Fandom: Sherlock Holmes;
Pairing: Holmes/Watson;
Rating: Pg;
Genere: Angst, Introspettivo,
Romantico.
Warning:
Alternative Universe;
Beta: Narcissa63;
Summary: Vi siete
mai chiesti come potrebbero essere Holmes e Watson ai giorni nostri? Che
aspetto avrebbero, che lavoro farebbero ed in che modo potrebbero incontrarsi?
Io l’ho fatto e questa è la risposta che mi sono data: un tentativo di
trasportare il canon nel presente.
(Per la Warning Table
di holmes_ita)
Note: Scritta per
la Warning
Table di holmes_ita,
Prompt 01 – Alternative Universe.
Partecipa ad “A tutto campo!” del Marauders
Archive.
DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle
saga di Sherlock Holmes non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir
Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti,
stappiamo tutti insieme lo spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah,
ovviamente non mi paga nessuno, anche perché altrimenti il succitato autore si
rivolterebbe nella tomba, poverello.
Il Violinista di Uno Studio in
Rosso
La nebbia è la più vecchia amica di Londra, ritengo che
senza di lei la città sarebbe irriconoscibile. Perfino nelle frizzanti giornate
d’aprile, ammanta le vie grigie in un tenero abbraccio.
Quella sera, come tutte le altre da un po’ di tempo a quella
parte, mi trovavo ad indugiare in una lunga passeggiata, restio a
rincasare.
Quando un anno prima ero rientrato dall’Afghanistan, felice
ed innamorato, ed avevo sposato Mary Morstan, un’infermiera che lavorava
nell’ospedale militare in cui venni trasferito, non avrei mai pensato che un
cancro me l’avrebbe portata via sei mesi dopo. Il Fato ha un’ironia macabra: a
cosa serve essere un medico, se non puoi salvare la donna che ami?
Non riuscivo a rientrare a casa, me ne tenevo lontano il più
a lungo possibile, accaparrandomi turni e doppi turni pur di non tornare il
quel luogo che, più che un caldo rifugio, mi appariva una fredda tomba.
Dopo essere uscito dal lavoro, prendevo sempre la metro e
poi facevo una lunga camminata. Durante una di esse, fui attirato da una
scritta vermiglia, al neon, che recitava “Uno
Studio in Rosso” e sovrastava la porta scura di un locale. Allora decisi di
entrarvi per riscaldarmi e bere qualcosa.
Era un posto gradevole: un piano bar illuminato da luci soft ed arredato in un ricco stile vittoriano, forse un
po’ troppo opulento, ma nel complesso rilassante. Era molto tardi e pochi
avventori popolavano la stanza invasa da una profusione di comode poltroncine e
tavolini tondi; io mi accomodai ad uno piuttosto defilato, sulla sinistra.
Tuttavia la mia attenzione non fu attratta tanto dall’aspetto del locale,
quanto da un uomo – un violinista – che suonava sul piccolo palco.
Era molto alto, raggiungeva quasi il metro e novanta, eppure
magrissimo. Era vestito con sobri abiti scuri: un pantalone dal taglio classico
ed un maglione a dolcevita. La sua pelle era molto chiara, quasi eburnea, ma
non di quel pallore malato di chi non vede abbastanza spesso la luce del sole,
piuttosto era una carnagione per natura nivea, che mi trasmise immediatamente
l’idea di qualcosa di puro – incorruttibile.
Aveva un volto dai tratti decisi: mento prominente, labbra sottili, naso
aquilino, zigomi alti e fronte spaziosa. I capelli scuri ed arruffati davano
l’idea di un uomo che non si curasse eccessivamente dell’aspetto esteriore,
tuttavia ciò che mi colpì di più furono i suoi occhi; teneva le palpebre
abbassate, concentrato nell’esecuzione, e le ciglia lunghe e nerissime gli
accarezzavano le guance come una merlatura di pizzo nero, ma quando le aprì due
occhi d’acciaio scandagliarono l’intera stanza ed infine si posarono su di me,
che non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla sua figura.
Ah, ma la musica, la musica
fu ciò che mi conquistò e mi costrinse a tornare in quel piano bar tutte le
sere seguenti. Le note penetranti e malinconiche del violino che s’involavano
nell’aria, tingendo quel luogo di un’atmosfera vagamente bohemien, mi raggiunsero e trafissero come nient’altro era stato
capace di fare negli ultimi mesi.
Quella sonata filtrò
sotto la spessa corazza di apatia che mi copriva e mi toccò il cuore. In un
primo momento quasi mi mancò il respiro, poi una benedetta quiete avvolse la
mia mente ed i miei sensi. Per la prima volta da quelli che mi parvero secoli,
mi sentii in pace, compreso, accettato, perfino desiderato. Non sono in grado
di spiegarlo razionalmente, so solo che avevo un intenso bisogno di quella
musica e grazie ad essa divenni un cliente abituale di Uno Studio in Rosso.
Tutte le sere lui
era lì e tutte le sere, dopo la fine del mio turno, io tornavo esclusivamente
per ascoltarlo. Mi accomodavo al solito tavolino, ordinavo un bicchiere di
brandy o un caffè, accendevo una sigaretta – la prima ed unica della giornata –
chiudevo gli occhi e lasciavo che la melodia s’impadronisse di me. Restavo sino a
che non terminava la sua esecuzione – a volte poteva essere un’ora, a volte
meno, altre di più – posticipando così il momento di rientrare a casa ed
infilarmi nel letto freddo e vuoto che mi attendeva. Ogni tanto mi portavo
qualcosa da leggere, ma il più delle volte stavo semplicemente ad ascoltarlo,
crogiolandomi in quel senso di pace.
Poi lui sparì. Una
sera il violinista non era presente ed io immaginai che fosse in ritardo, ma
non arrivò mai e non comparve nemmeno i giorni seguenti. Continuai a tornare in
quel locale, nella speranza di rivederlo, cercando di scacciare
quell’irrazionale senso di abbandono. Comprai anche dei CD di musica classica,
ma una banale registrazione non aveva la magia della sua mano. Infine, vinsi la
mia naturale discrezione e chiesi al barista cosa ne fosse stato dell’artista.
«Il violinista? Oh, non credo
tornerà, mi dispiace. Era un suo amico?» mi domandò
questi ed io negai distrattamente, troppo occupato a metabolizzare la notizia.
Lo immaginavo, certo, ma sentirlo confermare m’incupì più di quanto vorrei
ammettere.
Scambiai ancora qualche chiacchiera con quell’uomo, che
scoprii essere il padrone del locale, e poi saldai il conto e rincasai.
La sera seguente, benché sapessi che fosse del tutto
inutile, i miei piedi sembrarono condurmi lì di loro iniziativa, forse a causa
dell’abitudine, e mi ritrovai nuovamente nel piano bar. Mi dissi che era
comunque un posto gradevole e stare lì era un modo come un altro per
posticipare il momento di fare ritorno alla mia dimora.
Ma c’era una sorpresa ad attendermi. Infatti
mi ero accomodato al mio tavolino da pochi minuti e stavo cercando in tasca il
pacchetto di sigarette, in attesa che il barista venisse a prendere
l’ordinazione, quando qualcuno si fermò al mio fianco.
«Prego» una voce calda attirò la mia attenzione ed una mano
bianchissima, dalle dita affusolate, mi offrì un pacchetto di Marlboro Rosse
aperto, invitandomi a prenderne una.
Rimasi senza fiato: era lui,
il violinista.
Accettai la gentile offerta e subito dopo egli
prese dalla tasca del cappotto uno zippo, che fece scattare per accendermi la
sigaretta. «Questo posto è libero?» mi domandò poi ed io annuii, scostando la
sedia per invitarlo ad accomodarsi.
«E’ un piacere starle finalmente seduto accanto, dottor
Watson» aggiunse poi, accendendosi a sua volta una Marlboro. Notai che, come al
solito, era vestito in modo sobrio ed elegante e curiosamente pensai che non
sapesse nemmeno cosa fossero dei jeans.
«Lei come fa a sapere chi sono?» chiesi stupito.
«E’ il mio lavoro» spiegò, prendendo dal portafoglio un
biglietto da visita e facendolo strisciare sul tavolo, sino a me.
Era un semplice cartoncino bianco, che recava una laconica
scritta “Sherlock Holmes - investigatore
privato” seguita da un numero di cellulare e da un indirizzo di posta
elettronica.
«Dunque lei non si guadagna da vivere come violinista»
constatai l’ovvio.
«No, quello è solo un hobby, nonché
un’ottima copertura per il caso che ho appena risolto. Non credo tornerò ad
esibirmi in pubblico» confermò.
«E’ un vero peccato» mi lasciai sfuggire «Mi ero affezionato
alla sua musica»
«L’avevo notato» un accenno di sorriso lampeggiò su quelle
labbra sottili.
I suoi occhi grigi erano straordinari, sembravano studiarmi
attentamente e scavarmi dentro, non avevo mai conosciuto nessuno con uno
sguardo tanto penetrante,
nemmeno in guerra. Gli occhi di una belva, ecco cosa sembravano,
una belva addomesticata ed incatenata dalla ragione, ma pur sempre una belva.
«E posso sapere per quale motivo sta indagando su di me,
signor Holmes?» domandai perplesso.
«Oh, ma non sto indagando su di lei, dottore» parve
divertito dall’idea, ma s’interruppe poiché il barman si avvicinò con il taccuino
in mano «Buonasera Harold, due bicchieri di brandy – è d’accordo, dottor
Watson?» io annuii, stupito dal fatto che conoscesse tanto bene i miei gusti e,
non appena il padrone del locale si allontanò di nuovo, l’investigatore riprese
il discorso «Le assicuro che non ho motivi per indagare su un uomo onesto come
lei. Non è difficile capire che lei è un medico militare congedato con onore,
lo rivelano chiaramente il suo portamento e le sue mani ben curate, oltre che
la sua abbronzatura ed una certa rigidità della spalla sinistra, che denuncia
una ferita non troppo vecchia ma ormai guarita. Inoltre è un tipo abitudinario
ed il brandy è
il suo liquore preferito» spiegò, interrompendosi nuovamente quando arrivò la
nostra ordinazione «Sono qui perché Harold mi ha riferito che lei cerca un
coinquilino e, sempre lui, mi ha rivelato il suo nome» concluse.
Rimasi notevolmente stupito e non solo dal suo esame, infatti non ricordavo di aver parlato con il barman del
fatto che volessi cambiare casa, ma naturalmente la sera prima non avevo badato
troppo a quello che raccontavo, la mia mente era concentrata su ben altro...
sull’uomo che avevo di fronte, per la precisione.
Proprio questi mi riscosse dai miei pensieri: «Come mai cerca un coinquilino, se posso chiederglielo? Ho
notato che non porta più la fede, le è rimasto il segno dell’abbronzatura. Sua
moglie l’ha buttato fuori di casa?»
Trasalii e mi schiarii la voce prima di rispondere: «Mia
moglie è morta di cancro».
Vidi un guizzo di qualcosa che poteva essere rammarico, nei
suoi occhi ed infatti, poco dopo, replicò: «Perdoni la
mia indelicatezza. In effetti mi sembrava strano che
un uomo tanto attraente fosse divorziato, ma – lo ammetto con franchezza – ho
pensato ad un tradimento, oppure che la sua sposa l’avesse lasciata perché
lavora troppo. Le donne tendono a sentirsi sole se gli uomini non dedicano loro
almeno la metà del loro tempo».
Una persona senza peli sulla lingua, quindi, ma il suo modo
di fare non mi dispiaceva. Preferivo di gran lunga quel trattamento agli
sguardi commiserevoli di colleghi e conoscenti.
«E’ per questo che voglio cambiare
casa. Quella dove abito adesso è troppo grande e troppo piena
di ricordi e sogni infranti» spiegai «Ho bisogno di ricominciare da zero».
«Quand’è così, se le interessa, ho
visto un grazioso appartamento in Baker Street: soggiorno, cucina, bagno e due
camere da letto. L’affitto è ottimo e diviso in due diventa una cifra davvero
irrisoria. Potremmo andare a vederlo domani, se ha un po’ di tempo libero e non
le dispiace dividere la casa con me» propose.
«Mi pare un’ottima idea» risposi convinto.
«Allora mi permetterà di rivolgerle qualche domanda per
conoscerla meglio?» chiese poi.
«Ma certo» acconsentii.
Lui schiacciò il mozzicone di sigaretta nel posacenere e,
dopo aver bevuto un sorso di brandy, ne prese un’altra dal pacchetto,
offrendomelo nuovamente. Stavolta, però, rifiutai gentilmente.
«Lei non è un gran fumatore, vero?
Non ha le dita ingiallite dalla nicotina» affermò
pacato.
«Sì, prima fumavo di più, ma ora mi
limito ad una al giorno, e fuori dall’orario di lavoro. Non mi piace che i
pazienti mi sentano addosso la puzza di sigaretta»
confermai e lui mi dedicò un sorriso enigmatico, come se si aspettasse una
risposta simile.
«Ha qualche vizio, dottore, o
qualcosa che potrebbe risultare sgradevole nella nostra convivenza? Tanto vale
saperlo sin da ora, non trova?» mi chiese allora.
«Ho una brutta passione per le
scommesse, ma cerco di tenerla a freno il più possibile. Devo mantenermi costantemente
reperibile, perché la mia giornata di lavoro non si conclude con la fine di un
turno, ragion per cui il telefono a volte squilla in ore improbabili. Ho il
sonno molto leggero a causa della guerra e di recente soffro d’insonnia. Infine
ho un cucciolo di bulldog» elencai concisamente.
«Oh bene, i miei difetti sono molto più numerosi» di nuovo quell’accenno di sorriso ed un lampo d’ironia negli
occhi d’acciaio «Sono disordinato, ho orari molto sregolati, fumo parecchio e
ho la bizzarra abitudine di suonare il violino quando rifletto, anche ad ore
poco consone. A volte m’incupisco d’improvviso e posso rimanere di quell’umore
per giorni, ma lei non ci faccia caso, basta lasciarmi a me stesso e mi passa. Inoltre, per adesso non ho un ufficio, quindi potrei
dover accogliere a casa dei potenziali clienti».
«Questo non è un problema, per la maggior
parte del giorno io comunque sarei fuori. E lei ed il suo violino non mi
disturbereste di certo». Avevo voglia di sentirlo suonare, ne avevo un bisogno
quasi viscerale, come se la sua musica fosse una droga a cui mi ero assuefatto.
Lui sembrò leggerlo sul mio viso, perché replicò: «Sarò
lieto di esibirmi per
lei in qualunque momento, dottor Watson».
Fu così che conobbi il mio amico Sherlock Holmes.
FINE.
Angolino
dell’Auto-Pimping: Se può interessarvi, ho
pubblicato un piccolo crossover Doctor Who/Sherlock Holmes: “L’Enigma
della Cabina Blu”. Lo trovate su EFP, su Fire&Blade
e sul mio LJ.