Capitolo 1
Lord Bailey Windström, gentiluomo di Elosbrand.
Deckard Caine, barbaro Ariaken.
Stanley Cannon, oste del “gatto nero”.
Monia, cameriera, figlia di Cannon.
Cedric Faulkner, commerciante.
Miss Lilian Faulkner, figlia di Cedric.
Ross Calides, taglialegna.
Vernon Calides, taglialegna, fratello di Ross.
William “whip” Pasterron, domatore.
Kira, splendido esemplare di pantera nera.
Jorg Stone
(Jorgelinapgregolinapfelderinapmiliterapcaulderinaplienanapjorgelinaplilimipapcaulderinapgregolinapmiliteraplienan),
gnomo, assistente (schiavo) di William.
Jeff “blade” Barthington, acrobata.
Miriam “sugar” Deekin, acrobata, moglie di Jeff.
Oliver “Ollie” Laurel, istrione, attore, ciarlatano.
La neve turbinava, in candide volute, sulla
tenue traccia della pista che attraversava i monti, tagliandoli come un preciso colpo d’ascia. Il vento mulinava e trasportava fiocchi
mordaci e silenziosi su due viaggiatori stanchi, avvolti nei mantelli e
sulle loro bestie tremanti, costrette dalle briglie a seguire,
riottose, quel cammino. Alti abeti, torreggianti e cupi, osservavano
impassibili i penosi sforzi e i pesanti passi delle intirizzite e
fragili creature che, sfidando il gelo, osavano percorrere quei luoghi.
La voce gelida e lontana, ora cupa, ora stridula, del vento pareva
motteggiare la fatica che uomini e bestie profondevano sulla strada
montana. Tuoni lontani brontolavano ogni tanto, ammonendo i viaggiatori
che la notte, ormai prossima, sarebbe stata ancora peggiore di quel
giorno gelido e spietato.
«Non manca molto, ormai». Il viaggiatore più
alto sollevò la testa, come annusando l’aria gelida del tramonto. La
voce, bassa e profonda, s’intonava perfettamente a quell’ambiente,
quasi fosse stata l’antico accento delle conifere innevate.
«Al passo o al nostro trapasso?». Una voce
tenorile, decisamente ironica, emerse dal cappuccio più basso.
«La locanda è vicina. Sento odore di fumo».
La voce profonda echeggiò fra gli alberi, appena increspata da una nota
d’esasperazione.
«Non ti arrabbiare, vecchio mio. Se non
avessi avuto fiducia in te non sarei certamente qui, ora». La nota
beffarda era scomparsa lasciando il posto a un tono evidentemente
divertito, che fece irritare ancora di più il suo compagno.
«Non ti ho chiesto io di seguirmi».
«Questa era la via più rapida per tornare a
casa, Deckard. E tu sai che ho fretta di riprendere i miei affari. La
nostra gita è stata una piacevole digressione ma ora bisogna tornare al
lavoro. Via, non sprechiamo fiato. Sbaglio o quella è una luce?».
Indicò un punto in lontananza, seminascosto dai rami degli alberi,
dietro un’ampia curva della strada. Un punto luminoso che appariva e
spariva col vento.
«Sì. È certamente la locanda. Ci arriveremo
prima del buio». La voce bassa era ora riscaldata dalla speranza e dal
sollievo.
«Telgëa ci assiste, amico mio. Minaccia tempo da lupi per stanotte».
Un piccolo gruppo di case di sasso, strette
fra loro come freddolose comari, inghiottiva la strada montana,
succedendo agli alberi quasi senza interruzione, separato dalla foresta
imbiancata solo da uno stretto fossato. Quei poveri tetti di paglia
parevano, tuttavia, caldi e rassicuranti, in quella notte che avrebbe
certamente coperto di un gelido manto tutto ciò che circondava il
paesello.
Lo stretto cerchio di case racchiudeva una
piccola piazza, poco più di un cortile, al centro del quale troneggiava
un pozzo di pietra, già quasi totalmente innevato. In quella stagione,
sarebbe rimasto inoperoso a lungo, giacché per i paesani era
decisamente più semplice riempire i mastelli di neve, piuttosto che
manovrare la pesante e ghiacciata catena del pozzo.
Una tiepida luce filtrava dalle imposte
socchiuse di una casa, decisamente più grande delle altre,
accanto al ponticello che scavalcava il fossato. Sulla porta
pendeva una logora insegna, raffigurante un gatto nero acciambellato.
Una stalla, proprio lì accanto, offriva un rifugio anche per le
cavalcature di eventuali viandanti.
«Orsù, pensavo peggio. C’è anche ristoro per
i cavalli. Potremo fermarci finché questa maledetta tempesta non sarà
cessata del tutto». Il viaggiatore più basso si era fermato sul
ponticello, osservando soddisfatto l’edificio della locanda. «Un bel
fuoco e una cena calda ci rimetteranno in sesto, amico mio».
«Ci deve essere gente alla locanda. Qui ci
sono almeno sei cavalli. E prima del ponte ho visto alcune carrozze.
Speriamo ci sia una stanza. E la cena…». La gigantesca figura si
rivolse desolata al suo compagno, con un gesto che indicava chiaramente
i suoi dubbi di riuscire a soddisfare il suo robusto appetito.
«In qualche modo ci arrangeremo, l’oro non
ci manca e un riparo al caldo possiamo assicurarcelo. Quanto alla cena…
temo che ci vorrebbe un cinghiale tutto per te, amico mio… dovrai
accontentarti».
Luce, calore e voci chiassose vacillarono
quando la porta della locanda si spalancò. L’odore di fumo, vino e
vivande venne spazzato dal vento gelido accompagnato da tenui fiocchi
candidi. Volti curiosi fissarono gli occhi sui nuovi arrivati.
Scivolando giù dalle spalle, i mantelli innevati rivelarono quanto
fossero diversi quei due viaggiatori. Uno era molto alto, dai lunghi
capelli scuri che ricadevano sulla muscolatura possente dell’ampio
torace, vestito come usavano i barbari, con una corazza di cuoio orlata
di pelliccia e pantaloni di pelle, dai quali spuntavano morbidi stivali
di renna. Portava sulle spalle un’arma formidabile, la tradizionale
ascia doppia degli Ariaken. L’altro di statura media e corporatura esile, indossava
un’elegante guarnacca di lana azzurra bordata d’ermellino, pantaloni e
stivali di pelle nera e portava al fianco un elegante stocco dall’elsa
riccamente lavorata. Pareva un ricco gentiluomo diretto a un
appuntamento mondano, più che un viandante costretto dal gelo a cercare
rifugio nella locanda.
Monia si voltò, come tutti, a osservare i
nuovi arrivati, rischiando di far cadere i boccali di birra che stava
portando. Un gentiluomo affascinante (e probabilmente ricco) e un
guerriero ariaken, certamente la sua scorta o la sua guida. Questi
pagano, rifletté e si liberò rapidamente dei boccali. Ignorò gli
sguardi bramosi degli avventori, più interessati alle sue forme che
alla birra, si rassettò le vesti e corse incontro ai nuovi potenziali
clienti. Raggiunse agilmente quello che pareva un giovane gentiluomo e
gli si rivolse con una seducente, se non perfettamente educata,
riverenza.
«Buongiorno milord. Come posso servirvi?».
Due occhi color smeraldo si fissarono in quelli della giovane
locandiera. Due occhi che potevano accarezzare ma anche ferire. Due occhi pericolosi, valutò l’esperta ragazza.
«Col vostro sorriso, madamigella. E, se è
possibile, con una camera e una buona cena». Una voce tenorile,
musicale e dolce, scaturì dalla sua bocca ben disegnata e sorridente,
ornata da due baffetti sottili alla moda.
Monia sorrise, un’attività che le riusciva
naturale e che le tornava utile nella maggior parte delle situazioni,
poi si esibì in un nuovo elegante inchino che espose la sua
interessante scollatura agli occhi dell’interlocutore. Sapeva giocare a
quel gioco.
«Sorridere a un così bel signore è la cosa
più facile del mondo, milord. Quanto alla camera, ne abbiamo ancora
una, non è grandissima ma è pulita e calda. Accomodatevi e la cena
arriverà subito».
Indicò un tavolo abbastanza vicino al grande
camino, fece un’altra procace riverenza e si diresse verso il banco
ancheggiando agilmente fra i tavoli, seguita dallo sguardo ammirato di
molti avventori. Raggiunse il bancone, dove il locandiere, suo padre,
era alle prese con un barilotto di birra che non voleva stare sul suo
cavalletto. Lo guardò un attimo, fra il divertito e l’esasperato, poi
si avvicinò al suo orecchio.
«Pa’, questi due che sono arrivati, hanno
l’aria di gente che paga bene. Ci vai tu o me ne occupo io?».
Stanley Cannon, alto quasi due metri e largo
in proporzione, era ancora un uomo vigoroso, nonostante l’età non più
verde. Piazzò il barilotto sul cavalletto, stroncandolo, e si voltò a
osservare la
sala. Individuò immediatamente i nuovi arrivati e
sorrise all’indirizzo della ragazza.
«Un gentiluomo in viaggio con la sua guida e
guardia del corpo. Vestiti eleganti, belle armi. Brava bimba. Vado a
farci due chiacchiere ma è meglio se poi te ne occupi tu. Il tuo
fascino ci frutterà qualche moneta in più. Restano a dormire?».
«Sì. D’altronde, solo dei pazzi si
metterebbero in viaggio con questo tempo».
L’oste si passò una mano sui radi capelli
grigi e ammiccò.
«Allora, al tavolo degli artisti, ci deve
essere qualcuno abbastanza pazzo. Quell’idiota non era ancora arrivato
che aveva già litigato con Ross e Vernon e ora sta piantando grane ai
suoi compagni».
Al tavolo vicino alla parete di fondo, in
effetti, pareva essere sorta un’animata discussione. Un uomo biondo,
alto, e atletico dal volto bello e arrogante, probabilmente sulla
trentina, stava parlando concitatamente con un uomo più anziano,
decisamente sovrappeso, i cui pochi capelli neri erano abbondantemente
macchiati di grigio. Questi parlava quietamente, con un’espressione
paziente nei piccoli occhi scuri, affondati nel grasso del viso. La sua
voce suonava ragionevole ma venata di autorità, anche se non si udivano
chiaramente le parole. Una bella ragazza dai capelli rossi interloquì
vivacemente, probabilmente schierandosi dalla parte dell’uomo biondo ma
il suo intervento provocò una brusca reazione da parte del giovane
seduto al suo fianco. Questi era di statura media, all’incirca coetaneo
della ragazza dai capelli rossi, muscoloso ma snello, il fisico che
frequentemente si ritrova negli acrobati. Col suo intervento, la
conversazione si trasformò in alterco e cominciarono a volare
apprezzamenti vivaci e coloriti fra i due giovani uomini. La situazione
degenerò quando un ometto di statura quasi infantile, dal fisico minuto
e la testa sproporzionatamente grossa rispetto al corpo, evidentemente
uno gnomo, provò timidamente a dire qualcosa. La reazione del biondo fu
violenta e improvvisa: uno schiaffo che fece ruzzolare lo gnomo dalla
sedia.
«Non permetterti mai più di contraddirmi,
schiavo! Vattene! Torna nella tua tana e aspettami lì. Partiremo appena
sorgerà il sole».
Altre voci concitate si alzarono dal tavolo,
dove tutti parvero disapprovare il gesto dell’uomo. Il piccolo gnomo
sgattaiolò lontano dal tavolo, mentre il gigantesco barbaro, che aveva
osservato attentamente la scena, si alzò scuro in volto. Il suo
compagno di viaggio si accomodò meglio sulla sedia, come per gustarsi
l’imminente spettacolo.
«Deckard, vedi di non esagerare. Il signore
deve alzarsi presto, domattina». Il suo compagno non rispose, mentre si
avvicinava a grandi passi verso il tavolo degli artisti, con gli occhi
minacciosamente puntati sull’uomo che aveva colpito lo gnomo.
«Perché non provi a prendertela con uno più
grosso? Sei uno sporco vigliacco!».
Lo sguardo arrogante dell’uomo si fissò
sull’importuno. Il suo bel viso si contrasse in una smorfia di
disgustato furore e la sua voce suonò incrinata dall’ira.
«Di cosa t’immischi, bestione? Queste cose
riguardano me e il mio schiavo. Se il tuo padrone ti schiaffeggia, io
non m’immischio di certo. Cerca di fare altrettanto. Sono un tipo
pericoloso».
Gli occhi del barbaro lampeggiarono come un
cielo cupo prima di una tempesta e come un tuono echeggiò la sua voce:
«Io non ho padroni. E sono molto più pericoloso di te». Nel dir questo,
il suo pugno piombò sul tavolo, spezzandolo in due e facendo ruzzolare
dalla seggiola l’uomo grasso. Tutti si allontanarono precipitosamente
dai rottami del tavolo. Il biondo impugnò la frusta che portava al
fianco, minacciando Deckard.
«Fatti sotto, idiota. Facci vedere come sai
ballare!».
«Whip, piantala subito!».
Nonostante fosse disteso al suolo, in una posizione ben poco dignitosa,
la voce dell’anziano capo della compagnia di acrobati, risuonò
autoritaria, nella sala.
«Questo bestione ha bisogno di una lezione, Ollie, non preoccuparti, sono abituato a domarne di più
grossi». La frusta schioccò nell’aria e subito dopo saettò sul braccio
del barbaro, strappandogli una striscia di pelle.
Il guerriero non fece una piega, ma nei suoi
occhi cominciava a montare una collera che pareva poter diventare
devastante.
Avanzò di un passo.
La frusta saettò nuovamente, colpendolo.
Deckard avanzò ancora.
Un’altra frustata partì, ma il barbaro
afferrò al volo il cuoio, strappandolo bruscamente verso di sé.
L’avversario, sorpreso, non lasciò la presa con sufficiente prontezza e
si trovò trascinato verso il gigantesco barbaro, le cui mani si
strinsero inesorabili intorno al suo collo.
«Ti piace giocare? Fai saltare le bestie con
la tua frusta? Ora tocca a te saltare, sacco di letame!». La mano
sinistra di Deckard rimase stretta sul collo dell’uomo, mentre la
destra lo afferrò per la cintura, sollevandolo da terra come un
fuscello.
Un attimo dopo, il malcapitato volava per la
sala, atterrando rovinosamente davanti alla porta d’ingresso del locale.
«È inaudito! Questa cosa è inaccettabile».
Un uomo piccolo e magro, sulla cinquantina, elegantemente vestito, si
alzò rosso in volto dal tavolo accanto alle rovine
di quello degli artisti, rivolto all’oste, vanamente trattenuto dalla
giovane ragazza bionda seduta di fronte a lui.
Deckard ignorò completamente le sue proteste
e raccolse l’avversario ancora mezzo stordito, sollevandolo di peso per
attaccarlo, a un gancio che penzolava a circa due metri dal pavimento,
di quelli usati per i salumi.
«Fate cessare questa barbarie o chiamo le
guardie!». L’ometto elegante alzò la voce, portandola a un tono
alquanto stridulo.
L’oste, per la verità, pareva piuttosto
divertito, nonostante il tavolo fracassato, però non poteva ignorare le
proteste dei suoi avventori. Specie di quelli paganti, anche se poco
simpatici. Si avvicinò al barbaro che osservava soddisfatto la propria
opera.
«Per favore, signore, credo che quest’uomo
ne abbia avuto abbastanza. Rimettetelo a terra».
Deckard lo osservò distrattamente.
«Tornerà a terra appena avrà chiesto scusa
allo gnomo». Sorrise, guardando verso l’uomo appeso. Con un gesto della
mano richiamò accanto a sé la piccola creatura, ancora tremante.
«Come vi chiamate, messer gnomo?».
L’interpellato guardò il gigantesco uomo di fronte a sé e poi il suo
padrone, che dondolava appeso come un salame, rosso in volto ed
evidentemente spaventato.
«Jorgelinapgregolinapfelderinapmiliterapcaulderinaplienanap…».
Qualcuno, fra gli artisti, si schiarì rumorosamente la gola, ricordando
allo gnomo che gli umani, generalmente, non amavano sentir declamare i
nomi secondo l’usanza del suo popolo. Anche perché quei nomi
comprendevano numerosi ascendenti che, nella migliore delle ipotesi,
risalivano alla ventesima generazione.
«… ehm… tutti mi chiamano Jorg, chiamatemi
così, anche voi, milord». Il barbaro trattenne una risata e si voltò
un’altra volta verso la propria vittima.
«Chiedigli scusa o passerai la notte così».
L’uomo che rispondeva al nomignolo di whip non rispose, restando con lo sguardo fisso nel
vuoto, ancora stordito dal volo attraverso la sala e dall’umiliazione
subita.
L’omino elegante si avvicinò con fare
minaccioso.
«Ora basta. Siete solo un servo e non avete
il diritto di trattare così un signore. Ho fatto il viaggio da
Elosbrand a qui con questi artisti e posso assicurarvi che sono persone
assai più rispettabili di un selvaggio come voi».
Deckard si voltò lentamente verso l’incauto
interlocutore. Le mani si erano serrate a pugno e parevano due magli
pronti a entrare in azione. Quasi certamente avrebbe colpito l’azzimato
individuo che osava parlargli in quel modo arrogante, se il suo
compagno di viaggio non si fosse intromesso rapidamente.
«Messer Faulkner! Ma che sorpresa! Anche voi
in viaggio con questo tempo da lupi?».
L’omino rimase interdetto, osservando il
gentiluomo che lo aveva apostrofato così. Lentamente nei suoi occhietti
comparve una luce di comprensione. Aveva visto già da qualche parte
quel damerino.
«Lord… Windström?».
«Sono proprio io, messere, lord Bailey
Windström. Sono lieto che vi ricordiate di me. Ci siamo conosciuti al
ricevimento di lady Imbert, questa primavera».
Monia per poco non si mise a ridere. Un
gentiluomo di nobile famiglia che si dichiarava contento di essere
ricordato da un borghese! Eppure le parole del giovane dovettero
sortire l’effetto voluto, dal momento che messer Cedric Faulkner gonfiò
il petto e quasi arrossì di piacere, salutando con calore l’elegante
aristocratico. La rissa era scongiurata.
«Ma come potrei mai dimenticare uno dei
gentiluomini più apprezzati di Elosbrand! La vostra cortesia e
generosità sono quasi leggendarie, sapete?». Così, messer Faulkner
cominciò a chiacchierare fittamente col giovane lord, invitandolo al
proprio tavolo e dimenticandosi completamente del povero domatore,
tristemente appeso al gancio da salumi. Monia corse in cucina dove,
finalmente, poté sciogliere la risata che minacciava di farle scoppiare
il petto. Una risata con una punta d’amaro, però: che
gente meschina c’è al mondo!
Pure Stanley Cannon aveva osservato la scena
con evidente divertimento ma si stava chiedendo se realmente il barbaro
avrebbe lasciato quel tipo appeso al gancio per tutta la notte. Sospirò.
Sospettava di sì.
L’anziano capo della compagnia girovaga gli
si avvicinò con aria imbarazzata.
«Signor Cannon, Whip, ehm,
William ha un gran brutto carattere ma forse non è il caso di lasciarlo
davvero lì fino a domani».
«Signor Laurel, convincetelo a chiedere
scusa allo gnomo, perché quella specie di gigante non credo proprio che
cambierà idea. Io non ci litigo di certo, ho passato l’età delle
risse!».
«D’accordo, proverò a convincere Whip
a ragionare. Vedrete che ci riuscirò. È cocciuto ma non stupido. Voi
mettete una buona parola con quel barbaro, mi raccomando».
Il grassoccio attore si avvicinò al collega
appeso e incominciò a parlargli quietamente. Il domatore, sulle prime
sembrò disinteressato alle parole di Laurel ma, poi, la sua attenzione
parve crescere, sicché il locandiere cominciò a sperare. Quando, però,
il gigante se ne tornò al tavolo ignorando la sua vittima e dedicandosi
alla cena, riprese a preoccuparsi.
Monia tornò nella sala con ancora le lacrime
agli occhi e si avvicinò all’oste sorridendo.
«Allora? Pace fatta?».
«Per quel che riguarda il mercante, direi di
sì. Per quell’idiota appeso, invece, le trattative sono ancora in
corso. Porta un’altra razione abbondante a quel barbaro, chissà che non
lo rabbonisca».
Al tavolo di messer Cedric Faulkner,
intanto, la conversazione era sempre vivace e cordiale, con la loquace
miss Faulkner che teneva banco riferendo gli ultimi pettegolezzi di
Elosbrand da dove era partita una settimana prima.
«…e pare che Blackwind continui a depredare
i più ricchi della città!». La ragazza parlava quasi sottovoce, con
aria di chi la sa lunga.
Lord Windström le rivolse un sorriso
affascinante. Non era bella, miss Lilian Faulkner, con un naso troppo
aquilino e le labbra troppo sottili, eppure i suoi occhi grandi e
vivaci sapevano colpire chi l’avesse osservata con attenzione. Era
magra, anche troppo, con forme appena (o forse non ancora) accennate e
un po’ troppo poco femminile nell’atteggiamento ma sapeva affascinare
con una conversazione brillante, acuta e intelligente a dispetto dei
suoi diciassette anni appena compiuti. Non era bella ma aveva un suo
fascino.
«Davvero? Raccontate, mia cara».
L’aristocratico giovane pareva divertirsi un mondo, mentre il suo
compagno aveva assunto un’aria perplessa che strappò un sorriso alla
biondissima damigella.
«Non ci credete, vero? Eppure un gioiello
preziosissimo è sparito e, visto che non si capisce come abbiano fatto,
sembra proprio opera sua. Pare che sia stato rubato, proprio il giorno
prima della nostra partenza, un gioiello famosissimo: il “collare di
fuoco”, un meraviglioso girocollo di rubini che apparteneva a lady
Bracknell».
«Lady Bracknell? La moglie di lord Mark
Bracknell, il senatore?».
«Proprio lei, milord! La moglie dello
“sparviero”. Quello che si è arricchito sui fallimenti degli armatori».
Disse le ultime parole quasi sussurrando, come una cospiratrice.
«Lilian, ti prego!». Messer Faulkner parve
scandalizzato.
«Non mi interesso molto di affari economici,
miss Faulkner, perdonatemi ma non so di cosa parliate… Ma raccontateci
di questo furto mirabolante, vi prego».
La ragazza parve dispiaciuta di non essere
stata seguita sul terreno dei pettegolezzi ma era troppo contenta di
poter raccontare una storia piena di mistero, sicché proseguì con tono
professionale.
«Un colpo veramente nel suo stile: il
gioiello era chiuso in una stanzina con una porta blindata che, badate,
non è stata forzata, e senza altre aperture che una finestrella dalla
quale non sarebbe potuto passare nessun uomo».
«Se è stato davvero rubato il gioiello,
qualcuno deve pur essere entrato in quella stanza. Avranno usato una
chiave falsa o qualche altra diavoleria. Se la finestra è troppo
piccola, devono essere per forza passati dalla porta!». Obiettò il
gentiluomo. Stava per fare un’altra osservazione, quando vide l’oste
avvicinarsi al tavolo, con aria imbarazzata.
«Ehm… miei signori, quell’uomo si è scusato…
sarebbe possibile farlo scendere da lassù?».
Messer Faulkner fece un gesto infastidito
con la mano, come a significare che non era il caso di disturbarli per
una questione tanto futile. Deckard, impegnato con un’enorme bistecca,
fece finta di non aver sentito. Lord Windström sorrise e si scusò con i
commensali.
«Perdonatemi, signorina. Messer Faulkner.
Torno subito». Si alzò da tavolo e si diresse con noncuranza verso
l’uomo appeso.
«Vedo con piacere che siete una persona
ragionevole. Vogliate continuare a esserlo, signore, e badate che
questa discussione col mio amico non abbia ripercussioni sul vostro
servitore». Sguainò la spada e la fece scorrere lungo l’addome
dell’uomo. «Dovesse giungermi alle orecchie potrebbe accadervi di
perdere qualcosa di prezioso».
William whip Pasterron, domatore, acrobata
e molto altro ancora, divenne, se possibile, più pallido e fece cenno,
col capo, di aver capito.
«N-non ci saranno co-conseguenze, mi-milord.
Ve lo g-giuro».
«Bravo ragazzo!». La spada del gentiluomo
scattò come un serpente recidendo la cintura del malcapitato che rovinò
al suolo fra le risa degli astanti. Lord Windström non lo degnò di uno
sguardo e se ne tornò al tavolo dove messer Faulkner si stava
sbellicando dalle risa.
Il capo degli artisti si avvicinò
timidamente all’aristocratico giovane, proprio mentre questi stava per
riprendere il proprio posto.
«Milord, perdonate il mio uomo se vi ha
procurato disturbo. William non è cattivo. Solo un po’ arrogante, ma
dovete capirlo, è la stella del nostro spettacolo, si sente un reuccio».
«Non preoccupatevi messere. Capisco
perfettamente. Vi prego però di consigliare al vostro reuccio una
riposante dormita e di non provarsi minimamente a vendicarsi sullo
gnomo. Posso sapere con chi ho l’onore di parlare?».
«Eh? Oh, eccellenza, perdonatemi. Sono
Oliver Laurel, capocomico, cantante, alchimista e guaritore e questa è
la mia compagnia».
«Artisti girovaghi, eh? È un vero peccato
che abbiate soggiornato a Elosbrand proprio durante la mia assenza.
Avrei gradito davvero ospitarvi nel mio palazzo, amo molto l’arte, caro
mastro Laurel».
«Torneremo in primavera nella vostra bella
città, lord Windström. Permettete che vi presenti i miei compagni,
milord?».
«Ma certamente, mastro Laurel, con sommo
piacere».
«Questi è Jeff “blade”
Barthington, acrobata e giocoliere, un giovane che ha uno splendido
futuro nell’arte, credetemi, milord». Il giovane dal promettente futuro
era il ventenne di piccola statura, di bell’aspetto, snello e agile,
con glaciali occhi glauchi che si era quasi azzuffato col collega.
Guardò con sospetto l’aristocratico gentiluomo ma si esibì in un
inchino educato, dimostrando rispetto per l’anziano capocomico.
«… e questa è sua moglie, l’affascinante
Miriam “sugar” Deekin. Acrobata, ballerina, cantante e
attrice, la perla della nostra compagnia».
Una splendida donna dai capelli fulvi e gli
occhi verdi si esibì in un inchino, sollevando poi gli occhi per
sorridere sfacciatamente all’indirizzo del nobile.
«È un onore, conoscere il più affascinante
aristocratico di Elosbrand, milord. Consideratemi a vostra… completa
disposizione».
«Onoratissimo e lusingato, madama, sono
certo che apprezzerò assai la vostra arte». Lord
Bailey restituì l’inchino, fissando negli occhi la procace ballerina.
Lei ammiccò maliziosamente, ricevendo un divertito sorriso per risposta.
«William “whip” Pasterron
lo… ehm… conoscete già, è un acrobata e domatore di gran fama, la
stella del nostro spettacolo e Jorg è il suo assistente».
«Sono certo che messer Pasterron sia un
artista di valore. Deve solo imparare a controllarsi meglio e a
rispettare i suoi collaboratori. Mi dispiace per quanto è accaduto ma
il mio amico non tollera le angherie verso i più deboli».
«Avete ragione, milord. Ma whip aveva bevuto
ed era già contrariato perché avevamo rifiutato di ripartire all’alba
di domani, con questo tempo… spero vogliate ritenere chiusa la
questione».
«Certamente, messer Laurel. Perdonatemi ora
ma desidero terminare la cena e andare a riposare, dopo una giornata
davvero pesante».
Sono a vostra completa
disposizione. Monia trattenne un sorriso di fronte a tanta goffa
sfrontatezza. Anche lei sapeva sedurre un uomo ma era abbastanza
intelligente da capire che un tipo come quel gentiluomo difficilmente
sarebbe stato davvero tentato da una proposta tanto volgare. Comunque
l’incidente era chiuso e, poco dopo, tutti erano tornati a sedere ai
propri posti. La serata volgeva finalmente al termine.
Lentamente, i tavoli si svuotarono e gli
avventori si ritirarono nelle loro camere. Il silenzio scese nella
grande sala da pranzo mentre fuori la neve continuava a cadere
fittamente. Monia rimase a lungo fra gli scuri e la pesante tenda ad
ascoltare il vento.
Qualcuno bisbigliava nel buio.
Che ora era? Doveva essersi addormentata
dietro la
finestra. Il vento pareva molto meno intenso. Il
tendaggio che la separava dalla sala le impediva di vedere chi era
alzato a quell’ora di notte.
«Non andare!». Una donna,
giovane.
«Vieni con me, allora». Un uomo.
«È pericoloso con questo tempo!». La donna . Monia
non avrebbe saputo dire chi fosse.
«Non intendo restare ancora. Vieni con me e
sarai la donna più ammirata e invidiata del Kaardir, ormai sono ricco, credimi». Il domatore. Ecco.
Certamente era lui.
«Io ti seguo perché ti amo, non perché sei
diventato ricco. A parte che non capisco come avresti fatto». Nulla da fare. La ballerina o la figlia del mercante?
Monia non riusciva a capire.
«Te lo dirò lungo il viaggio! Andiamo, ha
smesso di nevicare».
«Devo prendere le mie cose!».
«Sei pazza? Potrebbe svegliarsi! Andiamo
via, ora».
«Non si sveglierà, ha il sonno pesante. Vai
al carro, ti raggiungerò subito».
«Mi raccomando! Aspetterò al massimo
mezzora. E se lui ci dovesse seguire?».
«Non ci seguirà. Quando si sveglierà saremo
già lontani. E saremo felici». Una pausa. Un bacio?
«Vai, e sbrigati». Passi leggeri sulla
scala. Lo scorrere della catena. Il gelo aveva fatto irruzione nella
sala. Monia lo avvertiva anche dietro quel tendaggio. Perché
non l’ho scostato? Alzò le spalle. Forse perché era buio pesto e
non avrebbe visto nulla rischiando, al contempo, di farsi scoprire. E
quell’uomo dai modi gentili ma dai violenti scoppi d’ira
e dalla frusta facile le faceva paura.
Attese qualche minuto. Silenzio. Provò a
sporgersi verso la tenda. Silenzio. Spostò
la tenda con cautela. Silenzio. Buio fitto. La curiosità la rodeva: chi
era la ragazza che voleva fuggire col domatore? La vivace figlia del
mercante o la seducente ballerina? Doveva trovare un posto da dove
poter vedere chiaramente la porta della locanda. Il sottoscala. I
gradini avevano ampie fessure dalle quali osservare cosa accadeva nella
sala e la scala arrivava fin quasi alla porta. Sarebbe stata abbastanza
vicina da poter riconoscere quantomeno il colore dei capelli. La bionda
o la rossa? Si mosse in silenzio in quell’ambiente che conosceva alla
perfezione e raggiunse la porticina che conduceva allo sgabuzzino
ricavato sotto la scala di legno. Entrò e attese.
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