You say I'm
fixed, but I still feel broken
(That Day;
Tokio Hotel)
Tic tic tic.
Il rubinetto
perdeva nel bagno della suite 130.
Era l'hotel più
lussuoso in cui avesse mai messo piede – e lui, di hotel, ormai
se ne intendeva – con tende di pesante velluto bordeaux e
lampade decorate in oro zecchino, eppure il rubinetto perdeva.
Tic tic tic.
A torso nudo,
soltanto un asciugamano bianco legato intorno ai fianchi, Tom Kaulitz
osservò attentamente l'immagine che lo specchio davanti a sé
gli rimandava: il jet-lag non è uno scherzo, questo dicevano
chiaramente le occhiaie violacee che si ritrovava –
comprensibilmente – dopo giorni di sonno pessimo o quasi
assente. Ma tutto sommato, aveva il suo fascino anche così;
anzi, forse l'aspetto stanco gli dava un'aria più
interessante, più vissuta. Certo era che non si sarebbe messo
fondotinta, correttore o altre sciocchezze simili. Già gli
scocciava lasciarsi truccare per forza quando avevano servizi
fotografici e apparizioni televisioni. Almeno per quella sera, dato
che non erano previsti né telecamere né paparazzi, si
sarebbe risparmiato la tortura.
Tic tic tic.
Quel maledetto
sgocciolio s'infilò di nuovo tra i suoi pensieri. Innervosito,
Tom assestò un colpo a piena mano al rubinetto, senza peraltro
risolvere nulla e anzi facendosi un gran male.
Mordendosi le
labbra per non gridare o bestemmiare, si trascinò verso il
letto sfatto, dove aveva posato i vestiti per la serata. Senza alcuna
voglia, iniziò ad infilarsi i boxer.
Si chiese se non
fosse malato: avrebbe preferito restarsene in camera a strimpellare
la sua chitarra, o anche a dormire, piuttosto che scendere nella sala
super-lussuosa gremita di gente noiosa e raccomandata.
Non aveva voglia
di bere. Non aveva voglia di guardare le gambe, i culi e le tette
delle ragazze che gli si sarebbero inevitabilmente affollate intorno.
Non aveva nemmeno voglia di chiudersi in ascensore con una di loro,
la più carina o la più disponibile. In breve, quella
sera non aveva voglia di essere Tom Kaulitz. Era da un po' che quel
pensiero gli tendeva subdoli agguati, ed ora finalmente era esploso
con tutta la sua prepotenza: era stufo di essere uno stereotipo
ambulante.
Ma non era quello
il momento. Doveva scendere e sarebbe sceso: non si sarebbe tirato
indietro.
Finì di
vestirsi scacciando gli ultimi dubbi e rimandando le riflessioni
all'indomani.
Con la mano ferma
e decisa, Isolde Wilson finì di sistemare gli ultimi dettagli
del suo trucco impeccabile. Si concesse un'ultima occhiata
compiaciuta allo specchio prima di gettarsi sulle spalle il cappotto
e infilare la porta con passo deciso. Era bella ma non perfetta, e
sapeva benissimo entrambe le cose; ma sapeva anche che comportandosi
come se fosse irresistibile, lo sarebbe diventata agli occhi di
tutti. Era un piccolo ed indispensabile trucco che aveva imparato da
sua madre fin da quand'era bambina, ed aveva sempre funzionato alla
perfezione.
E quella sera
soprattutto ne aveva estremo bisogno.
Salì in
macchina e mise in moto, ripassando mentalmente la strada da
percorrere.
Poteva farcela,
anzi ce l'avrebbe fatta sicuramente, se lo sentiva. Abbassò il
finestrino e lasciò che l'aria fredda della sera le
accarezzasse la pelle liscia e pallida del viso. Aveva freddo, ma le
piaceva: le dava la sensazione di essere viva in ogni centimetro del
suo corpo. Come se un centinaio di spilli pungenti la stimolassero
con lievi ma continue punture a tenere tutti i sensi all'erta. In
più, poteva sentire ogni nervo tendersi, pronto a reagire al
minimo stimolo; si sentiva come un predatore in agguato, pronto a
balzare sulla preda, e in un certo senso lo era.
Sì, quella
sera era decisamente in forma.
Nella sala, tutto
era esattamente come Tom si aspettava: luci, musica, cocktail
raffinati, cravatte e camicie stirate, minigonne più o meno
visibili, scollature più o meno piene, tacchi vertiginosi.
Tutto come sempre, tutto come gli era sempre piaciuto; ma quella sera
decisamente qualcosa non girava per il verso giusto. Decise che si
sarebbe appartato in un angolo da solo – per quanto potesse
essergli possibile, con tutta quella gente e soprattutto quelle
ragazze che non aspettavano altri che lui – con una bottiglia
di vodka. Una volta ubriaco, poi, i casi erano due: o l'alcol gli
avrebbe dato la carica che quella sera sembrava mancargli e allora la
mattina
dopo si sarebbe
svegliato con uno o più esseri di sesso decisamente femminile
e dall'identità imprecisata; oppure sarebbe definitivamente
crollato, e allora probabilmente si sarebbe ritrovato al cesso a
vomitare con Bill che lo fissava a metà tra la compassione e
il disgusto.
In ogni caso,
decise che non gli importava cosa sarebbe successo dopo: l'importante
era fare qualcosa per uscire da quello stato pietoso.
Pronto a mettere
in atto il proprio piano autodistruttivo, localizzò con lo
sguardo il bar mentre entrava con gli altri nella sala.
“Ehi Tomi,
come mai sei così silenzioso stasera?” gli chiese Bill,
con la sua migliore vocetta da cerbiatto indifeso.
“Devo
pareggiare i tuoi difetti” ribatté lui, lanciando
un'occhiataccia al gemello. In realtà, gli aveva risposto in
modo più acido del necessario, a causa di tutto il nervosismo
e l'irritazione che aveva dentro. Se ne accorse subito, ma non disse
nulla, in parte per non peggiorare la situazione, e poi perché
non aveva nemmeno voglia di discutere.
Georg sbuffò,
scambiandosi un'occhiata d'intesa disperata con Gustav.
“Ecco che
cominciano anche stasera … “ bofonchiò il
batterista, ben attento a non farsi sentire dai gemelli.
Erano davvero
insopportabili quando iniziavano a discutere per stupidaggini di quel
genere; dopo anni che li conosceva, ancora non ci aveva fatto
l'abitudine. L'aveva sempre considerato un comportamento molto
stupido, infantile e inutile, oltre che fastidioso per chiunque
avesse la sfortuna di trovarsi nel raggio di mezzo chilometro. Alla
fine, si volevano un gran bene, quei due; erano davvero inseparabili,
nessuno dei due sarebbe sopravvissuto un giorno senza l'altro a
fianco. Da quando li aveva conosciuti, aveva rivalutato quelle
stronzate che si dicono sempre sui gemelli, e aveva scoperto che non
erano affatto stronzate: era vero che se uno stava male, stava male
anche l'altro, era vero che riuscivano a capire tutto ciò che
l'altro stava pensando senza dire mezza parola, solo con uno sguardo
veloce. Quello che ancora non capiva era perché avessero tutti
questi problemi a sopportarsi e ad ammettere questo legame profondo
come quasi nient'altro al mondo. Gustav pensava che fosse una gran
fortuna avere qualcuno così accanto; invece, quei due
passavano il tempo a prendersi a parole per cose di nessuna
importanza. Nessuno dei due aveva un carattere facile, anzi; però
avrebbero anche potuto sforzarsi di sopportare più
pacificamente i difetti reciproci, come d'altra parte facevano tutti
quelli che li conoscevano. Ma niente, non sarebbero mai riusciti a
capirlo.
Una gomitata di
Georg lo riscosse dalle sue riflessioni.
“Stasera ci
divertiamo, direi” considerò il bassista con un sorriso
che gli si allargava sempre più mano a mano che lasciava lo
sguardo vagare sulla folla.
Gustav lo imitò,
anche se quello spettacolo non risvegliò la stessa
soddisfazione ed eccitazione: certo, era pieno di ragazze belle,
bellissime, stupende, modelle e giovani attrici, vincitrici di
concorsi di bellezza più o meno famosi, fisici perfetti e
sguardi intriganti. Ma lui aveva sempre pensato che fossero un po'
tutte uguali, quelle così, un po' tutte vuote, un po' tutte
noiose. Sotto quel punto di vista, era molto più simile a Bill
che non agli altri due: credeva che un rapporto dovesse essere basato
su qualcos'altro oltre all'attrazione fisica, e non gli piaceva
“riempire i buchi” con storie da una notte o poco più.
“Buona
caccia” rispose all'amico con un sospiro, e con una pacca sulle
spalle si allontanò da lui, preparandosi ad annoiarsi.
L'ingresso era,
come c'era da aspettarsi, gremito di gente: paparazzi, giornalisti,
curiosi … soprattutto, c'erano una miriade di ragazze da
quindici ai venticinque anni che sembravano del tutto impazzite:
spingevano, urlavano e supplicavano i buttafuori di farle entrare.
Pregustando i loro sguardi d'odio puro che presto avrebbe sentito
bruciarle la nuca, si incamminò con passo deciso verso
l'entrata.
Il buttafuori
aveva un cipiglio quasi feroce, ma non sembrava molto più che
pura facciata per sembrare convincente nel suo ruolo. Scorse Isolde
con la coda dell'occhio, e probabilmente stava per dirle, come faceva
con tutte le altre, di stare indietro; la ragazza approfittò
della breve pausa di stupore dell'uomo, che rimase come pietrificato
non appena incontrò il suo sguardo, per dire con la voce più
innocente che avesse: “Sono sull'elenco”. Con l'aria di
non crederle affatto, il il corpulento buttafuori la squadrò
ancora; sembrò che facesse uno sforzo, anche se cercò
attentamente di mascherarlo, quando le staccò gli occhi di
dosso per controllare la lista.
“Nome?”
“Isolde
Wilson”
L'uomo scorse
tutti i nomi con un sopracciglio alzato per arrestarsi quasi alla
fine; sorpreso, rialzò gli occhi su di lei.
“Ok, entri
pure”
Prima che la
musica e il chiacchierio della festa la avvolgesse, fu molto
soddisfatta di sentire alle sue spalle le urla inferocite di protesta
delle ragazze più vicine all'entrata che avevano seguito la
scena, e che presumibilmente si affrettarono a raccontare l'accaduto
anche a quelle più indietro, dato che i cori di insulti e
proteste si gonfiò e la seguì come uno strascico.
Isolde sorrise
alle luci della sala, avvertendo decine di paia d'occhi che la
fissavano insistenti.
Si sentiva a suo
agio. Si sentiva padrona di sé.
Sentiva che
avrebbe potuto fare qualsiasi cosa.
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