Credits: Le due
citazioni, quella iniziale e quella finale,
appartengono alla canzone Starless Night (titolo che poi ho usato per
questa
storia) cantata da Olivia Lufkin, una delle ending dell’anime
Nana.
Starless night
I’m
alone
Ikisaki no nai watashi no te wo
Sotto tsunaide kureta
Sono sola
Mentre vagavo a tentoni nel buio
Mi hai afferrato dolcemente la mano
Artemide
già da tempo non era più la dea
dell’arte venatoria;
o perlomeno, non adempiva più ai suoi doveri di cacciatrice
da diversi lunghi
lustri. Era entrata in una sorta di strana apatia, una stanchezza che
le
pressava l’animo e pesava sulle corde del suo cuore:
c’era qualcosa che si
agitava nell’aria, che angosciava e spaventava gli
dèi tutti, e lei preferiva
rifuggirne la cappa soffocante per andare a rifugiarsi in quella
piccola
casupola nascosta dall’ombra protettiva degli alti faggi e
castagni dell’Attica
per rimanere in quel rifugio sicuro, la nicchia dove si nascondeva da
sempre.
Non erano in molti a sapere dell’esistenza della dimora sui
monti della dea -
solo l’onnipotente Zeus, ovviamente, e suo fratello Apollo,
che possedeva una
vaga idea di dove si potesse trovare ma non aveva mai voluto violare
l’intimità
della sorella - e ancor meno coloro che erano a conoscenza
dell’amatissima
compagna che viveva con lei.
Quella mattina il passo della donna era stanco, automatico; i
giaggioli ed i narcisi per terra le sfioravano con gentilezza le
caviglie, protendendosi
dai lati dell’invisibile sentiero come se volessero arrivare
a lei e deporre i
loro piccoli capi nel suo grembo, quando potevano solamente
accontentarsi di
lambire la sua pelle abbronzata con dolcezza. I fiori cercavano
disperatamente
di farsi notare, di bearsi dei caldi raggi del Sole che già
riuscivano a
scaldare le membra intirizzite dalla frescura della notte, ma non erano
in
grado di far altro che allungarsi verso la gemella del Sole stesso,
colei che
di notte li bagnava della placida luce della Luna e donava loro un
aspetto
tanto poetico quanto spettrale. Artemide però non li
fissava, non si accorgeva
di loro; continuava ad avanzare con quell’aria sfinita che
non le si confaceva
affatto, la fronte aggrottata, i lunghi capelli castani che oscillavano
lungo
le braccia ed i fianchi. La casupola era nascosta da occhi indiscreti,
grazie
ad un serie di giochi ottici in grado di ingannare chiunque, anche gli
stessi
dèi (e di questo, doveva ringraziare il fratellastro
Hermes), senza contare le
due orse che occasionalmente passavano di lì per spaventare
gli eventuali
pastori accampati. Non era una dimora sfarzosa come ci si potrebbe
aspettare
(non per niente, abbiamo usato il termine casupola),
ma era un alloggio decisamente poco consono per una dea, come
più volte aveva
ribadito Zeus. Vi era un’unica stanza, una delle cui pareti
era direttamente
ricavata dalla roccia, e di sicuro sembrava più un ambiente
adatto ad uno dei
non più esistenti iloti greci. D’altronde cosa se
ne faceva Artemide, la dea
che rifuggiva gli esseri umani, di una casa a due piani? Era uno spazio
ridicolmente superfluo, visto che non le servivano locali separati per
uomini e
donne. Riteneva che un giaciglio, una dispensa e la sua compagna
fossero più
che sufficienti per vivere, e allora perché tanto sdegno
divino per un semplice
rifugio per la caccia?
Artemide scosse la testa di fronte a pensieri tanto
rattristanti; dopotutto lei era libera e si sarebbe sempre comportata
secondo
coscienza, almeno nei limiti del possibile. Tirò verso di
sé la porta di legno
della casetta, entrando. All’interno l’unica luce
concessa era quella che
riusciva a passare attraverso gli spiragli sul tetto; lei e la sua
compagna
erano costrette a dormire di giorno, dopotutto, quindi la notte veniva
creata
così, artificialmente. Camminò silenziosamente
fino al suo posto preferito: nella
parete formata dalla roccia c’era una specie di nicchia, un
incavo dove
riuscivano a stare comodamente due persone, seppur rannicchiate,
coperto da un
telo di pelle scura. La accarezzò con le dita, tentata di
entrare nel luogo a
cui da tutta la notte anelava; scostò il drappo e si
arrampicò fin dentro la
rientranza, percependo la presenza di una donna, dai capelli
così chiari da
sembrare argentei e le vesti bianche. Si avvicinò ancora e
si stese accanto a
lei, sfiorandole con due dita il contorno del viso finché
lei non aprì gli
occhi.
«È già l’alba?»,
sussurrò Selene, la ragazza che secoli
prima Artemide aveva salvato e poi fatto diventare immortale, donandole
metà
del suo incarico di astro celeste. Le sorrise, annuendo.
«Sono così affaticata,
ultimamente, che non riesco nemmeno a rendermi conto di che stagione
sia»,
continuò l’altra Luna, corrucciando le
sopracciglia, pensierosa. In quella
nicchia il buio regnava sovrano, eppure loro riuscivano a vedersi comunque.
Artemide le sfiorò le labbra con le proprie, tornando poi a
guardare quel viso dalla pelle diafana.
«Non fartene un cruccio», le disse.
«Vedrai che è una solo questione
di tempo, prima che ti tornino le forze», continuò
speranzosa. Selene la scrutò
profondamente con i suoi occhi chiari, tanto che la dea se ne
sentì turbata.
«Non credo sia una questione di periodi», le
rispose, sottraendo
il volto al suo tocco; al che, Artemide sorrise incredula.
«Selene, ma se non è questione di periodi mi
spieghi di che
cosa si possa trattare? Non è ammissibile altro per noi, non
possiamo contrarre
malattie di sorta, i mali non possono corroderci», le chiese,
sentendo
quell’angoscia che non Soleva abbandonarla agitarsi dentro di
sé come un’onda
del mare impazzita.
«Oh, Artemide, perché ti ostini a non voler
guardare in
faccia la realtà? Gli umani non credono più in
noi, siamo diventati tutti degli
strumenti superflui, privi di significato».
«Ma questo non significa che-»
«Artemide, per gli altri non siamo più nulla.
Questa è la
cosa che più influisce su di noi».
Le si accostò, agitata: «Ma cosa ci importa degli
altri?
Finché avremo noi stesse in cui credere esisteremo comunque,
non è vero?»
Ma anche se la sua doveva sembrare una rassicurazione, il
tono faceva pensare più ad una supplica che ad un reale
convincimento. Selene
le prese la mano che aveva appoggiato lì accanto al suo
guanciale, portandosela
alle labbra e baciando i polpastrelli con un sorriso mesto. Artemide
singhiozzò
angosciata, vedendola voltare il capo e chiudere gli occhi per
addormentarsi, lasciando
le sue domande senza risposta. Ma quello che la Luna crescente non
riusciva a
comprendere era che il silenzio a volte vale più di mille
parole.
Selene aveva già da tempo confutato quei quesiti, solo che
Artemide non voleva capirlo.
҉
L’unico
modo che conosceva per sfogarsi quando una
preoccupazione le attanagliava lo stomaco era correre. Correre
finché aveva
fiato, correre finché l’unica cosa che le rimaneva
in mente era la percezione
dell’aria fredda sul suo corpo sudato, dei minuscoli aghi che
le infilzavano
piacevolmente la pelle. Come dea della caccia aveva una resistenza
impressionante, persino per una degli Immortali: poteva andare avanti
per
giorni e giorni e riuscire a non provare comunque alcuna fatica.
Così,
quella mattina, subito dopo essersi riposata per
qualche ora, si era arrotolata il lungo chitone sulle cosce tornite, lo
aveva
assicurato per bene per essere sicura che non le avrebbe intralciato i
movimenti, si era legata i capelli con un lungo nastro bianco ed aveva
iniziato
a correre, semplicemente.
Non
faceva mai caso alla direzione da prendere, l’importante
era lasciar libero sfogo ai suoi pensieri; che dall’Attica
poi si fosse trovata
a Tebe o in Macedonia per lei era del tutto ininfluente. Le parole di
Selene
l’avevano scossa, ma soprattutto il suo sorriso arrendevole
aveva avuto il
potere di aprire un vuoto dentro di sé. Cosa significava?
Aveva accennato al
fatto che gli uomini non si preoccupassero più di venerarli
come una volta, e
di questo ne erano testimoni i templi abbandonati e gli altari
trascurati; gli
umani preferivano dedicarsi ad altre divinità con aspetti
differenti, ma cosa
c’entrava con loro? Dopotutto, il mondo
non aveva mai avuto un’unica religione, sin dalla sua
creazione. Per quanto
fosse dura da accettare, quella realtà non la sconvolgeva
più di tanto. Però
Selene aveva tratteggiato un disegno dalle tinte fosche e cupe: le
aveva
annunciato con serenità che era giunta la loro fine.
Artemide non ci credeva
minimamente; dopotutto, la dea della Luna calante era sempre stata
caratterizzata da un certo scoraggiamento di fondo che le aveva fatto
predire
più volte cose che non avevano poi trovato piena
realizzazione. Ma quel sorriso…
Improvvisamente
venne colta dal pensiero che, forse,
lei l’amava più di quanto l’altra
avrebbe mai potuto; che, forse, a lei
non importava poi così tanto l’idea di essere
separata dalla sua compagna...
“È
questo, Selene? È questo ciò che cerchi di
dirmi?”
Era
stata la sua amante silenziosa per anni, non aveva mai
nemmeno messo in dubbio il suo amore. Adesso invece si chiedeva se non
fosse
solamente lealtà, riconoscenza per averla salvata ed averla
resa una dea per
proteggerla. Non potendole dare un potere completo, aveva deciso di
dividere
quello della Luna con lei; prima di quel momento, le notti senza stelle
erano
sempre state troppo vuote quando si ritrovava a fissare la sfera
terrestre con
malinconia. Invece l’unico modo per farla apparire, ora, era
quello di salire
insieme sul carro argentato e rimanere abbracciate a fissare la natura
che le
ringraziava di quella luce in grado di offuscare quella di ogni altro
corpo
celeste. Scomparire per sempre… Le sembrava
un’assurdità. Eppure trovava
perfetta corrispondenza nel tormento sempre costante che si portava
appresso da
lunghissime stagioni. Scomparire, scomparire per sempre…
E
poi, tutto finì. Si fermò con gli occhi sbarrati,
rendendosi conto solamente allora di ciò che significavano
le parole di Selene.
Non avrebbe più visto il suo viso, non avrebbe
più accarezzato i suoi capelli,
non avrebbe più sentito il suo corpo premere contro il
proprio. Era qualcosa di
talmente insopportabile ed annientante che cadde in ginocchio senza
nemmeno rendersene
conto, insensibile com’era a qualsiasi percezione tattile. Si
portò le mani
davanti agli occhi e notò che stavano tremando; aveva paura, aveva
una
paura incontrollata ed incontrollabile. Un singulto le scosse il petto,
doloroso come un pugnale conficcato nelle costole, e poi un altro, ed
un altro
ancora. Piangere la faceva sentire male, le faceva girare la testa e
fischiare
le orecchie, la schiacciava come se qualcuno la stesse assalendo e
stesse
cercando in tutti i modi di provocarle più dolore possibile:
si sentiva così,
però non riusciva a smettere di farlo. Sentì le
mani sulla testa che tiravano
inconsciamente i capelli, quasi come una prefica ad un funerale; le
tolse, le
mise e le strinse con forza sugli avambracci, le sentì
fredde come mai le aveva
avute. Sembravano quelle di Selene, e a questo pensiero il dolore si
accentuò,
facendola premere con violenza le braccia incrociate sullo stomaco,
tanto che
le sue unghie si conficcarono nella carne morbida, facendola
sanguinare. Non
aveva mai saputo cosa fosse la vera
sofferenza,
si era sempre comportata egoisticamente davanti a quella degli esseri
umani -
struggersi per qualcosa di mortale? L’aveva sempre
considerata una sciocchezza
-, sorridendo sprezzante davanti alla loro pena visibile, alla loro
paura. In
quel momento provò un rimorso indicibile per un
comportamento che di magnanimo
e compassionevole non aveva proprio nulla. Rimase lì per
quelle che sembrarono
ore, alternando le lacrime a lunghi gemiti e lamenti, finché
non calò il Sole e
lei si rese vagamente conto che di lì a poco non sarebbe
più stata sola. Si
ordinò mentalmente di alzarsi, ma non riusciva a muovere il
corpo, non le
obbediva più; sentì dei passi leggeri e
chinò il capo, sconfitta.
«Artemide…»
Lei
scosse la testa con forza, ostinandosi a guardare il
terreno e non il cielo, quella notte privo di Luna. Ma tanto, ormai,
chi se ne
sarebbe più accorto? Suo fratello Apollo si
inginocchiò davanti a lei e le accarezzò
teneramente una guancia.
«Non
è da te piangere in questo modo, sorella», le
disse
solamente, stringendola contro il suo petto. Artemide
singhiozzò ancora di più,
aggrappandosi con forza alle spalle del fratello e graffiandogliele.
Lui non
disse niente, rimanendo ad inspirare l’odore della ragazza,
che sapeva di pini
selvatici, sudore e disperazione.
Alzò gli occhi al cielo, sentendo una
lacrima scivolare lungo il suo volto imberbe e cadere sui capelli di
Artemide.
Erano gemelli, ed era per questo che lui più di chiunque
altro riusciva a
comprendere lo stato d’animo della sorella; sul carro del
Sole aveva riflettuto
a lungo su cosa fare, su cosa dirle una volta incontratala, ma non era
giunto a
nessuna conclusione soddisfacente; si era quindi messo sulle sue
tracce, sperando
solo di riuscire a parlarle, in qualche modo, di non venire scacciato.
Ma
Artemide era troppo debole in quel momento, non l’avrebbe
allontanato neppure
se lo avesse voluto veramente. Anche Apollo pianse, pianse per lei,
pianse con
lei, pianse per tutti loro, che avevano sempre creduto di essere i
generatori
degli uomini, e si erano scoperti loro invenzioni.
«Una
volta era il contrario… Eri tu a correre da me per
frignare, quando i tuoi amanti non ti si concedevano e diventavi folle
di
gelosia, oppure quando Giacinto morì…»,
incominciò con voce rauca, quasi
innaturale, Artemide. «E ancora, quando eravamo piccoli e
nostra madre ci
lasciò… Quanto tempo è passato da
allora, fratello? La memoria diviene confusa,
i ricordi vaghi e nebulosi… Non riesco nemmeno
più a rammentare il suo volto, solo
l’eco della sua dolce voce…»
Apollo
rabbrividì per la sfumatura malinconica delle sue
ultime parole.
«Era
una donna bellissima, e ci ha amato teneramente. Certe
cose non si dimenticano», rispose, commosso. I respiri della
sorella si erano
fatti più lunghi e regolari, segno che iniziava a calmarsi;
anche se non sapeva
quanto bene ci fosse nel ricordare un familiare morto, non in una
circostanza
come quella.
«Ho
sempre pensato che fossero pochi, tra gli uomini, quelli
degni della mia attenzione, mentre tutti loro dovevano onorarci e
temerci in
quanto loro creatori e protettori. Guardali ora, guarda come siamo
ridotti invece
noi
ora… E non possiamo nemmeno dire
che sia colpa del Destino, visto che Ananke scomparirà
insieme a noi».
«Artemide,
non affliggerti l’anima con questi pensieri cupi.
Che senso ha tormentarsi quando non abbiamo altra scelta che seguire
questa strada?»
«Belle
parole, le tue, come sempre. Ma dimmi, tu ci credi?
Credi veramente in ciò che mi dici? Sei veramente rassegnato
al nostro
annullamento?»
Apollo
sorrise amaramente.
«Come
posso mentire alla mia metà?»
Artemide
si liberò dall’abbraccio del fratello e si
alzò,
incerta. Chiuse gli occhi e lasciò che il suo corpo tornasse
a sentire l’aria
gelida della notte, che fino ad allora si era ostinata ad ignorare.
Iniziò a
camminare, tornando verso la calda nicchia dove si sarebbe
raggomitolata e
fatta accarezzare a lungo da Selene.
«Apollo,
torna da nostro padre e digli di non preoccuparsi
per me. Prometto di non fuggire, di non obbligarvi a scene
penose».
L’uomo
si girò, ancora inginocchiato per terra.
«Artemide…»,
bisbigliò, riuscendo a vedere il tumulto interiore
della sorella.
«No,
lasciami andare. Va bene così», gli rispose senza
voltarsi né fermarsi. Pochi secondi, e a testimoniare la sua
presenza non
rimaneva più nulla.
Apollo
si passò una mano sugli occhi stanchi, sentendo le
lacrime e la profonda pena allearsi contro di lui, combattere per
venire alla
luce. Lui era sempre stato bravo a disperarsi, a fare di una
sciocchezza il
motivo principale della sua afflizione per mesi interi. Eppure, non
aveva mai
provato tanto dolore. Nella sua mente riecheggiarono le ultime parole
di
Giacinto prima di morire tra le sue braccia e simultaneamente lo
raggiunse il
freddo eco del vento, mischiato alla voce della sorella prediletta.
“Grazie…”
E
fu questo il turno di Apollo di piangere, finalmente conscio
della loro sorte.
҉
Entro
pochi mesi, quella che si poteva scorgere nelle
foreste di conifere intorno alla città di Atene somigliava
più ad una Baccante
che ad una dea. I capelli mossi arruffati e scarmigliati sulla schiena
nuda, lo
sguardo vuoto ed il colorito pallido la facevano apparire come una
senz’anima.
Qualcosa stava risucchiando la sua energia vitale, ed Artemide non
faceva altro
che vagare e vagare senza meta, riscuotendosi dalla sua trance
solamente quando
doveva guidare il carro Lunare; ma anche in quei momenti erano i
cavalli a
percorrere il sentiero già tracciato, mentre lei rimaneva a
fissare muta le
criniere chiare dei due animali muoversi sulla loro schiena possente.
Le bestie
erano nervose anche quella sera, la giovane ebbe modo di accorgersene
quando scese
nuovamente sulla terra; una volta fermate accarezzò il loro
muso, il respiro
che usciva dalle narici e si condensava in piccole nuvolette di vapor
acqueo.
«Sei
venuto per un motivo specifico, Hermes?», domandò,
guardando negli occhi il destriero alla sua destra ed osservando le
sfumature
di marrone nei suoi occhi.
«Sono
qui a nome di nostro padre, sorella», rispose una voce
alle sue spalle. La giovane sospirò e appoggiò
brevemente la fronte contro
quella dell’animale, sentendo una morsa ghiacciata nel petto,
prima di
raccogliere le briglie e gettarle ad una ninfa a lei vicina, ancella e
consigliera
fedele della sua vita. Per quanto Artemide avesse più e
più volte tentato di
allontanare le Naiadi da sé, loro non si erano arrese e
continuavano a vegliarla,
silenziosamente. Compagne anche nel suo ultimo viaggio.
«Quando?»,
chiese, incamminandosi verso l’interno del bosco
e lasciandosi dietro la tenue luce del mattino che faceva capolino
dalle cime
dei monti.
«Al
tramonto, quando tornerà nostro fratello». Hermes
le si
affiancò, veloce e leggiadro come sempre; era
l’unico in grado di batterla
nella corsa. Non udendo alcun segno di assenso, arrischiò
un’occhiata alla
giovane. «Artemide, avevi promesso…»
Lei
fece un rumore stizzito e strinse le labbra. «Ho dato la
mia parola, stasera verrò. E con me ci sarà anche
Selene». Il suo
atteggiamento, il suo tono, tutto di lei dava l’idea di una
fiera messa in
gabbia. Una
splendida fiera messa in
gabbia.
Hermes
si arrestò, lasciandosi superare e rimanendo a
guardare con fraterno affetto la sua figura svanire sotto le chiome
degli
alberi secolari. Quanta sofferenza a causa di quegli uomini che
dovevano tutto
alle divinità! Fissò distrattamente i cavalli di
Artemide, ormai due macchie
chiare in lontananza, prima di chinare il capo, sconfitto.
L’anima di ladro che
era in lui era atterrita dal dover lasciarsi tutto indietro, ma questo
non gli
aveva impedito di rubare una cinta ad una ninfa dei fiumi.
Chissà se avrebbe raccolto
il suo invito implicito…
Dopotutto,
ognuno aveva il suo modo per affrontare un
problema.
҉
Il
Monte Olimpo era molto diverso da come se lo ricordava. Era
quasi la versione fosca e scolorita dell’imponente Dimora
degli dèi, il marmo
era di un grigiore strano, innaturale, non riusciva a brillare come
sempre.
Selene lasciò che una mano scorresse su quella patina,
scoprendola gelida.
Rabbrividì e la ritrasse, tornando a guardare Zeus, davanti
a loro, che parlava
dal suo trono dorato. Artemide era seduta in una delle seggiole
riservate alle
divinità maggiori, e lei le era subito dietro, in piedi;
anche senza poterla
vedere in viso, sapeva quale dovesse essere la sua espressione e si
intristì
davanti quell’immagine.
«Quindi,
Padre, non vi è più nulla da fare, nulla da
tentare?», chiese Afrodite, con voce spezzata. Il figlio
Eros, dietro la donna
come Selene era dietro ad Artemide, strinse contro di sé il
capo della madre,
cercando di infonderle animo.
«No,
purtroppo. Abbiamo cercato di fare il possibile,
arrivando a rivelarci ad interi popoli: nessuno è stato in
grado di vederci».
«Segno
che la superstizione è stata sconfitta»,
mormorò
impercettibilmente Apollo. Artemide ebbe un fremito e Selene
risentì del suo
stesso dolore.
«Ci
saranno altri dèi che verranno e prenderanno il nostro
posto, così come è capitato a noi con quelli che
ci hanno preceduto», continuò
l’uomo, stringendosi con forza un ginocchio come a
convincersi maggiormente
delle sue parole. «La ragione umana ha deciso di sostituire
la scienza al
cuore, noi non serviamo più. Ce ne andiamo».
Le
sue parole risuonarono come una condanna mortale; ed in
effetti, non era altro che questo. Artemide si portò una
mano al petto,
sentendo battere il proprio cuore così dolorosamente che le
sembrò stesse
pompando litri e litri di un liquido amaro ed acido nei polmoni e lungo
la
gola, soffocandola.
«Quando?»,
domandò solamente Athena, una smorfia amara sul
suo viso contratto. Lei, dea della ragione e
dell’intelligenza, più di tutti
gli altri sapeva come la mente possa essere complessa, ed era quella
che era
giunta prima di tutti gli altri alla conclusione che prima o poi
sarebbero
spariti.
«Questa
notte».
Tu-tum.
Tu-tum. Tu-tum.
Ad
ogni battito, l’eco di quelle parole.
҉
L’aria
nella casupola, quel giorno, era innaturalmente
gelida, quasi fosse permeata dalle anime dell’Ade. Selene si
accarezzò le
braccia intirizzite, guardando preoccupata la sua compagna sparire
dietro la
pesante tenda di pelle che chiudeva il passaggio alla loro nicchia.
«Artemide,
posso entrare?», domandò, con la sua voce tanto
dolce quanto saggia. «Sono stanca, questa notte non ho avuto
modo di riposare…»
La
dea scostò il telo, fissandola con degli occhi
così
crudeli che sarebbero stati paragonabili solamente a quelli di un
cucciolo
d’uomo che ha visto morire, impotente, tutti i suoi cari, e
tenta
disperatamente di sopravvivere, digrignando i denti contro chiunque osi
avvicinarlo.
«Perché
ti ostini a cercare delle giustificazioni? Tu sei
più sensibile di me, senti l’affievolirsi del
nostro essere da mesi, avverti la
nostra effimera vita, la sua fragilità, meglio di quanto
possa fare io.
Smettila di ingannarmi, Selene. Un male incurabile ti logora da dentro
da
chissà quante stagioni, forse saresti svanita nel nulla
anche senza… senza
tutto questo. E la colpa è mia, solo mia. Tu non sei fatta
per l’immutabilità».
L’altra
sospirò e si issò nel pertugio, sentendo il fieno
che costituiva il loro giaciglio pizzicarle le ginocchia. Dentro quella
specie
di nascondiglio non vi era alcuna luce, era ideato in modo che neanche
il più
piccolo raggio del Sole potesse entrarvi: Artemide era molto gelosa
della
propria intimità. Ma Selene riusciva a percepire sempre dove
si trovasse la
dea, riusciva a vedere il suo principio vitale scorrere
all’infinito dentro il
suo corpo, nonostante i suoi occhi fossero resi ciechi da quella notte
artificiale. Le sfiorò una spalla con la mano,
tranquillizzandosi quando l’altra
non la scostò.
«Artemide,
non puoi addossarti colpe che non hai; perdonami,
ma questo è un atteggiamento ben poco divino. Non avere la
superbia, come gli
umani, di credere che tutto dipenda da te stessa; ci sono cose che
semplicemente accadono, senza
perché.
È inutile cercare qualcosa che non esiste».
La
dea si voltò, stendendosi supina.
«Selene,
non rimpiangi mai il periodo in cui eri una
mortale? A causa mia, sarai costretta anche tu all’Oblio
Eterno», mormorò, e
l’altra sorrise: finalmente era stata in grado di esternare
quel dubbio.
«Mi
mancano i miei genitori e i miei amici, ma so che hanno
vissuto una vita degna e questo mi conforta. Ma mai, Artemide, mai, mai
ho rimpianto il momento in cui tu mi hai salvata. Mai ho
rimpianto il momento in cui sono diventata la tua compagna.
Abbandonerei per mille e mille volte ancora ciò che avevo
pur di rimanere al tuo
fianco, sia da mortale… O sia pure se
dovessi annullarmi nell’Oblio Eterno», rispose,
sentendo una lacrima scorrerle
sul viso e sul collo. Rifletté su quanto fosse strano che le
lacrime siano così
calde quando sgorgano dagli occhi e diventino poi tanto fredde in
così pochi
istanti… Il tempo preciso di una fine, il limite estremo di
ogni cosa. Artemide
le accarezzò una guancia, con quella familiarità
acquisita nei secoli passati
accanto a lei.
«Ti
ringrazio, Selene».
A
pochi mesi di distanza, lei, la dea della Luna crescente,
la Luna a metà, aveva ringraziato tutte le persone
più care; si sentì svuotata,
quasi che avesse terminato i preparativi per un lungo viaggio e non le
fosse
rimasto più nulla da fare prima della partenza.
«La
nostra nicchia…», mormorò Selene.
«L’unica cosa che mi
consola è che non avrò modo di sentirne la
mancanza».
La
giovane si mise a sedere e l’abbracciò, posando le
labbra
sulla pelle delicata della nuca. Dopotutto, anche la dea della Luna
calante soffriva,
pur avendo accolto il loro destino con accettazione e sottomissione.
«C’è
ancora tempo prima di questa sera. Non roviniamo questi
attimi preziosi con l’amarezza del nostro cuore»,
sussurrò al suo orecchio.
Selene la strinse più forte: Artemide aveva iniziato a
capire.
E
poi, nessuna nicchia naturale poteva offrire un rifugio
migliore delle sue braccia.
҉
La
Dimora era svanita nel nulla, sulla sommità del Monte
Olimpo non ve n’era rimasta alcuna traccia. Artemide
tremò, ma non per il gelo
che le sfiorava le gambe, quanto per quello che le ghiacciava il cuore.
La
vista era appannata, le orecchie non erano più in grado di
udire altro rumore se
non il frusciare del vento. Si sentì sola, spaventata. Umana.
Improvvisamente,
si aprì un enorme varco luminoso davanti a
tutto il popolo degli Immortali. Il terrore che
l’assalì fu qualcosa di
inenarrabile: spalancò gli occhi, atterrita, e lo sguardo
ricadde sul suo
gemello, nel cui volto era riflessa la sua stessa espressione. Lui si
accorse
di lei, e si scrutarono a lungo.
Improvvisamente,
si fece tutto più chiaro. Recuperò la
lucidità che aveva perso in quegli ultimi mesi, e
guardò la luce accecante
davanti a loro con profonda commozione. Fissò i volti delle
altre divinità con
affetto, consapevole che ora erano veramente tutti uguali, tutti nella
medesima
condizione. Sarebbero svaniti insieme, non avrebbero provato dolore:
non era
già questo un buon motivo per smetterla di essere
angosciati? Non era sola, non
lo era mai stata.
Sentì
delle dita fredde intrecciarsi alle sue, calde. Selene
si era voltata verso di lei e le stava sorridendo teneramente. Artemide
le
rispose con un altro sorriso e strinse la sua mano, tentando di
trasmetterle così
i suoi pensieri, di farle capire come ormai fosse riuscita a
comprendere, a vedere.
Probabilmente la dea della Luna calante lo intuì,
perché si avvicinò, facendo sfiorare
la spalla con la propria.
«Dunque...
Chi vuol essere il primo?», domandò Zeus, con
esitazione. In quel momento, non sembrava davvero il tanto temuto padre
di
tutti gli dèi.
Artemide
e Selene si guardarono con un altro sorriso, prima
di fare un passo in avanti e dirigersi verso quella luce bianca che
componeva
il Nulla ed il Tutto.
Insieme
per l’ultima volta, come se fosse stata la prima.
Insieme, come sarebbe stato per mai più e per sempre.
Quella notte, ogni
uomo che si fosse soffermato a guardare la sfera celeste, dalla Tracia,
dalla
Ionia o dalla Caria, avrebbe visto la più bella Luna piena
mai apparsa nel
cielo fino ad allora, e si sarebbe sentito pervadere da una tristezza e
da una
dolcezza infinite...
Starless
Night
kako no kage furikaeranai
Kanjitai anata no nukumori
Tears are falling down
mayottemo hanashi wa shinai
Tsunaida anata no te wo
Notte
senza stelle il passato è un’ombra
dietro me,
Ma non mi girerò per guardarla, voglio sentire questo tuo
calore
Le lacrime cadranno giù anche
quando
non saprò dove andare,
Non lascerò mai la tua mano
[Starless
night, Olivia Lufkin]
Note:
La prima
cosa che ho fatto una volta visto il titolo del bando è
stata fare una breve
ricerca su Selene, che ricordavo essere collegata ad Artemide, pensando
di
assimilare le due persone in un’unica entità;
invece quest’idea mi è balzata in
mente così prepotentemente che ho deciso di svilupparla,
sperando di aver fatto
un buon lavoro. Non è la prima volta che scrivo qualcosa di
sfondo mitologico,
anche se stavolta ho deciso di stravolgere completamente
l’universo in cui
vivono: non è più qualcosa di veramente reale,
bensì un’auto-illusione così
potente da creare una specie di miraggio in cui gli stessi
“abitanti” si
illudono di esistere. Ragionamento contortissimoooo XD
Il finale, la parte in corsivo, è meglio spiegarla per bene:
il fenomeno della Luna piena appare con l’unione delle due
dee. Loro scompaiono
insieme, ed è notte: mi piaceva pensare che il cielo donasse
loro questa specie
di omaggio, visto che il fenomeno non dipende più da
Artemide e Selene (non è
mai stato causato da loro, in realtà, ma questo non lo
sapevano).
I nomi degli astri sono sempre in maiuscolo perché vi
è una
personificazione con la divinità associata (scelta
stilistica XD).
Ah, e da quando Selene parla ad Artemide all’incontro con
Apollo sono passati diversi giorni, altrimenti non si spiegherebbe il
fenomeno lunare.
Questa storia si è
classificata nona al contest “La Nicchia
e… la Luna”; faccio un mea culpa generale, dato
che per un mio fraintendimento
avrebbe potuto collocarsi più su :3 Ma non mi lamento, il
giudizio è comunque
positivo, e ringrazio moltissimo Eylis per la disponibilità
dataci ^^
I commenti, al solito, sono molto graditi, soprattutto dato
che è la mia prima fem-slash e non so bene come sia riuscita
a gestirla .-.
See ya, guys ♥
Grammatica, sintassi, ortografia e lessico: 9,5 / 10
Ho trovato un paio di piccoli errori, ma niente di grave. A volte il
linguaggio
molto forbito rendeva meno scorrevole la storia, ma questa è
una scelta
stilistica che non intendo penalizzare perché non sta a me
valutarla
Sviluppo della trama: 10 / 10
La trama è chiara e ben sviluppata, spiega bene ogni
passaggio tenendo comunque
viva l’atmosfera
Caratterizzazione dei personaggi: 9 / 10
I due personaggi principali sono ben caratterizzati, avrei valorizzato
forse un
poco di più i secondari più importanti (come il
fratello di Artemide)
Espressività: 9 / 10
Ho trovato questo racconto piuttosto espressivo, hai saputo rendere
molto bene
la disperazione e poi la triste accettazione del finale della storia
cullando
il lettore in questa malinconica atmosfera
Originalità: 5 / 10
Temo che il punteggio di questo parametro sia penalizzato dal fatto che
non
posso ritenere che i personaggi siano originali. Sicuramente sono stati
ben
sviluppati, ma non sono tuoi, sono tratti dalla mitologia. Per quel che
riguarda il tema devo dire che la caduta degli Dei, nonostante sia
stata molto
raccontata, in questa storia è trattata in modo piuttosto
originale
Attinenza al tema e ai parametri posti: 7 / 10
I temi sono stati rispettati, non è stato seguito invece il
parametro
dell’originalità dei personaggi
Valutazione finale: 49,5 / 60
Un racconto che mi è piaciuto molto! Peccato per aver
sforato con il parametro
dell’originalità, non fosse stato per questo
ovviamente avrei dato più punti
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