Personaggi
Siverius Nilboloc: ricco mercante.
Lory: moglie di Siverius.
Holverius Nilboloc: figlio maggiore di Siverius e Lory, mercante.
Kathya: moglie di Holverius.
Beryl Nilboloc: figlia di Holverius e Kathya.
Crown Cameron: fidanzato di Beryl.
Umbia Nilboloc: figlia minore di Siverius.
Lord Pier Boxis: ricco armatore di nobile famiglia, marito di Umbia.
Viator Berifaol: socio di Nilboloc.
Petra Berifaol: moglie di Viator.
Daniel Berifaol: figlio di Viator e Petra.
Harvey Percy Cragg: capitano della I compagnia della Guardia di Elos.
Bartholomeus Winthrop: maggiordomo di casa Nilboloc.
CAPITOLO 1
Siverius Nilboloc osservava soddisfatto la tavola imbandita.
Quell'opulenza esprimeva il potere e il successo che lui aveva saputo
guadagnarsi nella vita. Sulle ricche tovaglie, sulle stoviglie, sulle
stesse sedie meravigliosamente intagliate, le sue iniziali
campeggiavano fastosamente, per ricordare a tutti che lui era il
signore di quella casa e che tutto quello che si vedeva, gustava,
odorava, era suo.
Anche, e soprattutto, i commensali che, di lì a poco, si sarebbero
seduti a quel desco per la tradizionale cena di fine anno.
Assiso su un antico trono foderato in prezioso velluto ricamato con il
suo monogramma, il mercante più ricco e odiato di Elosbrand[1]
sorrideva
compiacente allo smilzo maggiordomo che pareva volteggiare intorno alla
tavola, impartendo ordini secchi ai camerieri, in modo che tutto fosse
in perfetto ordine per l'inizio della cena. L'aveva assunto da tre mesi
con referenze lusinghiere e aveva dimostrato subito di meritarsele
tutte. Siverius Nilboloc si complimentò con se stesso per la sagacia
che aveva sempre dimostrato nello scegliere collaboratori e servitù.
Era un uomo di struttura massiccia, di altezza media e dai lineamenti
regolari. Le rughe del volto aggiungevano fascino ai suoi occhi
azzurri, vivaci, pieni di vita ma capaci di velarsi di una freddezza
mortale. La bocca sprezzante dalla mandibola volitiva sogghignò con
maggior soddisfazione quando intercettò gli sguardi seccati
dell'anziano servitore, rivolti a una giovane e avvenente sguattera che
pareva non aver voglia di lavorare. Ammiccò alla ragazza. Aveva
lavorato per lui, e bene, durante la notte, dunque era giusto che si
risparmiasse per le nuove mansioni che il padrone le aveva assegnato.
Sorrise ancora alla ragazza che gli mandò un bacio.
Un rumore alla sua destra lo fece voltare.
Due occhi fiammeggianti gli fecero capire che la sua adorata
mogliettina aveva visto la scena e capito tutto. Sospirò. Possibile che
non si fosse ancora rassegnata? L'aveva resa una delle donne più ricche
della provincia, le aveva dato una posizione invidiabile. Cos'altro
voleva? Le sorrise con aria di sfida. Se avesse osato dire una sola
parola, l'avrebbe sbattuta sulla strada, proprio là da dove proveniva.
Lory Nilboloc abbassò lo sguardo, sconfitta, una volta di più. Era
ancora bella, nonostante le oltre sessanta primavere. I suoi lineamenti
delicati riflettevano l'aristocrazia delle sue origini. Purtroppo,
queste non erano accompagnate da un adeguato patrimonio personale che,
forse, le avrebbe permesso di fare altre scelte dopo che il suo
matrimonio si era rivelato un'infinita serie di delusioni e
umiliazioni. Si voltò e uscì rapidamente dalla stanza, quasi
travolgendo il suo figlio maggiore che si scansò rapidamente. Holverius
Nilboloc impiegò solo un attimo a comprendere cosa doveva essere
accaduto.
«Stavolta chi era?». Sospirò, rivolgendosi al padre.
«Ha importanza? Impari a stare al suo posto!».
«Teoricamente ci sta provando. Solo che lo trova sempre occupato...».
«Il suo posto è quello che le indico io di volta in volta. E se lo
faccia piacere o la sbatto fuori».
Holverius Nilboloc assomigliava in tutto e per tutto a suo padre, a
eccezione della pazienza, della quale era decisamente meglio fornito, e
dell'altezza, visto che lo sopravanzava di tutta la testa.
«D'accordo, lasciamo stare... oggi pomeriggio ho visto Calver».
«Il vasaio?».
«Proprio lui. Dice che non ce la fa con l'affitto».
«... e ha tante bocche da sfamare. Storia vecchia. Che gli hai
risposto?».
Il giovane mercante sogghignò.
«Che se ha fatto tanti figli è un problema suo. Si è divertito. Ora che
paghi».
«Sono orgoglioso di te, figliolo». Un largo sorriso comparve sul volto
di Siverius.
«Guarda che è capace di ammazzarsi. L'ho visto davvero disperato».
«Un buono a nulla in meno. Ma pagherà, ne sono certo. Gli manca il
coraggio e la dignità per suicidarsi davvero. Comunque non sono fatti
nostri».
«Bene, argomento chiuso, allora. Hai visto mia moglie?». Holverius era
ormai abbastanza avvezzo a trattare col padre da capire al volo quando
fermarsi. E, soprattutto, a nascondere accuratamente quegli scrupoli
che persistevano a infastidirlo e che suo padre era stato tanto
fortunato da non conoscere mai.
«No, qui non è venuta. Sarà a spettegolare con tua sorella. Ah,
Holverius?».
«Sì?».
«Se quell'idiota dovesse davvero suicidarsi, quel fondo potrebbe
interessare a messer Basil, l'erborista».
«Ottima notizia, questo rende ininfluente cosa farà quel vecchio scemo.
Me ne ricorderò. Vado a cercare Kathya».
«Bartholomeus dice che fra mezzora si cena. Vedi di farla arrivare in
tempo. E anche quella cretina di tua sorella». Un lampo maligno passò
negli occhi di Holverius.
«A proposito di cretini, c'è Crown che ti vuole parlare. Quel tipo è
sempre più arrogante ... quando ti deciderai a metterlo al suo posto?».
Il fidanzamento fra Crown Cameron e Beryl, l'unica figlia di Holverius,
era stato approvato proprio dal nonno, mentre il padre aveva sempre
visto con scarsa simpatia quello sfrontato giovanotto.
Il viso di Siverius s'incupì bruscamente.
«Presto. Molto presto. Fallo passare nello studio e disponi che nessuno
si avvicini».
«Aspetta, c'è un'ultima cosa». Il volto severo di Holverius pareva
seriamente preoccupato.
«Dimmi».
«Tu sai che mamma possiede un anello nel cui castone è nascosto del
veleno?».
«Naturalmente. Ogni tanto mi minaccia di servirsene ma sai benissimo
che non oserebbe mai. Da chi l'hai saputo?».
«L'ha scoperto mia figlia, per caso. Le aveva chiesto un anello per
stasera e mamma le ha detto di scegliere quello che preferiva. Quando
Beryl l'ha preso è mancato poco che le pigliasse un attacco isterico».
«Tipico. Comunque è escluso che tua madre possa servirsene».
«Nemmeno per fare una sciocchezza?».
«Non pensarci nemmeno. La conosci. Da lei mi aspetto una scenata coi
fiocchi, un bel po' di strida ma nulla di seriamente pericoloso.
Piuttosto, fammi andare da quel fenomeno del tuo futuro genero».
Scuro in volto, messer Nilboloc si alzò e si diresse a passo rapido
verso il suo studio. Non si accorse, o fece finta di non accorgersi,
del bacio inviatogli dalla servetta sorridente.
Lo studio si trovava al primo piano della torretta quadrata che
sovrastava il palazzotto del mercante, occupandolo completamente. Le
finestre, chiuse da preziose vetrate, erano protette da massicce
griglie di bronzo e velate da pesanti tendaggi, capaci di escludere
completamente la luce esterna.
A sinistra dell'ingresso spiccava un ampio focolare acceso, davanti al
quale si trovava un tavolino rotondo circondato da tre sedie. La parete
di sinistra era occupata quasi completamente da enormi scaffali
ingombri di libri.
Nel centro della stanza, una grande vasca di marmo a forma di grosso
pesce, ospitava alcuni rarissimi esemplari di carpa dorata, una varietà
orientale pressoché immangiabile ma dallo splendido colore rosso con
riflessi d'oro. Nilboloc le aveva portate con sé di ritorno da un
viaggio in oriente e le accudiva con estrema cura. Erano, diceva, la
rappresentazione vivente del suo successo negli affari. Il suo
portafortuna.
Sulla parete di destra si scorgeva una massiccia cassaforte oltre la
quale una scala conduceva alla stanza da letto che occupava il piano
superiore. In fondo alla stanza troneggiava un'enorme scrivania,
davanti alla quale si trovavano due comode poltrone. Seduto su una di
queste, un giovane dallo sguardo sfrontato lo attendeva sorridendo.
«Buona sera, riverito messere!».
«Lo era, finché non sei arrivato. Cosa vuoi?».
«Sempre diretto al cuore, eh? Cosa voglio? Voglio sapere se conoscete
Janet Palescot».
«E chi diavolo sarebbe?».
«Una delle più note sgualdrine di Elosbrand».
Siverius fissò uno sguardo d'acciaio sul giovane. Parlò a voce bassa,
con un tono estremamente controllato.
«Perché dovrei conoscerla?».
«Perché lei conosce voi, messer Nilboloc. E bene, direi».
Un sorriso ironico comparve sulle labbra del mercante.
«Cosa vuoi?».
«Diventare vostro socio ... potrei prendere il posto di Berifaol. Nel
cambio ci guadagnereste». Il sorriso di messer Nilboloc si allargò.
«Hai un bel coraggio, figliolo. Quasi potresti diventarmi simpatico».
«Dovreste avere più considerazione del mio talento ... nonno».
«Oh, ne ho ... ne ho eccome!». Il sorriso ironico si era trasformato in
un ghigno malevolo.
«Ne ... avete?». Lo stupore traspariva dagli occhi sfrontati di Crown.
«Certo, tanto da farti pedinare tutti i giorni, da quando hai messo gli
occhi su mia nipote. Vedi, di chi si sposa quella stupida m'interessa
poco, mentre voglio essere sicuro di introdurre solo serpi sdentate in
casa mia. Per questo ho acconsentito al vostro fidanzamento. Peggio per
lei».
«Mi avete fatto sorvegliare?». Il giovane si era fatto pallido, quasi
grigio.
«Sì, mio bel fanciullino. Tanto da sapere tante cose sul tuo conto,
molto più divertenti di quelle che tu sai sul mio. Cose che da queste
parti possono costare la forca».
«E lo permettereste? Fareste impiccare il futuro marito di vostra
nipote?».
«Mai, nel modo più assoluto. Puoi star certo che userei tutta la mia
influenza per farti ottenere una assai più nobile decapitazione. Ora
sparisci. Puoi restare a cena, se vuoi, ma non ti azzardare a farti
rivedere in questa stanza o ti faccio buttare fuori a calci».
«Ve ne pentirete, messere!».
«Niente affatto. Adoro essere circondato da cretini ma solo nelle
occasioni mondane».
Il giovane si alzò e si precipitò fuori dalla stanza, seguito dal
sorriso sarcastico del mercante. L'anziano uomo d'affari indugiò sulla
poltrona, gli occhi fissi sulla grande vasca ma persi chissà dove.
Berifaol ... forse ho esagerato ...
mi era sempre stato fedele ... e l'ho ripagato escludendolo dalla
maggior parte degli affari. D'altra parte, quando si tratta di soldi,
bisogna essere un po' meno rigidi e Viator è diventato sempre peggio,
invecchiando.
Gli occhi azzurri vagarono per il soffitto, soffermandosi sulla botola
che gli permetteva di guardare i pesci dorati anche dalla sua camera,
oltre che di sorvegliare lo studio.
Sospirò.
E anche Petra ... era proprio troppo
bella per farsela sfuggire ... ora è invecchiata ma a letto è sempre
una leonessa. Peccato abbia preso così male questa storia.
Sorrise. Chissà perché, le donne gli avevano sempre dato un sacco di
problemi. Gli cadevano ai piedi ma poi pretendevano di essere il centro
del suo universo. Invece, il centro del suo universo era il potere. E,
in fondo, anche il centro del loro. Alla fine, anche loro cercavano la
stessa cosa. Il potere. Lui sugli altri. Loro su di lui. E allora, cosa
pretendevano?
Si alzò e si avvicinò alla finestra. Il sole stava tramontando. Era ora
di cena. L'ora dei parassiti,
rise fra sé. Si avvicinò alla vasca osservando soddisfatto i pesci che
nuotavano placidamente nell'acqua limpida, nascondendosi e ricomparendo
fra le pietre lisce che coprivano il fondo dell'acquario.
Uscì dalla stanza fischiettando.
All'ingresso di Siverius, la sala da pranzo cadde in un silenzio
imbarazzato. Tutti i volti si puntarono verso di lui che sorrideva
sornione.
«Ma che bella compagnia! Benvenuti alla mia umile mensa! Un nuovo anno
si approssima, che sia prospero e foriero di successo e ricchezza per
tutti voi. Bartholomeus?». Il maggiordomo si avvicinò deferente.
«Possiamo cominciare, messere?».
«Ma certo. Che scorra il vino, abbondi il cibo e regni l'allegria!».
Il vino scorse e la cena fu abbondante ma l'allegria fu poca. La
tensione era costantemente presente nei sorrisi tirati, nelle voci
tremanti, negli sguardi corrucciati. Siverius era odiato dalla maggior
parte dei convitati, lo sapeva e si divertiva a schernirli. Conscio del
suo potere, era convinto che le costanti umiliazioni dei suoi
sottoposti, familiari e non, servissero ad accrescere la sua forza e il
suo dominio su di loro.
Indifferente a tutto, l'anziano maggiordomo volteggiava intorno alla
lunga tavola, dirigendo i servitori con flemmatica perizia. I vassoi
viaggiavano con regolarità e i bicchieri erano sempre colmi. Un piccolo
gruppo di strumentisti allietava, si fa per dire, l'atmosfera.
Holverius fu il primo ad alzarsi da tavola, intenzionato a terminare
alcune lettere d'affari prima di andare a dormire. Il suo spirito
pratico era indifferente alla mondanità. Sua moglie, Kathya,
un'elegante matrona dagli occhi verdissimi, orgogliosa del suo ruolo,
vestita con una veste semplice di broccato verde, adornata solo da un
filo di perle e dall'anello nuziale, non se ne accorse neppure,
impegnata com'era a chiacchierare con Umbia, la cognata, tanto bella
quanto fatua, sposata a un uomo assai più anziano ma con le
indubitabili qualità di una notevole ricchezza e del disinteresse verso
il sesso femminile, Umbia compresa. Al contrario della cognata, la
figlia di Siverius indossava una cotta damascata sulla quale ricadevano
numerose collane di vari materiali, tutti evidentemente preziosi ma non
sembrava apprezzare granché il suo invidiabile stato.
La seconda persona a lasciare la scena fu un'adombrata Beryl, in coppia
con Daniel, il figlio di Viator e Petra Berifaol. La figlia di Kathya e
Holverius, che dalla madre pareva aver mutuato lo stile giacché era
vestita esattamente come lei, aveva litigato tutta la sera con Crown,
il suo fidanzato, che era apparso di pessimo umore fin dall'inizio
della cena. Vedendo uscire la ragazza, il giovane aveva inizialmente
fatto finta di nulla per poi precipitarsi alla ricerca dell'amata,
tanto più che non ignorava l'interesse di Daniel nei confronti della
ragazza.
Accanto al padrone di casa, la conversazione languiva. Viator Berifaol,
il suo socio, recentemente estromesso dalla guida degli affari,
sembrava aver pochissima voglia di chiacchierare e se ne stava
infagottato in un'ampia tunica di velluto chiaro, dal collo della quale
emergevano solo il naso adunco e gli occhi imbronciati. Sua moglie
Petra, elegantissima nella sua veste attillata di seta dorata
largamente esposta dall'ampia sopravveste di velluto scarlatto, era
rimasta in un corrucciato silenzio per buona parte della serata,
nonostante i tentativi di Lory di coinvolgerla in una discussione con
Lord Boxis, l'anziano e nobile armatore, marito di Umbia. Le sue dita,
riccamente inanellate, tambureggiarono nervosamente sul tavolo
praticamente per tutta la sera.
Siverius, calmo e tranquillo osservava tutto e mangiava di buon
appetito, scambiando occhiate d'intesa con la servetta che lo aveva
sollazzato la notte precedente. Aveva decisamente gradito l'esperienza
e intendeva ripeterla quella sera stessa. La ragazza sarebbe stata
presto promossa ad ancella di Beryl, se avesse continuato a soddisfarlo
così. Vuotò l'ennesimo bicchiere e si alzò. Mancava un'ora a mezzanotte
ed era l'ora di prendere la polverina che gli avrebbe garantito il
vigore di un giovanotto. Ammiccò all'indirizzo della servetta e si
allontanò dalla sala, seguito da numerosi sguardi carichi di rancore,
quando non di autentico odio.
Lentamente, uno dopo l'altro, anche gli ultimi commensali abbandonarono
la sala. L'unica ad attendere la mezzanotte e il nuovo anno fu Petra
Berifaol che, nel silenzio del salone, levò un boccale di vino in un
muto brindisi davanti al ritratto del padrone di casa. Quando lasciò la
stanza per raggiungere la carrozza del marito, i suoi occhi erano
arrossati di pianto.
L'anziano maggiordomo diede ai servitori il segnale per cominciare il
riordino della grande stanza e diresse le operazioni con la solita
tranquilla precisione, fingendo di non accorgersi che una delle
sguattere mancava all'appello. Bartholomeus Winthrop aveva ormai
abbastanza esperienza dei costumi di quella casa per non scandalizzarsi
affatto. In fondo, quella servetta faceva esattamente il suo dovere.
Quasi proprio come lui.
Osservò divertito l'andirivieni di Beryl e dei suoi due spasimanti che
parevano giocare a nascondino fra le grandi sale e i giardini del
palazzo. Non si stupì nel vedere una sagoma femminile dirigersi verso
gli appartamenti di messer Nilboloc, pochi minuti dopo che questi vi
era tornato.
Quando tutto fu terminato e la casa fu immersa nel silenzio, anche
l'anziano servitore si ritirò.
Il mattino successivo, nonostante la notte quasi insonne, si alzò alla
solita ora per dirigere le attività mattutine con la consueta solerzia.
A metà mattina, messer Siverius, in genere poco avvezzo a svegliarsi
tardi, anche a causa degli effetti delle polverine che era uso
assumere, non aveva ancora fatto la sua comparsa, sicché il maggiordomo
andò a controllare quale potesse essere il motivo del ritardo.
Giunto davanti alle stanze di messer Nilboloc, fu preso da una strana
sensazione di ansia. Il silenzio era assoluto. Possibile che il padrone
dormisse ancora?
Nello studio, qualcosa mise Bartholomeus in allarme. Era entrato
tantissime volte in quella stanza ma quella mattina, per la prima
volta, ne fu turbato. Il buio silenzioso pareva nascondere una
minaccia. Un tremito percorse l'anziano che si passò una mano fra i
capelli grigi. Si fermò in attesa, tendendo l'orecchio. Nessun suono,
salvo quello del suo cuore che batteva tumultuosamente. Si avvicinò a
una delle finestre e scostò le tende, permettendo alla luce di invadere
l'elegante locale. Esaminò la stanza ma tutto pareva normale. La
scrivania era in ordine, esattamente come la sera precedente, gli
armadi e le librerie non parevano essere stati toccati, come pure la
massiccia cassaforte. Si diresse verso la scala che conduceva alla
stanza del padrone di casa. Istintivamente, nel passarci accanto, il
suo sguardo cadde sulla grande vasca e i suoi occhi miopi si
spalancarono sbigottiti. I pesci rossi galleggiavano a ventre in su.
Messer Siverius avrebbe preso assai male quella notizia, poiché
considerava quelle bestie alla stregua di talismani. Certo, era strano
che fossero morti tutti insieme. Rapidamente, rimosse le carcasse dalla
vasca, riponendole, avvolte in un panno, nella cassettina di legno che
conteneva i morbidi pennelli e gli stracci utilizzati per spolverare i
preziosi soprammobili. L'ansia aumentò, spingendolo ad affrettarsi
verso la stanza del suo padrone.
L'anziano servitore aprì con cautela la porta della camera e sbirciò
dentro. Le tende erano ancora tirate e nessuna luce filtrava
nell'alcova. Il silenzio era assoluto. Un odore vago lo mise in
allarme, trasformando l'ansia in paura. Spalancò la porta ed entrò
nella stanza. Sotto il grande baldacchino, seminascosta dai tendaggi,
s'intravedeva una figura che pareva raggomitolata, disposta su un
fianco, quasi di traverso sul letto. L'odore si era fatto più deciso e
penetrante. Mandorle, mandorle amare.
Immediatamente, Bartholomeus si avvicinò al letto, preso da
un'irresistibile angoscia.
Gli bastò un'occhiata al volto contratto del suo padrone per sentirsi
raggelare.
Morto. Gli occhi sbarrati pieni d'orrore. Le labbra coperte di schiuma.
In un attimo, il maggiordomo girò intorno al letto, accostandosi al
forziere dove messer Siverius conservava un autentico tesoro in
gioielli e monete d'oro. La serratura a combinazione era aperta e il
coperchio si spalancò senza la minima difficoltà. Il contenitore era
completamente vuoto e sul fondo spiccava un biglietto.
La porta della camera si aprì improvvisamente, facendo sobbalzare
l'anziano servitore che si volse di scatto. Holverius si stagliava nel
rettangolo di luce della porta.
«Cosa sta succedendo? Bartholomeus, siete voi?». La voce dell'uomo
pareva vagamente ansiosa.
Il maggiordomo si allontanò dal forziere con un sospiro carico
d'angoscia.
«Sono io, signore. È successo qualcosa di terribile».
«Mio padre?».
«Sì, messer Holverius. Vostro padre ... è ... morto».
«Morto? Ma cosa diavolo dici?».
L'uomo si avvicinò al letto quasi di corsa. Appena vide chiaramente il
volto del padre fece un balzo indietro mentre una bestemmia gli sfuggì
dalle labbra.
«Maledetta Dhela[2]! Bartholomeus! È morto!».
«Si direbbe avvelenato, signore». Il servitore, dopo lo sconcerto
iniziale, pareva avere recuperato la sua flemma.
«Cosa te lo fa pensare? Quest'odore?».
«Sì, signore. È tipico di un veleno assai letale. Sarebbe meglio se non
toccaste nulla».
«Ma chi? Chi ha osato tanto? Per gli Dei!». Improvvisamente, Holverius
scostò il maggiordomo e corse al forziere. Barcollò nel trovarlo vuoto
ma si riprese subito. Il maggiordomo sedette sul bordo del letto, con
il volto fra le mani.
«Cos' è questo? Un biglietto?».
Raccolse il piccolo pezzo di carta e si precipitò nel corridoio, alla
luce.
Con questo, pagate per il male che
avete commesso.
Blackwind.
[1] Grande città portuale, capitale della Repubblica di Elos
[2] la Dea della vendetta
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