologramma, qualcosa che nella realtà, quella
vera, non esisteva e per uno strano gioco del destino, dopo tutti
quegli anni mi ritrovavo a ribellarmi con tutto me stesso alla mia
natura che mi aveva posto per sempre in quel mondo senza
permettermi di farne veramente parte.
Chi ero per pretendere di essere diverso? Avevo ancora quel diritto?
No, mi diceva la ragione, l'avevo perso quando ero diventato
qualcosa che la natura per scelta non crea, qualcosa che esiste per
sempre e quindi non naturale, artefatto, un parassita della linfa vitale
altrui, senza uno scopo, senza una meta da raggiungere, solo una
strada infinita da percorrere per arrivare al nulla.
Ma da quando l'avevo conosciuta qualcosa che somigliava all'umanità
aveva iniziato a farsi strada dentro di me; non so se mi appartenesse
e fosse rimasto sopito in me per tanto tempo, oppure se fosse
venuto da lei e mi avesse alitato la vita dentro.
Qualunque cosa fosse era dolorosa, reale, struggente. Non volevo
lasciarla andare, volevo far ardere quella fiamma che mi riscaldava
ed alimentarla affinché non si spegnesse; volevo permettermi di
sognare un vero futuro.
Avevo bisogno di lei, era il mio alter ego, la mia completezza.
Lo sentivo con tutto me stesso, pieno di quel desiderio di vita e
temevo che se l'avesse capito si sarebbe sentita sopraffatta.
- Cosa stavi ascoltando? - mi chiese interessata;
- Debussy...non so cosa...- le risposi tremando per la paura di essere
deriso.
- Io lo so. E' Claire de Lune...è forte...- disse guardandomi intensa.
E con quella semplice risposta mi dimostrò che l'affinità non aveva
tempo, che eravamo due esseri diversi ma in molte cose uguali, in
risonanza tra noi e con il mondo. La parola "quando" non aveva
senso; la parola "perché" ne aveva, e tanto.
Mi specchiai nei suoi occhi riconoscendo lo stesso rapimento
nell'ascoltare quelle note antiche ma sempre nuove e mi sentiì
finalmente parte di lei.
Capiì che se ci fossimo conosciuti quando anch'io avevo veramente
diciassette anni nulla sarebbe cambiato e che quel momento
di empatia profonda era sospeso nel tempo ma intatto.
Perché eravamo noi, io e lei, uniti da un filo invisibile che fin dal
primo momento si era misteriosamente ritorto per avvicinarci
nonostante le differenze, la mia ferocia e la sua paura: una
prova. L'avevamo superata ed ora eravamo abbastanza vicini da
vedere "perché" noi, perché insieme.
Perché riuscivo a rispettare la sua vita, nonostante il forte richiamo;
perché riusciva a rispettare il mio essere un mostro, nonostante la
sua paura.
Perché quello era amore. Nel suo significato più profondo.
E voleva dire accettazione totale ed incondizionata,
condivisione, rispetto.
Con quel senso di completezza che mi traboccava dentro la presi tra
le braccia e iniziai a ballare con lei, come se fossimo in casa mia, a
Chicago, tanto tempo fa.
Avrei voluto stringerla, amarla, non staccarmi più da lei, dirle che
finalmente ci eravamo trovati, che da quel momento eisteva un "noi".
E che ci sarebbe stato per sempre, anche quando la vita avrebbe preteso
la ricompensa per averla fatta esistere, per averci dato la possibilità
di percorrere un pezzo di strada insieme.
E senza parole glielo dissi, guardandola profondamente come si
guarda un tesoro prezioso; esattamente come fece lei,
accettando quella consapevolezza di appartenerci ed affidandosi a
me senza riserve.
Non mi sentiì più un ladro, perchè tutto l'amore che avevo dentro era
destinato a lei da sempre, come lei era destinata a me da sempre.
Per la prima volta, dopo più di cento anni mi sentiì completo, degno
di esistere in quel mondo.
Mi sentiì di nuovo a casa.
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