Caduta
Buonasera signori e signore, benvenuti al mio spettacolo.
Ho un nome,
mi dicono che sono vivo. Io sento di essere un pezzo di vita, un pezzo
di carne che si atteggia vanamente per il mondo. Un involucro di pelle
che contiene – se contiene – non so cosa, ma è un
materiale doloroso da portare in giro.
Mi piace
farmi vedere, ho bisogno di farmi vedere, mi fa stare bene. Ho bisogno
di essere riconosciuto dagli altri, che dicano “è
lui”, perché ciò mi darebbe la certezza che
eternamente mi sfugge. Io sono?
No,
signori, non ridete, e non alzatevi dalle vostre sedioline
perché lo spettacolo è pacchiano. Abbiate almeno il
coraggio di ammettere che se lo fate, state scappando da qualcosa che
dà voce ai vostri pensieri, a ciò che l’uomo non ha
mai il coraggio di ammettere.
Ecco,
guardate: l’uomo. Creatura fragile. Vaga per il mondo come
un’ombra terrorizzata, fissandosi i piedi, tremando per il
freddo. Percependo la propria infinità senza aver il coraggio di
ammetterla. Terrorizzato dalla sua stessa natura.
È l’uomo che non chiede mai per favore
e mai ringrazia, l’uomo che si subissa di parole per paura di
aver il tempo di pensare, e di pensare a sé. Quell’uomo
che tanto mi fa schifo. Quell’uomo che non vorrei essere.
L’uomo che mi perseguita con il suo desiderio di felicità
e che mi illude sempre della speranza dell’inizio della mia vita.
Quello che quando mi prendono a pugni, mi fa rialzare perché io sono migliore,
perché non è giusto è perché ho ragione io.
Quello che non ammette che ha bisogno di aiuto, e che a volte
l’unica cosa da fare è piangere.
Già,
perché voi non sapete cosa vuol dire piangere. Voi piangete
quando siete tristi, siete patetici. Piangere significa che ho cercato
– vi giuro – qualunque cosa al mondo, qualunque, per un fine a me ignoto
(ignoto, capite?) e non ho trovato risposta. E sono stato male. Male,
perché il mondo non mi offriva una risposta alla domanda che non
gli ho fatto. Ma lo capite? Lo capite voi? Potreste vivere, oddio,
vivere!, se solo trovaste quella cosa che vi serve, ma voi non sapete
cos’è, e il mondo non ve la rivela.
Io vedo
volti impauriti, fossilizzati in espressioni terrorizzate di angoscia.
Vedo lacrime nei sorrisi, vedo sangue che scorre dietro un gesto
d’affetto. Vedo quello che la gente non ha neanche il coraggio di
pensare. Vedo petti squarciati da ferite ingiuste, così grosse
che, ve lo garantisco, non ci stanno! in un corpo così minuto.
Io sento la gente, sento che
sta male. Sento il suo sospiro e il suo sfinimento, la sua paura di
parlare, il suo isterico flusso di parole, continuo ininterrotto
perenne, per non riconoscersi come qualcosa che sfugge alla sua
comprensione. A volte mi sembra di sentirne i pensieri. È
dolorosissimo, ve l’assicuro. È il modo più
doloroso che l’essere umano possa concepire per ammazzarsi.
Ammazzarsi degli altri. Non
riesci ad aiutarli, ma li senti urlare, gridare, disperarsi per
un’angoscia che avvolge tutto lo scibile umano. E non puoi fare
niente.
Ecco,
quando io piango, piango sopraffatto dalle urla del mondo, da quel
ronzio che mi invade la testa fino a saturarla. Piango perché
non ho il coraggio di reagire e so che potrei farlo. Piango
perché vorrei essere capace di ammettere davanti a me stesso
quanto cazzo è bello il mondo, ma ho paura. Ho paura. Paura.
Paura
che quegli esserini che io chiamo “gli altri” altri non
siano che me stesso, un clone ripetuto milioni e milioni di volte. La
pura disperazione che, nel mio egoismo, qualcun altro sia come me.
Schifo di me stesso quando riesco ad ammettere che quest’immenso
fardello che mi stordisce giorno e notte è in realtà la
cosa che più desidero, perché mi fa sentire l’unico a saper fare qualcosa.
Non
sono un filantropo, sono un mostro. Forse sono la persona più
meschina sulla faccia della Terra. Sono uno che soffre perché la
Terra sta male, sta ancora più male vedendola soffrire, ma non
esiste fuori della sua sofferenza. Se la Terra smettesse di soffrire,
non sarei più nessuno, neanche quell’essere che sta
malissimo adesso perché non ha il coraggio di aiutarla.
Voi sentite il mondo, diavolo!
Come è possibile che quel qualcosa non vi voglia?
E ora
capite cosa vuol dire polifonia? Vuol dire vivere tutte quelle vite,
guardarsi intorno e vivere in ogni cosa, riscontrare i propri battiti
in ogni altra realtà esistente, con il terrore di non essere
presto più nessuno, nel caso tu ora lo sia. Diventare la massa,
uno dei tanti sofferenti. Diventare uno che ha bisogno d’aiuto, e
stare peggio.
Mi piace
essere compatito, anima. Faccio paura e ho solo voglia di dormire,
morendo lentamente. Sono l’oggettivazione della debolezza in un
involucro di piombo.
Scrivete
pagine e pagine di storie senza sentirvi protagonista. Urlate
perché non vi rispondono. Alla fine l’unica cosa che vi
resta è l’amarezza della vostra passività, essere
meschino, e piangere. Piangere
tutti i sacrosanti attimi della vostra vita. Senza versare lacrime,
uccidersi quotidianamente ripetendovi che un giorno voi vivrete,
vivrete, vivrete.
Sentirvi
esplodere il cuore e ricucirlo pezzo a pezzo, brandello dopo brandello.
Percepire qualcosa, delle voci, che sgorgano da ogni singolo poro
della vostra pelle. Sempre. Dappertutto. Vorreste essere stolti,
davvero, per non capire tutto questo.
Vorrei solo
rinascere, e non essere l’esagerazione stessa del mio pensiero, e
cessare la mia folle corsa alla sofferenza. Non sei
Dio, non sei la Terra. Senti tutto il mondo, ma quel “voi” non lo puoi
sentire. Sei un essere mutilo, panteistico figurino della natura. Ti
esplode il cervello, mentre il vuoto sotto di te è allettante.
Vuoto. Sei vuoto.
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