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Coperta
*
Alzò lo sguardo dai
fogli fittamente scritti e sgranò gli occhi notando che ora il cielo fuori
dalla finestra era un manto nero cosparso di puntini luminosi, a differenza
dell’ultima volta che si era concessa un attimo di tempo per lasciare che la
sua mente si riposasse un poco. Ancora rammentava la volta aranciata di
Aprilius One, qualche ora prima, così brillante che sembrava andare a fuoco.
Era stato un brevissimo spettacolo mozzafiato e, con un minuscolo sorriso ad
incresparle le labbra, aveva continuato a scrivere, dimenticandosi subito del
suo essere donna, delle emozioni che un semplice tramonto era stato in grado di
risvegliare in lei, di se stessa. In mente aveva fisso un solo obiettivo:
finire il rapporto cominciato quella mattina, rileggerlo e rilegarlo nel
miglior modo possibile, per poi infilarlo in un archivio dove, con tutta
probabilità, avrebbe preso solo polvere e neanche mezzo complimento per la cura
che gli aveva dato, o la peculiare scelta di un vocabolario adatto ad ogni singolo
paragrafo. Però, prima ancora di finire su uno scaffale lurido nei sotterranei
della Sede Centrale, sarebbe capitato tra le sue mani. Ed eccolo, sprezzante e forte, l’unico elemento che le
faceva amare quelle ore trascorse in una stanza minuscola, quelle fitte
insopportabili al braccio a furia di scrivere e quella stanchezza che le
invecchiava di qualche anno l’altrimenti fresco volto da diciottenne.
La consapevolezza che
una parte di lei, sebbene così impersonale, sarebbe stata esaminata da lui le
ricordava costantemente che le piaceva la sua professione e che mai, mai, avrebbe preferito tornare a casa
con gli altri e godersi un lungo bagno bollente in solitudine. Piuttosto
rimaneva sempre fino a tardi, annullando la propria vita sociale, ma innalzando
in qualche impercettibile modo quella sentimentale. Sopportava le occhiaie, il
sonno, gli sfoghi cutanei solo per sentire un misero complimento a fine
giornata da parte sua, tentare di cogliere l’ombra di un sorriso su quel suo
viso bianco, come se fosse stato di fine porcellana, cercare una scintilla nei
suoi occhi cobalto e, magari, come già era successo in passato, rabbrividire a
causa di un’amichevole pacca sulla spalla, data con delicatezza ed imbarazzo.
Sicuramente non come quelle poderose di Dearka, capaci di annientare la colonna
vertebrale per almeno una settimana.
Soffocò uno sbadiglio
mordendosi il labbro inferiore e tornò a cercare anche solo il minimo errore
nelle sue parole, sempre animata dalla splendente speranza di potersi sentire
utile ed indispensabile al suo superiore, sebbene qualsiasi sbaglio avrebbe
portato nella sua giovane vita qualche secondo in più passato con lui; ma
l’accortezza con cui aveva steso il documento non tradiva quel suo infantile
desiderio di compagnia e, dopo quindici minuti buoni di ricerca minuziosa, la
sua penna rossa ancora non aveva tracciato mezzo segno. Il suo essere così
meticolosa l’aveva sempre resa abbastanza orgogliosa, specialmente quando
all’Accademia ed i suoi quaderni venivano considerati quasi delle prostitute
cartacee vista la frequenza con cui cambiavano proprietario, il loro campo
d’azione la fotocopiatrice, per poi tornare sempre da lei. Quasi odoravano di
molteplici storie, di paure e speranze dei suoi compagni, ma quelle metafore si
annullavano subito quando i suoi occhi vagavano nell’immenso giardino della
struttura di ZAFT e coglievano quel ridicolo caschetto argenteo in lontananza,
le sue orecchie che captavano il suo starnazzare pomposo mentre sfidava il suo
eterno rivale nell’ennesima partita di scacchi o in un’altra stranezza. Lui era
il suo senpai, il modello per lei da
seguire e, nonostante il suo carattere impossibile, la carriera che egli poteva
vantare le ricordava ogni secondo che sì, un giorno anche lei avrebbe voluto
diventare una fonte d’ispirazione per qualcuno. Non quella che alcuni dei suoi
sottoposti provavano per lei quando cercavano il suo aiuto, ma qualcosa di
forte. Una dipendenza. Perché, alla fine, lei era drogata di lui e ancora,
dentro di sé, sperava che in qualche modo anche lui avrebbe potuto avere
bisogno di lei solo e soltanto in futuro.
Decise che il suo
lavoro poteva andare bene e lo infilò con attenzione in una busta trasparente.
Era arrivato, finalmente, quel momento della giornata che ambiva più di tutti
e, all’alba delle undici e mezzo di sera, Shiho Hahnenfuss poté alzarsi dalla
sua poltrona girevole per la prima volta dopo ore. Ascoltò sconcertata lo
scricchiolare delle sue ossa, un rumore poco rassicurante che comunque
testimoniava con quanta passione svolgeva le sue mansioni, che fossero stilare
rapporti o andare a prendergli il caffè nella mensa dello stabile. Adorava in
maniera quasi morbosa quando lui la obbligava a fargli da cameriera, ma,
neanche a dirlo, si comportava impeccabilmente anche in quei frangenti e posava
con delicatezza la tazza sulla scrivania mentre faceva abilmente scivolare il
vassoio sotto il braccio. Lo guardava sorseggiare la bevanda, si imbambolava davanti
alla sua fronte che si rilassava ed al suono melodioso del suo sospiro sollevato.
Ogni tanto la pregava di rimanere un po’, che tanto c’era Dearka a sgobbare in ufficio e chiacchieravano
tranquillamente di ZAFT, di PLANT, di loro. Evitava di fargli notare che
l’aveva sempre ammirato da lontano e descriveva i giorni all’Accademia come
pesanti, ma che erano serviti a qualcosa, a farle indossare quell’uniforme, a
fare di lei un pilota d’élite, a
farla assumere da lui. E tranciava di netto quell’ultima parte che non aveva
confessato a nessuno. Era un sentimento, il suo, pesante come un fardello
dentro il suo cuore e, nonostante avrebbe voluto gridarlo al mondo intero, si
vergognava di provare certe cose per il suo superiore, qualcuno che per lei
sarebbe sempre stato fuori da ogni portata, specie quando i giornali
scandalistici lo eleggevano settimanalmente come lo scapolo d’oro delle
Clessidre, come il giovane più affascinante e via discorrendo. La vera ira,
però, le montava leggendo i nomi delle sue possibili fiamme. Gelosa e
consapevole, si ripeteva che era già fidanzato con il suo lavoro per pensare
all’amore, e sapere che lei stessa faceva parte di quell’impiego a tempo pieno
le rilassava l’anima, altrimenti tesa come la corda di un violino.
Percorse i corridoi
silenziosi con la busta stretta al seno, stupidamente convinta che un po’ del
suo profumo le sarebbe rimasto attaccato e che lui l’avrebbe inalato durante la
sua ispezione. Avrebbe desiderato che anche la sua fragranza artificiale avesse
potuto farlo sospirare come quando si concedeva un caffè a metà mattinata, ma
non aveva voglia di indagare, forse per paura di non trovare niente, e
puntualmente abbassava lo sguardo mentre lui leggeva i documenti, fissandolo
sui suoi piedi che, in quei momenti, le sembravano dannatamente interessanti.
Poi, quando finalmente lui si complimentava in maniera spiccia e lievemente
ammirata, lei si limitava a scattare sull’attenti, riservando il suo smagliante
sorriso per il muro, una volta tornata a casa e stretta ad un cuscino. Lì la
sua essenza giovanile usciva da ogni poro e, al ricordo della sua voce
rabbiosa, si metteva a ridacchiare da sola, mentre agitava vigorosamente le
gambe nell’aria. Si rendeva conto di essere ridicola, ma reprimere a lungo il
suo carattere solare non le faceva bene. Fisicamente e mentalmente.
Giunse davanti alla
porta del suo ufficio e, proprio prima di bussare, notò che era aperta. Non
riuscì a resistere alla curiosità e spinse il pannello, entrando nella stanza
in punta di piedi. Si aspettava una lavata di capo da un secondo all’altro, ma
dopo cinque secondi i suoi timpani erano ancora intatti. Fece vagare gli occhi
in ogni angolo e, finalmente, scoprì perché non era stata investita da insulti.
Le sue labbra, nuovamente, si piegarono all’insù, ammorbidendo i suoi tratti
facciali. Esalò un sospiro seriamente innamorato e cominciò a camminare
lentamente verso di lui.
Quando lo raggiunse
si piegò e si trattenne i capelli perché non gli finissero sul viso. Non
l’aveva mai ammirato da così vicino e non si stupì di non trovare mezza
imperfezione su quella pelle diafana. Non l’aveva neppure mai visto
addormentato e, in quel momento, capì che, paradossalmente, nel suo cuore non
sarebbe mai esistito altro uomo che Yzak Joule; che era tanto cagnaccio, da
sveglio, quanto cucciolo, nel sonno. La sua espressione pacifica lo testimoniava
perfettamente. Inspirò a fondo, il cuore che le martellava nelle orecchie, e la
ragione che svaniva piano piano dalla sua mente. Velocemente le sue labbra si
posarono sulle sue, tanto sottili, godendosi la loro morbidezza screpolata.
Chiuse gli occhi, rammaricandosi dell’amarezza di quel suo primo bacio ed
ignorando il fatto che, con tutta probabilità, aveva rubato quello del suo
Comandante.
Si tirò all’indietro
di scatto, temendo che qualsiasi disgrazia sarebbe potuta piombare sulla sua
testa. Non voleva perderlo per la sua stupida ossessione, ma il suo continuare
a dormire così beatamente la fece desistere dall’avere paura. Si portò le dita
alla bocca, sorridendo gioiosa. Probabilmente avrebbe potuto ottenere solo
quello nella sua vita da lui, ma in quel momento le bastò, il contatto tra di
loro già sigillato come ricordo nella sua mente. Si voltò ed aprì l’armadietto
contro la parete, estraendone una coperta, che mise con dolcezza estrema sul
corpo inerte del giovane, gli occhi che indugiarono rapidamente sul suo
colletto slacciato e sulle ciocche argentee che cadevano morbide sul suo viso
perfetto.
Posò la busta
impregnata del suo profumo sulla scrivania, decisa a saltare la parte dei
complimenti per quella sera e tornare direttamente a casa, estremamente
soddisfatta comunque dalla piega che le cose avevano preso. Non fece due passi,
comunque, che cambiò idea e si accomodò sulla poltrona di fronte a lui,
avvicinandosi di poco. Voleva guardarlo dormire, voleva perdersi nel suo odore
e voleva stargli accanto. Non avrebbe mai più potuto godersi istanti come
quelli e se ne sarebbe andata solo dopo poco. Solo qualche minuto non avrebbe
fatto male a nessuno.
Appoggiò la testa
sulle braccia conserte, gli occhi fissi su di lui, ma le palpebre improvvisamente
si fecero pesanti come macigni. La stanchezza della giornata lavorativa
s’impadronì di lei e pensò che, dopotutto, non si sarebbe sicuramente
addormentata.
*
“Sì, Presidente.
C’imbarcheremo al più presto possibile. Conti pure sulla Voltaire e sulla
Rousseau per fermare quei pazzi. No, non faremo cadere Junius Seven sulla Terra
ed aiuteremo la Minerva al massimo delle nostre possibilità. Sì, certo. A tra
poco, allora.”
Shiho aprì lentamente
gli occhi, avvertendo un familiare profumo avvolgerla ed uno straordinario
tepore farle compagnia. Sentiva la bocca impastata dal sonno e la vista
annebbiata, la voce seria e profonda che tanto amava raggiungerle le orecchie,
ma il messaggio distruttivo non la scalfì di un centimetro. Lo sbattere
violento della cornetta, comunque, la fece sobbalzare e si mise a sedere
diritta, portandosi una mano sul petto, il cuore che le martellava contro la
gabbia toracica.
“Cazzo,” fu l’unica
cosa che Yzak Joule riuscì a dire, fissandola. “Non era mia intenzione
svegliarla, Maggiore.”
“C-Comandante!”
esclamò lei, saltando in piedi e scattando sull’attenti. Ai suoi piedi cadde la
stessa coperta che aveva poggiato su di lui poco – o tanto, davvero non sapeva
– prima. La guardò interrogativamente e poi portò nuovamente lo sguardo sul suo
adorato superiore, intento a scrivere al computer. “Non mi dica che mi sono
addormentata.”
“Come un sasso,”
precisò l’albino, alzando un sopracciglio. “Per questa volta non le farò un
richiamo solo perché io stesso mi trovavo nella medesima situazione. A
proposito, grazie per avermi coperto.” Si esibì in impercettibile ghigno,
guardandola con la coda dell’occhio. “Ho pensato di fare lo stesso quando mi
sono svegliato e l’ho trovata lì.”
“Le sono
riconoscente, signore,” mormorò delicatamente Shiho, sciogliendosi per quel
pensiero così accorto. “Qualcosa che posso fare per lei?”
“Sì, venga qui e
telefoni da parte mia all’equipaggio, pregando di fare passaparola.
C’imbarchiamo tra un’ora, alle sette di mattina, dal porto di Aprilius per
evitare una catastrofe. Chi non c’è verrà buttato fuori a calci nel culo. Tutto
chiaro?”
“Certo, Comandante,”
disse la tedesca, raggiungendolo e cominciando a digitare il numero di Dearka.
Ascoltò il suono della linea per un po’, fino a quando il suo collega rispose.
Gli spiegò la situazione e, nel bel mezzo del discorso, sentì Yzak tirarle la
manica insistentemente. Si voltò, trovandolo con un biglietto tra le mani.
Ho controllato il suo rapporto. Eccellente lavoro, Maggiore.
Sospirò, emozionata,
e decise che per una volta il suo sorriso l’avrebbe regalato a lui e non al
muro di camera sua.