CAPITOLO
1:
SVEGLIA
Un buio
assoluto e cieco. Di quelli in cui si vedeva il nulla e l’unica
soluzione era fermarsi e attendere. Un buio che infondeva una gran
paura. Paura allo stato puro. Qualcosa che prendeva le ossa, la carne,
le viscere e poi si espandeva come un cancro dappertutto. Terrore
dettato da una situazione terribile.
Nike non era
nel buio nel senso letterale del termine, bensì ci si trovava con
l’anima, la mente.
Cosa poteva
portare una persona ad un momento simile? La solitudine, il vuoto, la
povertà, il dolore fisico, la non via d’uscita.
I non ricordi.
Memoria perduta.
Berlino era un
bel paese, ma come per ogni grande città anche là c’erano i ‘posti
brutti’, quelli comandati da bande di quartiere, con muri sgretolati,
case cadenti e puzza ovunque.
Ma a parte quei
posti, era meta di molti turisti.
Ne venivano da
tutte le parti, anche solo per pochi giorni.
Famiglie intere
si organizzavano per un giorno o due, gente comunque che abitava da
quelle parti.
Il ragazzino
undicenne si era allontanato dalla sua con cui stava visitando la città.
Aveva la pelle
chiarissima e si poteva confondere facilmente per un tedesco. I capelli
erano biondi e lisci, fini come spaghetti tutti spettinati, gli occhi
azzurri e una bocca decisamente troppo carnosa per uno della sua età,
alto e con un viso molto bello.
Era italiano e
non capiva nulla di tedesco.
Aveva la mania
di perdersi nel suo mondo di fantasticherie e giochi continui, per cui
senza rendersene conto si era perso finendo in uno di quei posti poco
raccomandabili, specie per un bambino.
Con quei suoi
grandi occhi assorti e oscurati da una nube di incertezza, cominciava
ad avere la giusta paura, ma qualcosa lo muoveva, non poteva tornare
sui suoi passi, era convinto di stare per arrivare in un posto
speciale, tanto di lì a poco l’avrebbero raggiunto.
Era una cosa
che probabilmente prendeva solo i bambini dalla fervida fantasia,
coloro che sapevano ascoltare quelle vocine interiori che tutti
possiedono ma pochi odono.
Con un leggero
piagnucolio si dimostrò di non essere un ragazzino poi tanto
coraggioso, nonostante questo la curiosità era in contrasto con la sua
paura. Era attaccato alla famiglia e non si separava mai da loro, aveva
paura di star solo in posti sconosciuti, eppure sentiva che non poteva
fermarsi, sarebbe stato sciocco farlo in quel brutto posto.
Le bionde
sopracciglia incurvate a mostrare il suo stato d’animo.
- Mi sono perso
come uno stupido … sono stupido, lo sapevo, ma perché? Uffa … dove sono
gli altri?-
Si guardava
intorno con le iridi lucide, le lacrime premevano ma si mordeva il
labbro per non cedere. Sua sorella Selene gli diceva sempre che
piangeva troppo e faceva di tutto per non darle soddisfazione, glielo
diceva per renderlo più duro, diceva che doveva diventare un vero uomo
e non una femminuccia, però poi lo chiamava ‘cucciolotto’. Riflettè che
comunque ‘cucciolotto’ era sempre meglio che ‘scimmia’, come lo
chiamava l’altra sorella maggiore, Astrid. Fra tutte preferiva la più
grande ancora, Elisa, che non lo chiamava in nessun modo particolare e
lo consolava, invece che dirgli di essere più ‘uomo’; del resto con
Astrid aveva sempre giocato in tutti i modi, lo faceva divertire molto
e a Selene, nonostante non lo ammettesse, era molto legato, avevano
fatto ogni cosa insieme vista la poca differenza d’età.
Ora era
cresciuto, i giochi erano altri divertimenti, non piangeva poi così
tanto e chiedeva meno coccole.
In quel momento
si era messo a pensare alla famiglia per risollevarsi e non pensare
alla paura che aveva. Si diceva quello che ripeteva sempre Selene. Lui
era grande, ormai, e non poteva avere paura per ogni sciocchezza,
nemmeno piangere …
Inghiottì a
vuoto. Queste imposizioni lo schiacciavano.
Qualcosa
interruppe questo flusso di considerazioni.
L’attenzione fu
attirata da una strana figura che stava a terra in uno dei vicoli di
quel posto.
Vi entrò
guardando che non ci fosse nessuno e si accucciò voltando il fagotto.
- AH! -
Per la sorpresa
e lo spavento sedette a terra indietreggiando di qualche centimetro.
“Come
è possibile? È una... bambina!”
Non osava dirlo
nemmeno a voce, gli sembrava così strano. Impossibile.
Forse era uno
scherzo, magari si erano messe d’accordo Selene ed Astrid.
Indeciso sul da
fare si avvicinò scuotendola.
Dormiva, o per
lo meno sembrava. Era in pessime condizioni, sporca con lividi,
bruciature e ferite. I piedi indicavano che aveva camminato a lungo
scalza, infine notò le mani, erano nere e rovinate, come se avesse
preso in mano dei ferri roventi e li avesse tenuti a lungo.
A lui era
capitato una volta ma non proprio così.
Si grattò il
capo cominciando a sudare.
Cosa mai poteva
fare lui?
- Ehi,
svegliati … svegliati, su … -
Cominciò a
chiamarla titubante, poi sempre più agitato, successivamente siccome
non dava segni di vita, si mise a fare come Astrid:
- Sveglia,
sveglia, sveglia, sveglia, sveglia, … -
Fino allo
svenimento, senza interruzione, agitato da morire.
Mentre
l’assillava con quella parola, riuscì a pensare con una certa logica
elementare, tipica dei bambini: che avesse bisogno di acqua?
Questo lo fece
zittire per cercare nel suo zainetto una bottiglietta da mezzo litro.
L’aprì e gli bagnò il viso, non riuscendo a farla bere.
Improvvisamente
lei prese a tossire e a stringere le palpebre finché, ancora con gli
occhi chiusi, aprì le labbra per bere. Lui le mise così una mano sotto
il suo capo aiutandola a bere.
- Finalmente,
mi sono preoccupato … -
Eppure aveva
l’impressione che non lo sentisse.
Mentre lui le
dava da bere notò al polso un braccialetto in plastica bianco con un
nome scritto sopra.
- Ni … ke … ti
chiami Nike? -
Lei smise di
bere dopo aver scolato l’intera bottiglia, lo guardò ad occhi
spalancati e ancora priva di forze mostrò le iridi verdi-dorate. Erano
un colore incredibile, il viso gli ricordava molto quello di un gattino
spaurito, selvatico, specie per l’espressione.
Lui che adorava
gli animali e li conosceva meglio di chiunque altro, dava un animale a
tutti quelli che conosceva, per cui gli venne spontaneo darle il gatto.
Si strinse
nelle spalle.
Non lo capiva,
o forse non parlava?
Provò
quell’unica frase di inglese che si ricordava.
- I’m Luca …
Italy … you? -
Smarrita più di
prima. Sicuramente era tedesca, ma lui non lo conosceva il tedesco;
quando il panico cominciava di nuovo a dilagare, si ricordo di Tarzan,
il cartone della Walt Disney, per cui con una luce di speranza nello
sguardo si mise una mano al petto e disse:
- Luca. -
Poi la puntò
verso di lei e continuò:
- Nike? -
Lei chiuse gli
occhi e si tappò gli orecchi spaventata e dolorante. Luca capì che
aveva qualcosa che non andava e preferì non sforzarla, pareva non
ricordarlo. Magari non lo sapeva.
Il biondino
desiderò solo ardentemente di avere lì con se Elisa, sua sorella più
grande, lei sapeva sempre cosa fare al momento giusto, era la più
intelligente della famiglia, ne era convinto da sempre. Astrid sarebbe
stata certamente la meno utile, a meno che non si dovesse fare qualche
scherzo!
Pensò
insistentemente il nome della sorella a ripetizione con il panico che
si espandeva in lui.
Che diavolo
avrebbe potuto fare un bambino di quasi 12 anni?
Si spettinò i
capelli nervoso, magari aveva fame. Si illuminò il viso tirando fuori
della cioccolata, lui adorava la cioccolata e non se ne separava mai.
Gliene porse un
po’ e lei la guardò come fosse avvelenata, col sospetto negli occhi,
non era affatto bravo in queste cose, se lo capiva a parole sarebbe
stato meglio.
- E’ buona … -
E ne mangiò un
pezzo anche lui.
Lei non attese
altro e mangiò di fretta, aveva una fame pazzesca.
Luca l’osservò,
mangiava ma non staccava un attimo i grandi occhi da lui, come se fosse
in perenne guardia, probabilmente se poteva sarebbe scappata subito
terrorizzata, sicuramente stava lì stesa perché non riusciva a
camminare. Notò che era magrissima, forse non mangiava da molto e priva
di energie si era lasciata andare.
Dopo di che
cominciò a pensare concretamente al da fare.
Doveva portarla
dalla sua famiglia o dalla polizia; attese che finisse e si alzò.
Col movimento
brusco, Nike si portò le gambe piegate al petto e le braccia davanti al
viso in difesa.
Lui mise le
mani avanti in segno di resa.
- No no …
tranquilla, non faccio nulla … -
Le tese la mano
per aiutarla ad alzarsi, lei la guardò come fosse un mostro e non la
prese alzandosi con fatica ma da sola.
Notò solo
allora, il bambino, gli splendidi capelli, seppur ingarbugliati e
sporchi, che possedeva. Molto lunghi e di un colore caldo.
Suo malgrado si
avviò fuori dal vicolo sperando che la seguisse. La ragazzina rimase
ferma.
“Scapperà?” Pensò
il biondo sospeso a mezza via. Aveva capito che qualunque fosse la sua
storia, era troppo selvatica così decise di fare come per gli animali,
i suoi grandi amici, lasciando lì per terra altro cibo allontanandosi
con cautela nella speranza che di essere seguito.
Dopo qualche
metro notò che gli veniva dietro, a molta distanza, mangiando quello
che gli aveva lasciato, vedendo ciò un sorriso spontaneo e dolcissimo
si dipinse sul volto di Luca. Era incantevole come undicenne …
Non si sarebbe
mai e poi mai avvicinata, ma pensò che se anche lui si fosse agitato
mostrando la sua paura, sarebbe stato peggio: coi gatti randagi
funzionava così!
Forse, lui non
ne era sicuro, ma poteva darsi che una come Selene o Astrid, così
esuberanti e irrequiete, l’avrebbero spaventata.
Luca era un
bambino calmo e pacato di natura che però sotto pressione mostrava gli
artigli come in una trasformazione da cucciolo di leone a re dei leoni!
Ipotesi su
ipotesi nella fantasia che solo un bambino poteva avere e si sa, le
riflessioni che i bambini hanno per altri bambini, sono sempre le più
azzeccate.
“Mi
piacerebbe aiutarla e diventare suo amico … ha bisogno di ridere!”
Era
l’insegnamento delle sue sorelle.
‘Quando
incontri un bambino triste che non ride devi far di tutto per farlo
ridere e fargli tornare il buon umore, aiutalo come puoi, non lasciarlo
così! Mi raccomando!’
Un insegnamento
che aveva sempre attuato, inffatti era pieno di amici.
Ce l’avrebbe
fatta anche con lei?
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