Capitolo 1: la porta chiusa
Con il suo sguardo esperto, il giovane elfo esplorò per l’ennesima
volta con estrema cura l’intera superficie della porta bronzea
elegantemente decorata, esaminando attentamente ogni rilievo e ogni
incisione per poi soffermarsi corrucciato sulla toppa e sul grimaldello
che vi era inserito. Nonostante tutti i suoi sforzi e la sua notevole
abilità di scassinatore, quella serratura non voleva assolutamente
saperne di aprirsi.
Era alto, per essere un elfo, come un uomo di statura media, tanto che
avrebbe benissimo potuto essere confuso con un umano di circa
vent’anni. Snello, quasi esile, con muscoli affusolati come quelli dei
danzatori, aveva movenze feline, eleganti. Un cappello a larghe tese,
decorato da una magnifica piuma nera, copriva i suoi capelli corvini
lunghi fin quasi sulle spalle, mantenendo in ombra il suo volto dai
lineamenti delicatamente aristocratici. I suoi abiti, pur completamente
neri, erano eleganti e ricercati, più simili a quelli di un ricco
gentiluomo che a quelli di un ladro. Un agile stocco pendeva dal suo
fianco sinistro. Gli occhi grandi, di un verde profondo, fissavano
accigliati la serratura.
Aveva aperto dozzine di porte blindate e quella sembrava in tutto e per
tutto simile alle altre.
Sembrava.
Perché Blackwind sapeva perfettamente che nessuna porta normale era in
grado di resistergli a lungo. Anche in quella, in effetti, il
grimaldello girava normalmente e il lucchetto scattava come qualsiasi
altro. Però quella porta restava chiusa, sbarrata, senza alcuna
spiegazione. Ormai era certo che non ci fossero altri meccanismi
nascosti.
A questo punto è evidente che questa
porta è serrata con la magia e potrei passare la mia vita a tentare di
aprirla senza speranza di riuscirci.
Un maledetto, sleale incantesimo. Non poteva esserci altra spiegazione.
A meno di non riconoscere di aver perso improvvisamente tutto il suo
talento.
La clessidra, accanto a lui, stava esaurendo gli ultimi granelli di
sabbia. Blackwind la girò: al termine, secondo i suoi calcoli, sarebbe
passata una guardia a controllare. La stanza detta “del tesoro” si
trovava in fondo a un corridoio privo di finestre che si dipartiva dal
salone adibito a museo che occupava quasi tutto il secondo piano
dell’edificio. Se una guardia fosse comparsa all’imboccatura di quel
corridoio, non ci sarebbe stato modo di evitare di finirle in bocca.
Lanciò un ultimo sguardo irritato verso la toppa e ritirò il
grimaldello. Inutile perderci altro tempo. Ormai restava poco tempo per
andarsene. Infilò il grimaldello sotto l’ampia fascia viola che teneva
stretta in vita e fece per allontanarsi. Esitò. Proprio non riusciva ad
accettare di essere stato sconfitto così.
Blackwind, era abituato a curare anche i minimi dettagli delle sue
“operazioni”. Così, aveva impiegato una decina di giorni a pianificare
con estrema precisione quel colpo, entrando e uscendo da quella casa
sotto svariati travestimenti, mescolandosi fra i fornitori, operai e
fattorini.
Aveva esplorato praticamente tutta la costruzione con attenzione e
discrezione. Sapeva esattamente quanti passi occorrevano per
raggiungere la stanza detta “del tesoro” partendo da diversi punti
dell’edificio. Sapeva esattamente quanti gradini c’erano in ogni
scalinata. Conosceva a memoria tutti gli spostamenti che i guardiani
compivano ogni sera per sorvegliare il palazzo. Sapeva l’esatta
posizione di ogni porta e ogni finestra. Era in grado di entrare e
uscire da quella casa senza fare il minimo rumore, sia passando dalla
strada, sia raggiungendola dai tetti degli edifici vicini. Era anche
entrato in quella stanza una sera, mescolato fra gli ospiti del padrone
di casa, ammirando quel meraviglioso gioiello e memorizzando dove era
custodito.
E ora doveva fermarsi davanti a una porta. Una sconfitta cocente,
inaccettabile. Soprattutto inaccettabile perché da parte di James Brook.
Era, il padrone di casa, un famoso commerciante d’arte, ricco, giovane,
brillante e affascinante, introdotto nella migliore società di
Elosbrand[1]. Un personaggio influente e rispettato. Un personaggio
che, si diceva, ben presto sarebbe stato investito di qualche
importante carica cittadina, forse addirittura avrebbe avuto la
possibilità di accedere al Senato.
Ma quello che i buoni cittadini e i governanti di Elosbrand ignoravano
era che buona parte delle sue ricchezze, anziché dal commercio di opere
d’arte, proveniva da traffici d’armi clandestini.
Il giovane elfo era certo che quell'uomo senza scrupoli aveva rifornito
con armi di pregevole fattura numerose bande di briganti che avevano
causato molti problemi nelle foreste a occidente della città. Egli
stesso aveva visto con i suoi occhi quelle armi quando, quasi un anno
prima, si era trovato ad affrontare insieme con un insolito gruppo di
avventurieri proprio una di quelle bande. Quelle armi provenivano
certamente dai magazzini di Brook. Purtroppo i documenti che lo
avrebbero provato erano poi finiti in cenere insieme al resto del covo
di quei briganti.
Chissà quanti altri delinquenti avevano acquistato armi dall'eccellente
signor James Brook. Chissà quanto sangue era stato sparso da quelle
armi. E quanto oro aveva portato nelle tasche del rispettabile signor
Brook tutto quel sangue?
Perciò aveva messo gli occhi su quella casa.
Perché se in realtà Blackwind non avrebbe mai nemmeno ipotizzato di
sottrarre uno spillo alla gente onesta, non aveva assolutamente alcun
rimorso a derubare i veri delinquenti. Specie quelli che mascherano la
loro disonestà sotto una facciata rispettabile. Anzi, proprio per
quella specie di furfanti provava un’avversione particolarmente
profonda.
Proprio per quelli come il rispettabile signor James Brook. Quel
trafficante meritava una sonora lezione e il giovane elfo sapeva
benissimo come il modo migliore di punire la gente di quel genere fosse
colpirli nella borsa.
Sarebbe bastato mettere le mani sull’Occhio
della Regina, un favoloso rubino grande come una noce, di
spettacolare purezza, scomparso un secolo prima dalla corte reale di
Ariakas [2] e riapparso qua e là in diverse regioni di Ainamar, per
fermarsi finalmente nelle mani del mercante d’arte più conosciuto di
Elosbrand. Brook era orgoglioso di possedere quel gioiello unico che,
da solo, valeva metà delle sue ricchezze. Blackwind era convinto che se
fosse riuscito a rubare quel rubino, Brook avrebbe subito un colpo
formidabile nelle ricchezze e nell’orgoglio.
Aveva pianificato tutto con estrema attenzione, aveva superato ogni
ostacolo. Restava solo quella porta. Non si sarebbe mai immaginato di
doversi fermare a quel punto.
Eppure non riesco ad accettare di
essere arrivato così vicino e dover rinunciare!
Ma chi diavolo poteva aver messo a disposizione la propria magia per
chiudere quella porta? Brook, a quanto se ne sapeva, non aveva alcuna
conoscenza nelle arti arcane. Possibile che avesse assoldato un mago?
Comunque fosse, quella serratura continuava a restare ostinatamente
chiusa.
La magia era piuttosto comune su Ainamar, anche se erano in pochi
quelli che la sapevano controllare e adoperare correttamente. Blackwind
stesso portava mantello e stivali infusi della magia della sua razza,
che gli consentivano di nascondersi perfettamente nell’ombra e muoversi
con la silenziosità di un gatto. Però, per eliminare quella chiusura
magica, avrebbe dovuto procurarsi una pergamena contenente
l’incantesimo adatto e augurarsi di riuscire a leggerla correttamente
davanti a quella porta sbarrata. Ma per procurarsi la pergamena giusta
gli sarebbero occorsi alcuni giorni. Quindi, tutto da rifare.
L’unico modo, a quel punto, era di farsi aprire la porta da chi era in
possesso della chiave magica. Dunque solo il padrone di casa o, forse,
il maggiordomo, l’anziano Algernon. Però sarebbe stato necessario
ricorrere alla forza e trasformare quel furto tanto abilmente
congegnato in una volgare rapina. Col rischio che qualcuno potesse
farsi seriamente male.
Quello, però non era lo stile di Blackwind. Quello stile che era
diventato quasi un marchio di fabbrica. Uno stile fatto di abilità,
intelligenza, astuzia, eleganza. Mai volgare violenza. Mai la forza
bruta. Mai una vittima innocente.
Se, per vincere, devo uccidere,
preferisco perdere.
Questo era sempre stato il suo motto. Questo lo rendeva un individuo
veramente insolito in un mondo in cui uccidere gli avversari pareva il
modo naturale di conseguire una vittoria.
D’altra parte, la clessidra stava ormai per finire. Avrebbe dovuto
ammettere la sconfitta. Il bello era che aveva addirittura già
preparato un biglietto beffardo da far trovare al padrone di casa. Lo
osservò accigliato. Era stato troppo sicuro di sé.
A meno che…
Un sorriso comparve sulle labbra di Blackwind. Forse un modo esisteva.
Probabilmente era un tentativo disperato. Però poteva funzionare.
E sarebbe stato veramente nel suo stile.
[1] La capitale della Repubblica di Elos, dove si svolge questa
storia
[2] Impero confinante ad occidente con la Repubblica di Elos
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