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* Questa lettera è nata per un concorso del
forum a cui io ho partecipato e che ho vinto (mi è stato consigliato di
specificarlo ed io l'ho fatto); spero che vi piaccia.
Lettera
Lettera di Maria Antonietta d’Austria-Lorena per il conte Hans
Axel di Fersen
15 ottobre 1793
A voi vadano il
mio saluto ed il mio cuore.
Mi è stata data la possibilità da parte dei miei carcerieri di
scrivere un’ultima lettera, con la quale poter dire addio ad una persona amata
prima della fine, che mi aspetta domani alle dodici in punto.
Siccome
gli affetti famigliari mi sono stati tolti da Dio e dalla Rivoluzione, ora
rimanete solo voi, mio fedele amico, a cui io possa rivolgere il mio ultimo
saluto.
È trascorso più di un anno dall’ultima volta che ci siamo visti,
ed ora spero di non stare scrivendo questa lettera a vuoto, e che voi siate
riuscito a tornare finalmente in Svezia, la vostra amata patria di cui tanto mi
avete parlato.
Con questa speranza nel cuore vi scrivo, pur essendo sicura che
questa lettera non arriverà mai nelle vostre mani se prima passerà per quelle di
Fouquier-Tinville, esattamente come quella che ho scritto ad Elisabetta.
Mi trovo
rinchiusa nella prigione di Conciergerie, sotto la guardia di alcuni Francesi
rozzi e scontenti, i quali non desiderano altro, lo discerno nei loro sguardi
quando mi osservano con quella espressione animalesca sul volto, che vedermi
ghigliottinata sulla pubblica piazza e poter così avere la certezza che
l’assolutismo dei re di Francia sia caduto.
Infatti essi sanno benissimo che, fino a quando non sarà stato
eliminato anche l’ultimo membro della famiglia reale, la monarchia non si potrà
definire caduta, sebbene i miei carcerieri mi dicano e mi ripetano in
continuazione, con quell’orribile sorriso sulle labbra ed un tono di voce
oltremodo irrispettoso, che la data della caduta della monarchia risale al 10
agosto dell’anno trascorso.
Non so se essi lo dicano perché è realmente così, o per farmi
sentire in colpa a causa del Manifesto di Brunswick.
Se fosse per quest’ultimo motivo, mi rammarica doverlo ammettere,
ci starebbero riuscendo, poiché fu a causa della mia sconsideratezza e della
forma offensiva del Manifesto che i rivoluzionari esplosero.
Sentendo questi rozzi Parigini
parlare del 10 agosto come la data della caduta della monarchia mi sento
terribilmente a disagio e continuo a ripetermi che forse, se solo non fossi
andata contro il parere di Mallet du Pan, tutto questo non sarebbe accaduto. Poi
ci ripenso e mi dico che invece tutto questo sarebbe accaduto lo stesso, poiché
lo scontento del popolo era grande, troppo grande per essere arrestato, e
l’assalto alla Bastiglia di quattro anni fa ne era stata la dimostrazione più
eclatante.
Inizialmente credevo di essere io il problema dei Francesi, considerata la
presenza del grande partito antiaustriaco presente a Parigi durante il periodo
delle mie nozze con Luigi XVI e la caduta in disgrazia di Choiseul, il quale era
convinto che questo matrimonio avrebbe rafforzato i legami tra Francia ed
Austria.
Questa
mia convinzione crebbe sempre di più, fino a che non raggiunse il culmine in
quel famoso maggio di sette anni fa, quando vidi tutto il popolo di Parigi
parteggiare per il cardinale di Rohan contro di me.
Fu forse
quella la prima volta che mi resi conto, seppure per un breve periodo di tempo,
quanto fossi odiata dai Parigini, i quali si erano detti disposti a condannarmi
a causa di quella maledetta collana, con la quale non avevo niente a che fare.
Ripensare
a tutto questo mi fa male, ma io devo scrivere in questa mia ultima lettera
tutto quello che penso, tutto quello che ho sofferto, poiché anche io ho
sofferto, amato Hans; ritengo di avere il diritto di esprimere la mia verità e
solo in questo modo posso farlo.
Ho tenuto
il conto dei giorni della mia prigionia: sono ormai quattrocentotrentaquattro
giorni che sono prigioniera dei Parigini rivoluzionari, duecentosessantasette
dei quali trascorsi qui a Conciergerie, nella solitudine più totale e tremenda.
È un
luogo buio e terribilmente sporco, dove ho a disposizione un letto piccolissimo,
le cui lenzuola, se non fosse stato per la buona grazia della figliola dei nuovi
portinai, non sarebbero mai state cambiate durante la mia permanenza qui, ed un
tavolo di legno rozzo e volgare, così vecchio e marcio che mi chiedo come faccia
a reggere il peso del foglio di carta e dell’inchiostro che sto ora usando per
scrivervi.
Le
condizioni igieniche in cui mi trovo sono raccapriccianti e credo lo sia anche
il mio aspetto, seppure non lo possa dire con certezza, non vedendo uno specchio
da ormai quattrocentotrentaquattro giorni.
So che i
miei carcerieri vorrebbero vedermi disperata; vorrebbero che li pregassi in
ginocchio di fornirmi dell’acqua per lavarmi ed una spazzola per potermi
pettinare i capelli, ed in questo modo poter avere la soddisfazione di
rinfacciarmi tutte le occasioni in cui io avevo negato loro qualcosa; ma io,
caro amico, non sono più la ragazzina viziata che loro ricordano e non avranno
questa soddisfazione da me. Non sia mai che io mi pieghi davanti a questi rozzi
Francesi e permetta loro di ridere di me alla mia morte, ormai terribilmente
vicina: mi comporterò con la dignità reale che mai ho sfoggiato prima d’ora,
dando priorità a vestiti e gioielli; ma domani, del tutto priva di questi futili
ornamenti, ed avvolta anzi negli abiti più disadorni, avanzerò a testa alta
verso la mia morte, adornata solo dalla mia dignità e dal mio orgoglioso sangue
austriaco.
Mi pare
di udire già adesso le voci dei Parigini che gridano: “Morte all’Austriaca,
morte a Madame Veto”; la soddisfazione di vedermi morta non la posso togliere
loro, ma non vedranno mai la Maria Antonietta che si aspettano: se credono che
piagnucolerò e li implorerò di risparmiarmi, avranno una delusione, poiché andrò
in contro alla morte con dignità.
Ormai
nulla può più farmi male: ora che mi sono stati tolti i miei figli, nulla può
più ferirmi.
Le più
terribili falsità sono state dette su di me, caro Hans, così orribili che,
sebbene io le abbia affrontate e sopportate con freddezza, ora mi tremano le
mani e quasi non ho il coraggio di riportarle; ma devo farlo, poiché è giusto
che si sappia quello che anche io ho dovuto patire.
Ricordo
con chiarezza il 14 ottobre appena trascorso: il giorno del mio processo.
Alle
dieci del mattino fui portata davanti al Tribunale Rivoluzionario, davanti ai
miei giudici. Gli stessi che, pochi mesi prima, mi avevano separato dai miei
figli, permettendomi a mala pena di abbracciare la mia Maria Teresa e senza
neppure darmi il tempo di vedere mio figlio Luigi.
I giudici
erano in piedi davanti a me, vestiti di scuro nel già scuro ambiente, reso ancor
più buio ed inquietante dalla luce tenebrosa che solo una mattinata nuvolosa e
bigia di ottobre può emanare.
Il luogo
era sporco quasi quanto la mia prigione; era come se tutti i posti che io
dovessi visitare fossero stati scelti appositamente fra i più sporchi e malsani
della città: forse per infastidire quella parte di me che ancora amava l’ordine,
la bellezza e la pulizia, o forse era un modo dei Francesi per esprimere
efficacemente tutto il loro disgusto nei miei confronti ed una maniera come
un’altra per farmi intendere che dentro di me dimora tanta sporcizia quanta ce
n’era in quei luoghi.
Fui fatta
accomodare su di una poltrona: i miei giudici mi guardavano, con espressioni
fredde e serie sui volti illuminati solo dalla debole luce di una candela
consunta. Io sostenni tutti i loro sguardi con altrettanto sprezzo e freddezza.
Furono
loro a cedere per primi, o forse vi furono costretti, poiché il processo doveva
avere inizio; abbassarono lo sguardo e poi uno di loro cominciò a farmi le
domande di rito.
Mi
domandò come mi chiamassi, quale fosse il mio attuale stato sociale e quanti
anni avessi.
Quando
ebbi risposto, con tono freddo quanto il mio sguardo, a queste inutili domande,
di cui tutti loro conoscevano quasi meglio di me le risposte, furono chiamati in
causa dei testimoni.
Sebbene
profondamente disgustata da questo processo, fui incuriosita dai testimoni: ero
ansiosa di sapere di cosa fossero testimoni e di cosa mi accusassero.
Li
vedevo, erano lì: tre testimoni pronti a dire qualsiasi cosa, anche la più
assurda o crudele, pur di vedermi condannata a morte dai miei giudici.
Un
sorriso amaro mi increspò le labbra: che bisogno c’era dei testimoni quando
tutti sapevano benissimo che sarei stata condannata ugualmente?
Era forse
un modo per dare a me l’illusione di una giustizia inesistente? Davvero
credevano che io fossi così sciocca da poter anche solamente pensare di avere
una minima possibilità di salvezza?
Non ebbi
il tempo di darmi una risposta, poiché i giudici cominciarono ad interrogare i
testimoni.
Il primo
di loro depose sulla fuga di Varennes del 20 giugno di due anni fa.
Vi
ricordate la fuga di Varennes, Hans?
La si stava preparando da tempo con diversi piani di evasione,
sempre accantonati per l’indecisione di Luigi. Alla fine però ero riuscita ad
impormi e ad obbligare mio marito a seguire il vostro piano, preparato nei
minimi dettagli, basato sull’appoggio del generale Bouillé e sul principio che
il sovrano non dovesse abbandonare il territorio francese, al fine di preservare
sia il prestigio della monarchia sia quello che restava dell’autorità reale.
Avremmo
dovuto quindi rimanere nella piazza forte di Montmedy, sotto la protezione delle
truppe del generale.
Rammento
che tutte le uscite del palazzo di Tuileries erano presidiate da militi della
Guardia Nazionale agli ordini dell’amato La Fayette, e fu da una di esse che
uscimmo, a tarda sera.
Ci
ricongiungemmo verso mezzanotte e mezza: eravamo in ritardo.
Superata
la barriera di Saint-Martin, stranamente priva di sorveglianza, lasciammo la
carrozza, salimmo sulla berlina reale, che ci attendeva fuori dalle mura, e ci
avviammo verso la nostra destinazione, sostando circa ogni ora e mezza per il
cambio dei cavalli, che voi avevate preventivamente predisposto.
Foste
sempre voi che, travestito da cocchiere, guidaste la berlina del re fino a Bondy.
Sebbene
arrivare fino a Varennes sia stato inutile, vi ringrazio per tutto quello che
avete fatto per la famiglia reale.
Dopo
questo primo testimonio, fu il turno di un secondo, il quale mi accusava di aver
dato da bere a dei soldati svizzeri il 10 agosto del 1791 ed anche per aver
inviato somme di denaro a mio fratello, l’imperatore Giuseppe, in Austria.
Se devo
essere sincera, caro Hans, l’accusa riguardante i soldati svizzeri non l’ho
compresa ancora oggi, ma del resto che importanza può avere? Bastava che fosse
un’accusa contro di me ed ai miei giudici sarebbe andata bene.
Ascoltai
tutte queste incriminazioni senza mostrare il minimo turbamento, senza abbassare
lo sguardo né fare altro che non fosse ascoltare e, dentro di me, ridere
amaramente per l’assurdità di certe affermazioni.
Infine
però, si presentò davanti ai giudici il terzo testimonio: il suo nome era Hébert.
Gli fu
chiesto di esporre la sua accusa, ed egli cominciò con un cenno del capo ed un
sorriso diabolico, che mi fece correre un brivido lungo la schiena; per fortuna
nessuno si accorse di questo mio turbamento.
Le parole
che uscirono dalla sua bocca mi scuotono ancora l’animo più profondamente di
qualsiasi bestemmia.
Esse
colpirono il mio cuore così profondamente che le rammento tutte, dalla prima
all’ultima, ed ora, seppure la mia mano protesti con il suo tremore, io le
riporterò, affinché si sappia la verità.
Dopo
essersi presentato, il testimonio cominciò col dire di essere stato incaricato
di parecchie missioni importanti che gli avevano provato la mia cospirazione;
più precisamente un giorno, alla prigione del Tempio, egli disse di aver trovato
un libro da messa, appartenente a me, all’interno del quale c’era uno di quei
simboli controrivoluzionari consistenti in un cuore infiammato, trapassato da
una freccia, con la scritta: “Jesu, miserere nobis”.
Un’altra
volta, egli trovò nella stanza di Elisabetta un capello che fu riconosciuto
essere appartenuto a mio marito Luigi. Questo non gli permise più di dubitare
che tra i suoi colleghi esistessero uomini capaci di degradarsi al punto da
servire la tirannide.
A questo punto della narrazione, Hébert disse di ricordarsi che,
un giorno, Toular era entrato con il cappello nella torre, e ne era uscito a
testa nuda, asserendo di averlo perduto. Aggiunse che Simon gli aveva fatto
sapere di aver qualche cosa d’importante da comunicargli ed egli allora si era
recato al Tempio, accompagnato dal maire e dal Procuratore generale della
Comune.
Essi qui ricevettero una dichiarazione da parte di mio figlio,
dalla quale risulta che all’epoca della fuga di Luigi Capeto a Varennes, La
Fayette e Bailly fossero tra coloro che più si erano prestati a facilitarla; che
essi avessero a questo scopo passato la notte al castello e che durante il
nostro soggiorno al Tempio, Elisabetta ed io, che all’epoca di cui parlava
Hébert condividevamo ancora la stessa prigione, non avessimo cessato per molto
tempo di essere informate di ciò che avveniva fuori, poiché ci venivano passate
delle corrispondenze negli stracci e nelle suole.
Luigi
nominò tredici persone, le quali si erano adoperate in parte a mantenere queste
intelligenze; egli disse anche di aver sentito, dal vano della torretta nella
quale era stato rinchiuso assieme a sua sorella, la persona menzionata che
diceva a me: “Vi procurerò ogni giorno il modo di saper notizie, mandando uno
strillone a gridare presso la torre i giornali della sera”.
Infine
mio figlio, la cui costituzione fisica deperiva di giorno in giorno, fu sorpreso
da Simon intento a polluzioni indecenti e funeste per le sue condizioni; il
bambino, avendogli domandato Hébert chi gli avesse insegnato quel delittuoso
maneggio, rispose che doveva a me ed a sua zia la conoscenza di questa viziosa
abitudine.
Dalla dichiarazione che Luigi aveva fatto alla presenza del
maire di Parigi e del Procuratore, osservò il terribile testimonio,
risultava che Elisabetta ed io lo facessimo spesso dormire in mezzo a noi; che
molte volte avessimo commesso atti della più sfrenata licenza e che non ci fosse
nemmeno da dubitare, a quanto si rilevò dallo stesso Luigi, che vi fosse stata
un’azione incestuosa tra madre e figlio.
Hébert infine disse che si aveva motivo di credere che questo
criminoso consiglio non fosse suggerito da carnalità, ma dalla speranza politica
di snervare il fisico del ragazzo, al quale piaceva ancora figurarsi destinato
ad occupare un trono, e su cui si voleva assicurare con tale manovra il diritto
di dominarne il morale; che per la stanchezza nervosa da lui procacciata, si era
stati costretti a mettere al fanciullo un apparecchio medico, e che da quando
egli non è più con me, va riacquistando un temperamento robusto e vigoroso.
Concluse con questa affermazione, che avrebbe ferito il cuore di
qualsiasi madre, anche la peggiore, più in profondità di una lama.
Il mio volto rimase impassibile, ma dentro di me tutto era in
subbuglio.
Anche allora credevo che nulla avrebbe potuto ferirmi, farmi
male, ma mi ricredetti dopo aver ascoltato la testimonianza di Hébert; solo ora,
dopo averla udita, posso asserirlo.
Non sapevo più cosa pensare: ero innocente, mai avevo fatto
quanto asseriva quell’uomo orribile, ma non potevo sapere se quelle parole
fossero solo calunnie partorite dalla sua bocca e dalla sua mente, o se fossero
davvero state pronunciate da Luigi.
Non sono mai stata una buona madre, e lo so, ma davvero mi sono
comportata così male da spingere i miei figli ad odiarmi e far crescere dentro
di loro il desiderio di vendicarsi di me calunniandomi?
Forse l’unico rammarico che ho, caro Hans, è quello di dover
morire domani senza sapere la verità sui miei figli; senza sapere se questa
accusa di mio figlio Luigi fosse vera oppure totalmente inventata da Hébert.
Egli mi ha inflitto il più terribile dolore; dolore che porterò
con me verso la morte.
Questa deposizione era stata fatta in un cupo silenzio, e quando
Hébert ebbe finito, un fremito di orrore corse per l’uditorio, scuotendolo.
Per
quanto l’odio di tutti i presenti nei miei confronti fosse implacabile, esso a
questo punto cadde e si rivoltò contro il miserabile.
Dopo
questo attimo di orrore, mi fu chiesto che cosa rispondessi all’accusa.
Io dissi
con freddezza e distacco, che ora come ora fatico a credere di aver potuto
adottare, di non essere a conoscenza dei fatti di cui parlava Hébert, ma che il
cuore a cui egli aveva accennato, era stato regalato da mia figlia Maria Teresa
a suo fratello; per quanto riguardava il capello invece, esso era un dono che
mio marito Luigi aveva fatto a sua sorella Elisabetta prima di morire.
I giudici
mi domandarono anche se gli amministratori, Michonis, Jobert, Marino e Michel,
non conducessero persone con loro quando venivano da me.
Io
risposi con sincerità a questa ed a tutte le domande che seguirono, fino a che
non mi fu rivolta quella tanto temuta.
Mi fu
chiesto, poiché uno dei giurati disse che non avevo risposto intorno al fatto di
cui aveva parlato Hébert, cosa fosse realmente avvenuto tra me e mio figlio.
Solo a
questo punto cedetti; pur mantenendo un comportamento dignitoso, la voce mi si
spezzò e gli occhi mi bruciarono, ma non piansi: dissi solo che la natura si
rifiutava di rispondere ad accuse simili fatte ad una madre.
Nonostante il mio stato d’animo, riuscii a lanciare una rapida occhiata ai miei
giudici, e fui sorpresa di vedere che, nonostante l’odio che nutrivano nei miei
confronti, non potevano non condividere la mia commozione, né potevano pensarla
diversamente da me circa l’accusa infondata d’incesto e fornicazione.
Durò solo
un attimo, ma fu un attimo di inattesa solidarietà che mai mi sarei aspettata di
ricevere dai miei giudici.
Dopo
questi primi tre testimoni, si affrettarono a chiamarne altri: numerosissimi
uomini mi passarono davanti in veste di testimoni, asserendo le cose più strane
ed accusandomi delle più assurde, ma nessuna di queste accuse fu più crudele di
quella pronunciata Hébert.
Sebbene
non ricordi più il loro numero, né le accuse che mi lanciarono, rammento
perfettamente che uno di loro era Simon il calzolaio, l’uomo a cui era stato
affidato mio figlio Luigi, il quale non fu però neppure interrogato riguardo ai
fatti accennati da Hébert.
Sebbene il mio cuore fosse in pezzi, ebbi almeno la consolazione,
seppur misera, di vedere i miei giudici riconoscere l’infamia dell’oltraggio
recato ai miei sentimenti di madre.
Tutto il
resto del processo è rimasto nella mia mente come una serie di immagini
sfuocate, disgiunte; non mi scomposi neppure quando mi condannarono solennemente
a morte: la ferita recata al mio cuore era così grande e profonda che
nient’altro avrebbe potuto turbarmi.
Ora che
vi ho raccontato quello che accadde durante il mio processo, caro Hans, mi sento
più libera, sebbene il dolore dimori sempre nel mio cuore, ed il dubbio che le
terribili parole di Hébert siano davvero state pronunciate da mio figlio mi
affligge.
Il poco
inchiostro a mia disposizione sta finendo ed il braccio mi duole, poiché mai
l’ho utilizzato così a lungo come ora da quando sono qui.
Rinchiusa
nella mia prigione a Conciergerie, attendo le dodici di domani, ora in cui dovrò
dire addio alla vita.
Non ho
assistito alla decapitazione di mio marito Luigi, ma ora che anche il mio
momento è vicino, nella mia mente appaiono terribili particolari, quasi fossi
stata lì.
Ricordo
che gli fu dato appena il tempo di salutare me, sua sorella ed i nostri figli
prima di essere trascinato fuori dal Tempio in malo modo.
Mi fece
male vedere il buon Luigi, che io tante volte avevo disprezzato e fatto
soffrire, essere maltrattato in quel modo dal suo stesso popolo, che un tempo lo
aveva anche amato per la sua bonarietà. Non mi ero mai accorta di quanto fosse
indifeso, vulnerabile e bonario Luigi, poiché troppo intenta a vedere i suoi
difetti, quali la goffaggine, l’ingenuità, l’obesità e mille altri.
Dalla
stretta finestra della mia prigione, vidi il carro che lo portava verso Piazza
della Rivoluzione, poiché il luogo della decapitazione era stato spostato da
Piazza del Carosello a lì, dove era situata la ghigliottina.
La
Conciergerie è troppo lontana da Piazza della Repubblica perché io potessi
vedere qualche cosa, ma spero vivamente che Luigi sia morto bene e con dignità;
dico questo perché, quando lo vennero a prendere, lo vidi comportarsi con una
compostezza e freddezza di cui non lo credevo capace.
Il
silenzio calò su Parigi alle dieci di quella mattina, ed allora capii ed intuii
che tutta la città doveva trovarsi in piazza e che presto sarebbe avvenuta
l’esecuzione.
Quel
silenzio di morte era più terribile di qualsiasi urlo di dolore, e vedere le
strade di Parigi così deserte, peggio che assistere forzatamente alla
decapitazione.
Mentre
ascoltavo il silenzio della città, il quale mi rimbombava nelle orecchie più
dello scalpiccio degli zoccoli di cento cavalli da guerra lanciati al galoppo
per la sua intensità, mi parve di vedere Luigi andare al patibolo.
Non
discersi la sua espressione, ma vidi il boia ed il suo assistente mentre lo
costringevano ad inginocchiarsi e gli posizionavano la testa sotto la grande,
incombente lama della ghigliottina.
Nella
mia mente vidi chiaramente il giustiziere che gli legava le mani, lo
immobilizzava sulla tavola orizzontale ribaltabile e gli fissava il collo
nell’incavo. Passarono lunghissimi istanti prima che udissi, sempre nella mia
fantasia, il colpo secco della lama, che avrebbe dovuto decapitare e far
rotolare nella cesta la testa del re di Francia, il quale era però morto, di
questo sono certa, come cittadino Luigi Capeto, e non come re Luigi XVI.
Non so
in realtà in che modo sia morto, né mai lo saprò, ma spero non abbaia sofferto e
che non abbia dato modo ai Francesi di deriderlo, ma che si sia comportato da
re.
Come quel
giorno vidi con chiarezza, nella mia mente, le immagini della decapitazione di
Luigi, ora io vedo me stessa, amato Hans, mentre percorro la via che porta a
Piazza della Rivoluzione, accompagnata dalle occhiate e dalle parole di odio dei
Francesi. Vedo me stessa intenta a salire quegli stessi scalini che salì Luigi
il 21 gennaio di ormai un anno fa; pochi scalini di legno che mi separano dalla
morte.
Ma non ho
paura, caro Hans, non ho paura di andare in contro alla morte, ma la affronterò
con dignità e freddezza, poiché queste ormai sono le mie principali doti, ed il
dolore il mio principale sentimento.
Pregate
per me almeno voi, Hans; pregate per la mia anima, affinché il Signore possa
averne misericordia quando arriverà il Giorno del Giudizio.
Ho patito
le pene più terribili in questa prigione e l’Inferno non potrà essere peggiore.
Mi hanno
tolto i miei figli adorati, i quali sono, e sempre sono stati, il mio bene più
caro, senza neppure darmi il tempo necessario per salutarli degnamente,
costringendomi ad aspettare ore intere prima di poter vedere di sfuggita l’amato
volto di mio figlio attraverso una fessura e per un solo attimo; attimo breve,
ma che mi illuminava la giornata, portando per pochi, splendidi secondi, la
felicità nel mio animo.
I miei
bambini saranno sempre dentro di me, nel mio cuore, ed anche ora i miei pensieri
volano in continuazione a loro, che amo più della mia vita, la quale ormai conta
ben poco.
Parlare con voi, mio caro Hans, mi ha fatto bene, e spero che
almeno voi piangerete per me.
Vi ho molto amato in vita ed anche nella morte vi amerò; amatemi
anche voi come un tempo e pregate per me.
Au revoir
caro amico.
Anzi, il mio saluto per voi sarà
Auf Widersehen,
poiché di francese preferisco non avere più nulla.
La Francia mi ha creato, ma ora mi distrugge, ed io domani morrò
dignitosamente: quello che imbratterà il patibolo sarà il mio orgoglioso sangue
austriaco.
Auf Widersehen, amato Hans: non dimenticatemi.
Sinceramente vostra
Maria Antonietta d’Austria-Lorena.
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