Capitolo
2
Polvere. Nella vaga
penombra della stanza, la polvere eterea era l’unico elemento
che traspariva attraverso i pallidi raggi di luna che entravano dalla
finestra. Sembrava brillare, fugace, per poi disperdersi impetuosa tra
le ombre, come resti di una nave naufragata che svaniscono tra i flutti
perpetui dell’oceano.
Si mosse lentamente
nel buio della sua camera. Arrivò davanti alla finestra e
poggiò una mano contro la fredda superficie lievemente
incrinata, che da anni era la sua protezione contro
l’oscurità della Midgar notturna.
L’unico modo per lasciare fuori le ordinarie storie
di massacri, le sofferenze, le colpe di una città antica
come il mondo e che tesseva la propria realtà a spese di
coloro che vi vivevano. Nel silenzio aprì la finestra,
lasciandola cigolare.
La mezzanotte era
passata da un pezzo e, già da tempo, il sole era tramontato
oltre le colline vicino Midgar. Ci mise un po’ per abituarsi
all’oscurità che permeava ogni vicolo dei
bassifondi, ma alla fine i dettagli di quelle strade, che conosceva
così bene, riemersero pur restando nell’ombra,
celati dalla mano di un artista che ne tracciava sbiaditi contorni.
Riconobbe le strade, i viali, le varie forme dei detriti accumulati dal
tempo; percepì la gente, o la sua assenza, pur non riuscendo
a vederla.
Più avanti
si intravedevano le luci di alcuni lampioni, fari
nell’oscurità, che illuminavano le strade
principali che collegavano i vari Settori di Midgar tra loro. E poi,
oltre le luci, c’era il reticolato di strade e di case che,
come una macchia d’olio, si estendeva fin dove arrivava lo
sguardo; e infine, in lontananza, le onde del mare sulle quali si
rispecchiava confusa la figura della luna.
Distrattamente si
passò una mano tra i capelli, per ravviarli, poi
guardò il letto sfatto sul quale non era riuscita ad
addormentarsi nelle ore precedenti. Impetuosi pensieri
l’avevano distratta, togliendole il sonno. Si
affacciò alla finestra, ripercorrendo con lo sguardo le vie
che abitualmente attraversava nella sua vita quotidiana.
Poggiò il
gomito sul davanzale, taciturna, osservando la città che in
ogni istante si rinnovava davanti ai suoi occhi, simile al flusso dei
suoi pensieri.
In quegli ultimi anni
s’era spesso stupita di come non fosse mai riuscita davvero a
liberarsi dalla sensazione di attesa che quotidianamente
l’attanagliava. Lentamente, i ricordi di quei giorni erano
cominciati a sbiadire, come pagine consunte di un capitolo ormai chiuso
della sua vita. Ogni tanto, mentre camminava per le vie della
città, le sembrava quasi di vederlo: ma la verità
era che il dolore della perdita non si era mai attenuato, ma anzi, era
stato alimentato dalla stessa speranza che gli impediva di credere che
Zack fosse morto.
Pensava spesso a lui.
Pensava alle ottantanove lettere che gli aveva mandato, e alla
novantesima, che aveva avuto tra le mani quel pomeriggio, e che sperava
lo avrebbe raggiunto, riuscendo dove tutte le altre avevano fallito.
Pensava a come non avesse ancora sue notizie, e si chiedeva cosa gli
fosse successo, cosa l’avesse trattenuto lontano da lei per
così tanto tempo. E nonostante i mesi, le stagioni e gli
anni che passavano, lei continuava a pensare a quando sarebbe tornato,
magari alle soglie di una tranquilla estate, in cui, con passo stanco,
avrebbe oltrepassato la porta di quercia della chiesa e, come al
solito, le avrebbe sorriso.
Lui sarebbe tornato un
giorno. Lo sentiva.
O forse,
più semplicemente, lo sperava.
Si alzò e
prese la novantesima lettera che aveva scritto poche ore prima, in cui
fiumi di parole scorrevano impetuosi sul foglio. Si disse che quella
sarebbe stata l’ultima che gli avrebbe scritto, ma dentro di
lei sapeva già che non avrebbe mantenuto quel semplice
proposito che ogni volta si raccomandava di seguire.
Attraversò
a passi lenti la stanza, cercando di non far rumore per non svegliare
la madre nella camera accanto; aprì la porta e la richiuse
alle spalle silenziosamente, facendola aderire allo stipite. Scese con
prudenza le scale, quasi corse verso la porta d’ingresso e,
spalancandola, si ritrovò all’esterno, a respirare
l’aria fresca della notte fonda.
Dovunque il suo
sguardo si posasse, non vedeva altro che
l’oscurità di quei vicoli malfamati e spogli,
tetri a quell’ora della notte. Diede inavvertitamente un
calcio ad una lattina, e il rumore secco risuonò per decine
di metri intorno a lei, amplificato dal silenzio.
Forse non era stata
un’idea così geniale uscire a quell’ora,
si ritrovò a pensare mentre si guardava intorno circospetta.
Tuttavia, il tragitto che doveva compiere non era molto lungo. O
almeno, così pareva di giorno.
La notte, a Midgar,
era carezzevole, ammaliatrice, suadente; una nuova città
sorgeva, al tramonto, ed anche se le strade, le vie e le baracche
rimanevano le stesse, qualcosa cambiava: la luce spariva, e con essa
anche le persone e la vita di quei quartieri; e senza la sua anima, la
città che si levava sul far della sera appariva spoglia,
vuota, esanime. Ed era in quel momento che la città sorgeva,
o forse svaniva, inghiottita dalle tenebre.
Fece qualche altro
passo, aguzzando la vista oltre quei vicoli, finché non fu
irradiata dalle luci dei lampioni della via principale. Chiuse gli
occhi, istintivamente, per schermarli da quell’improvvisa
aggressione; dopo qualche secondo li riaprì, e a passo
svelto percorse il lungo viale che portava alla fine del Settore 5.
Già da lì riusciva a intravedere le alte e
semidiroccate guglie della sua destinazione, che svettavano
sugli edifici bassi delle costruzioni accanto a lei. Quando si
ritrovò davanti alla chiesa, lasciò che le sua
mani aderissero alla maniglia e che, aprendosi, il portone di quercia
scivolasse sui suoi cardini, cigolando. Richiuse la porta alle sue
spalle, con un piccolo tonfo, e si incamminò verso
l’abside semidistrutto di quello che da anni era diventato il
suo santuario e rifugio. Raggi di luna illuminavano fiocamente il
luogo, filtrando dalle parti in cui il tetto era ceduto; in
basso, i fiori che aveva coltivato durante quell’anno si
estendevano rigogliosi, pieni di vita, muovendosi al soffio degli
spifferi che attraversavano le fredde mura.
Si sedette in mezzo al
crocevia, là dove il parquet della chiesa finiva ed il
dislivello nel quale coltivava i fiori iniziava; in mano aveva ancora
la novantesima lettera, canale di speranza o forse solo di illusione, e
nella testa una grande quantità di pensieri, che si
materializzavano in ricordi lontani che una volta, in quel luogo, erano
stati realtà.
Spesso gli pareva
quasi di intravederlo, nell’ombra dietro agli alti pilastri
in marmo, mentre sorrideva, o esplorava la chiesa, strascicando i piedi
e tenendo lo sguardo sull’alto soffitto semi diroccato. Non
parlava, poiché Aerith si era ormai dimenticata che suono
avesse la sua voce, e dopo un po’ semplicemente si dileguava
inghiottito dall’oblio, ogni volta sempre più
sfocato, come se la sua memoria, giorno dopo giorno, lo stesse
allontanando, facendolo scivolare dalla sua mente e dai suoi ricordi.
E mentre rifletteva su
Zack, alle sue spalle udì dei passi. Calibrati, lenti, con
un ritmo costante che non veniva mai variato. In quella notte
così silenziosa e al tempo stesso invadente, quei passi
avevano spezzato la catena di pensieri che si diramava da quando il
sole era tramontato dietro i monti che circondavano ad ovest la
città.
Si voltò, e
riconobbe subito il volto del suo visitatore. Dopotutto, avrebbe dovuto
immaginarselo.
“Non sei a
casa” asserì lui, avvicinandosi e mettendosi di
fianco a lei, osservando l’erba che cresceva ai loro piedi.
“Non sono la
sola” rispose Aerith, accennando un sorriso sul volto che
fino a pochi attimi prima era invaso da una smorfia pensierosa.
“Sei in servizio?”
“Ovviamente”
confermò Tseng, atono, senza scomporsi.
Passò un
momento di silenzio, in cui nessuno dei due proferì parola.
“Come va con
la ferita?” chiese infine Aerith, dopo un po’.
L’uomo si
portò automaticamente le mani al volto, nel punto in cui,
ormai quasi ventiquattro ore prima, Cissnei l’aveva
sfregiato. Percorse con le dita il tratto nel quale si estendeva il
profondo taglio, con leggerezza, percorrendo la linea dei punti di
sutura.
“Va
bene” rispose con sincerità, perché
effettivamente parte del bruciore si era affievolito durante il corso
della giornata.
Aerith lo
osservò attentamente, stringendo gli occhi.
“Perlomeno non sei più coperto di
sangue!” concluse dopo qualche secondo. Gli lanciò
ancora qualche fugace occhiata, poi aggiunse, divertita:
“Posso sapere come…?”
“No”
rispose Tseng, imperturbabile.
“Ma se non
mi hai neppure fatto finire la frase!”
esclamò Aerith, delusa.
“La risposta
è comunque no!”
“Beh,
ma…”
“No”
la interruppe di nuovo l’uomo.
“D’accordo,
d’accordo!” rise Aerith, alzandosi e muovendosi per
alcuni passi lungo la navata della chiesa. Guardò ancora una
volta la lettera che teneva tra le mani, e si costrinse a non pensare
nuovamente a lui.
“E’
una storia buffa?” riprese, cercando di non dare peso al
pezzo di carta che stringeva tra le dita.
Tseng la
guardò come se fosse matta. “No!”
rispose, come se avesse pronunciato chissà quali
assurdità.
“Ma
“No” è l’unica parola che
conosci?”
“No!”
“Eddai,
è buffa?”
“Non
credo.”
“Io dico di
si, altrimenti me l’avresti raccontata!” disse
Aerith, imbronciata.
“Ti ho
già detto che non lo è!” gli rispose
Tseng atono.
“E allora
che motivo hai per nasconderla?”
“Affari
miei.”
“Non
potresti inventare una bella scusa almeno?”
“No!”
“Va
bene…” esclamò la ragazza, chiudendo la
conversazione. Ritornò accanto a lui, sedendosi sul
polveroso parquet della chiesa e osservandolo.
“E adesso
cosa c’è?” chiese Tseng, sospirando e
pentendosi di non aver dato un taglio netto alla conversazione fin da
subito. Purtroppo, Aerith era fatta così, e sapeva che, una
volta imbarcatasi in un’impresa, difficilmente demordeva.
Fuori s’era
alzato il vento. Lo sentirono ululare, caustico e sferzante.
Aerith sorrise, e non
rispose alla domanda dell’uomo.
Nonostante fosse
ancora notte fonda, la chiesa non era poi così buia. Si era
allontanato dall’abside dell’edificio, e adesso si
aggirava silenzioso tra le colonne, ammirandone le fattezze.
Gettò distrattamente uno sguardo ad Aerith, per controllare
che fosse ancora dove il suo sguardo l’aveva lasciata
l’ultima volta. Rassicuratosi, lasciò vagare la
vista sulle travi portanti semidistrutte, smarrito nei suoi pensieri.
Non aveva avuto
nessuna notizia di Reno durante il giorno che era appena trascorso, ma
l’ultima volta che l’aveva visto, quasi
ventiquattro ore prima, sembrava essere quasi fuori di sé.
Sospirò, ripensando alla missione che era stata affidata da
Scarlet al giovane Turk.
Trovare Cissnei.
Riportarla indietro.
Passò una
mano sulla ferita, ancora fresca. Si chiese dove fosse la ragazza.
Subito dopo essere stato attaccato aveva perso i sensi, e non era stato
capace di fermarla.
Aveva
aperto gli occhi, tremando, sbattendoli più volte. Quando si
era accorto di cosa fosse successo, si era alzato di colpo,
procurandosi un’acuta fitta alla tempia. S’era
passato una mano sul volto, percorrendo il solco che lo Shuriken di
Cissnei aveva lasciato su di lui. Poi, alzando lo sguardo
sull’orizzonte su cui stava sorgendo l’alba, aveva
compreso di non aver compiuto la missione che la nuova direttrice,
Scarlet, gli aveva assegnato.
Non
era stata un’amichevole chiacchierata, quella che lui e la
donna avevano avuto al cellulare subito dopo.
“Sai
perché non sono minimamente stupita?” aveva
domandato sardonica lei, non appena l’aveva informata sugli
ultimi sviluppi della faccenda.
Non
aveva risposto.
“Ho
sempre pensato che i Turk non fossero altro che un branco di
mollaccioni incapaci. Il più indisciplinato tra i gruppi
d’assalto della ShinRa, il primo che compare in percentuale
agli imprevisti durante le missioni…”
Tseng
era rimasto in silenzio, stringendo la presa della mano attorno
all’apparecchio.
“Insomma,
una vera e propria palla al piede per la ShinRa Corporation”
aveva continuato lei, non riuscendo a non nascondere un ghigno di
soddisfazione attraverso la sua voce. “Ma ora che mi trovo
temporaneamente a ricoprire l’incarico di comandante della
sezione , capisco che il mio giudizio era errato. Non è
solamente un mio pensiero, perché i Turk sono” e
sottolineò il verbo con enfasi “un branco di
mollaccioni incapaci. La mancanza di disciplina è in effetti
anche la vostra rovina.”
Anche
questa volta non aveva risposto, mentre la donna si compiaceva del
proprio giudizio con una risata. Ricordava di aver sentito
l’odode della terra bagnata. Probabilmente era piovuto da
poco.
“Tseng?”
lo chiamò Aerith, voltandosi.
L’uomo si
destò dalle sue riflessioni. Era quasi l’alba.
“C’è
qualcosa che non va?”
Sospirò.
“Stavo solo pensando” rispose, atono. Sentiva
ancora la voce della direttrice sibilargli in testa.
“Sembravi
molto serio” constatò Aerith, fissandolo con
attenzione e avvicinandosi. “Sei sicuro che vada tutto
bene?”
Tseng ci mise un
po’ a rispondere. La tempie gli pulsavano ancora
terribilmente per via della risata stridula che si perpetuava
all’interno della sua testa. “Sì,
è solo un periodo difficile per tutta la ShinRa”
disse poi, lasciando che la sua mano ancora una volta scivolasse lungo
la ferita chiusa.
Aerith non rispose.
Sapeva che l’uomo non le avrebbe mai detto più di
tanto, quindi non indagò oltre nei suoi pensieri. Mise una
mano in tasca e la strinse intorno alla lettera, lasciando che
scivolasse lungo il foglio ruvido. Lo tirò fuori per
osservarla ancora una volta, lo sguardo chino, incerta se consegnarlo o
meno all’uomo.
“Un’altra
lettera?” la anticipò Tseng.
Alzò gli
occhi, ma non fu abbastanza forte per incrociare il suo sguardo. Poteva
quasi sentire le implicite accuse che il Turk le rivolgeva con il suo
prolungato silenzio, in attesa di una risposta che da parte sua non
sarebbe arrivata. Si disse che doveva essere più forte, e
fece per nascondere la lettera tra le pieghe del suo vestito, con
naturalezza, cercando di celarla agli occhi dell’altro.
“Non
è nulla…” si affrettò a
pronunciare, rimettendola in tasca.
Tseng le si
avvicinò, lentamente. “Ho accettato le altre
ottantanove senza problemi, perché non dovrei prendere
questa?”
Non seppe cosa
rispondere, e si limitò ad osservare la mano spalancata che
l’uomo le aveva teso davanti, aperta e disponibile alle sue
richieste non pronunciate. Dischiuse le dita intorno al foglio di carta
opaco e lo lasciò cadere nel palmo dell’altro, che
lo afferrò e lo ripose all’interno della sua
giacca.
“Grazie…”
emise lei d’un soffio, sottovoce. Tseng non rispose e si
allontanò dai suoi occhi, svanendo
nell’oscurità dell’abside privo di
finestre. Le sue mani tornarono più volte sulla lettera che
si era fatto affidare, sottile e leggermente increspata, inutile eppure
così significativa.
Lasciò che
le tenebre che avvolgevano quella zona della chiesa lo nascondessero
agli occhi di Aeris. Nessuno l’aveva ancora informata sugli
avvenimenti degli ultimi giorni, e sulla reale entità dello
squilibrio che lentamente si stava diffondendo lungo i piano alti della
ShinRa. Il ritrovamento e la morte di Zack Fair era solamente stato
l’ennesimo chiodo sul coperchio della loro bara.
Guardò
Aeris, distesasi su una delle panche di legno della chiesa ad occhi
aperti, mentre osservava le alte finestre da cui filtrava la prima luce
dell’aurora. In quel momento, capì che prima o poi
sarebbe toccato a lui infrangere le speranze che ella aveva accumulato
in tutti quegli anni. S’immaginò di scattare in
avanti, verso di lei, deciso, serio, irremovibile nella sua decisione;
di urlarle contro, di sbatterle in faccia che Zack era morto, che non
sarebbe tornato, e che le sue novanta stupidissime lettere erano state
tutte inutili. Immaginò lo sguardo della ragazza, serio,
affranto, disperato o composto che fosse, e le sue reazioni alla
sconvolgente notizia. Fu sul punto di uscire dall’ombra e
lasciare che quel peso non gravasse più solo su di lui,
cercando di emulare la decisione che ostentava nei suoi pensieri. Ma
non ci riuscì, e rimase ad aspettare che i tiepidi raggi del
sole illuminassero l’abside prima di fare un passo verso
l’uscita del grande edificio.
L’aria era
mite, la mattina presto, e Tseng la assaporò per un istante,
prima di volgere la sua attenzione alla lettera affidatagli da Aeris
che aveva riposto nella tasca interna della sua giacca. Per un lungo
attimo lasciò che gli scivolasse tra le dita, carezzandone
la ruvida fattura. Poi, preso da un impeto di rabbia o forse solo
schiavo delle sue emozioni, la strappò una volta, e ancora,
e ancora, disperdendone i pezzi nel vento.
Osservando
distrattamente il cielo attraverso le fronde scure degli alberi,
capì che la lunga notte nella foresta era finalmente finita.
Ansante, stremato, sfinito dalla lunga marcia, lasciò che la
sua schiena aderisse contro il ruvido tronco di una quercia, respirando
l’aria gelida del mattino imminente.
Confuso e agitato,
posò lo sguardo sulla Buster Sword che teneva tra le mani,
tratteggiandone i solchi con le dita e osservando il suo riflesso opaco
che la lama rifletteva. Era riuscito a scrostare il sangue che gli
insudiciava il volto, presso un ruscello raggiunto qualche ora prima,
ed adesso il suo viso appariva più giovane e meno teso.
Osservò il riflesso dei suoi occhi, stanco, disperato,
lucente a causa dell’esposizione all’energia Mako,
e si chiese per quanto ancora avrebbe continuato a vagare senza meta,
ignorando la sua posizione. Lì, nell’infinita
penombra del sottobosco, sembrava che la natura non avesse mai
conosciuto la mano dell’uomo, tanto era prospera e
rigogliosa.
Non voleva ammetterlo
a se stesso, ma probabilmente per gran parte della notte aveva vagato a
vuoto: nonostante infatti gli fosse sembrato di aver percorso diversi
chilometri, aveva udito comunque il sommesso fruscio del breve corso
d’acqua presso il quale si era rinfrescato, come se non
avesse mai abbandonato il pendio terroso sul quale il fiumiciattolo
sorgeva.
Gli uccelli adesso
cantavano, preannunciando il bagliore rosato di cui lentamente si
tingevano sprazzi di cielo oltre gli alberi. L’atmosfera
divenne, nel giro di pochi attimi, meno greve e cupa, rischiarata dai
primi raggi del sole che, deboli ma accecanti, già
rischiaravano le foglie morte cadute dagli alberi.
Alzatosi in piedi,
riuscì a procedere più velocemente rispetto a
quanto avesse già fatto a tentoni
nell’oscurità. Notò che, nonostante le
apparenze, tracce inequivocabili del passaggio umano apparivano
saltuariamente tra le radici nodose degli alberi: rami spezzati,
tranciati da un’ascia o da altri oggetti contundenti,
liberavano i sentieri più ardui da percorrere, agevolando di
molto il cammino. E, mentre la flebile luce dell’alba cedeva
il passo a quella più sicura e decisa della mattinata, ed il
sole si levava già nel cielo alle sue spalle,
cominciò a notare alberi più radi e meno
affusolati nella forma, le cui radici si diramavano in maniera
più omogenea percorrendo minore distanza rispetto a quelli
secolari all’interno della grande foresta. Ma fu solamente
parecchie ore più tardi, quando il sole, raggiunto lo zenit,
cominciava a tramontare davanti ai suoi occhi, che riuscì
finalmente ad intravedere la grande pianura che si estendeva nei pressi
della Chocobo Farm.
Stanco per il lungo
viaggio, si lasciò scivolare lungo il tronco di un abete,
così come aveva fatto durante l’alba, sedendosi
sulla terra umida bagnata da un temporale passeggero.
La grande luce delle
pianure, così violenta rispetto a quella che filtrava
all’interno del bosco, inizialmente lo assalì
brutalmente, costringendolo a serrare gli occhi e a ripararsi con il
dorso della mano. Poi, cominciò ad abituarsi alla luce
violenta, e al bagliore arancione che si tingeva sulle montagne che
recidevano la linea retta dell’orizzonte, in lontananza.
Cloud si disse che,
probabilmente, per quel giorno aveva già solcato abbastanza
sentieri e, alzatosi da terra, decise di accendere un fuoco per tenere
lontane le bestie a causa delle quali durante la precedente notte non
aveva chiuso occhio. Si alzò e rovistò nello
zaino che portava alle sue spalle, setacciandolo alla ricerca di una
materia adatta ad accendere un fuoco. Ne trovò una incrinata
su più punti, vecchia e dimessa, che doveva avere con
sé da moltissimo tempo, perché non ricordava
neppure come l’avesse ottenuta. Dopo un paio di tentativi,
riuscì ad accendere un fuoco di piccole dimensioni la cui
fiamma venne spenta dopo pochi secondi da un lieve soffio di vento.
Sospirò e
ripeté il gesto, ottenendo una fiamma di dimensioni maggiori
il cui crepitare riempì l’aria del crepuscolo
nascente. La alimentò con diversi rami secchi e infine,
quando fu certo che non si sarebbe più spenta,
cercò qualcosa da mettere sotto i denti, ma con scarsi
risultati.
Quando la sera scese
alle porte della pianura, si ritrovò nuovamente seduto ai
piedi dell’abete, di fianco al fuoco che saltuariamente
scoppiettava, lanciando scintille che si erano spente ancor prima di
toccare terra.
Perse il suo sguardo
nella luce che le fiamme emanavano e nel loro continuo rinnovarsi, di
attimo in attimo, rischiarando le brune cortecce degli alberi. La luna
sorgeva luminosa anche quella notte, rischiarando le lontane colline
aldilà della pianura. E mentre osservava la grande luna in
cielo, sulle colline e aldilà di quelle, notò il
grande bagliore luminoso che, come una scintilla
nell’oscurità, rischiarava la nera notte. Il
grande bagliore luminoso di una città che conosceva bene, e
che, come aveva imparato durante tutti gli anni che vi aveva trascorso,
non dormiva mai.
E mentre la luna si
levava alta nel cielo, mai più splendente che in quella
notte, e l’aria si tingeva dell’aroma di un
temporale appena passato, Cissnei si ritrovò a fermarsi per
riprendere fiato, nel bel mezzo della grande radura che Cloud aveva
ammirato dall’uscita del bosco. Ogni tanto si voltava
indietro, impassibile, ad osservare la grande città che
lentamente sfumava via dalla sua vista; e ad ogni passo, quella grande
luce che rischiarava le colline e il cielo si allontanava e svaniva
inghiottita dalle tenebre, sempre di più.
La notte era soave e
delicata, in quel campo, come uno dei tanti fiori che crescevano
rigogliosi in quella zona. Ne osservò la maestosa corolla
che era il cielo indaco, ammaliata dall’enorme
quantità di stelle che da lì erano visibili, di
gran lunga maggiore a quelle che era solita ammirare
dall’alto della sua collina fuori Midgar. Si sentì
libera, per la prima volta dopo tanto tempo, dai legami che gli uomini
della città avevano stretto intorno a loro, nella vana
speranza di cercare una sicurezza che lei aveva conosciuto solo adesso
che si era allontanata da quel mondo a loro tanto caro. E mentre udiva
i grilli cantare per lei, in quella notte così chiara e
adamantina, allontanò per qualche ora il pensiero di Zack
che tanto l’aveva perseguitata durante tutto il giorno
precedente, e continuò il cammino solo per il puro gusto di
andare avanti, e di scoprire nuovi luoghi come quello, capaci di
rasserenare e acquietare i turbamenti dell’animo.
Quando il display del
suo PHS segnava ormai la mezzanotte da un pezzo, decise di sostare per
un po’ in una radura presso la quale alcuni alberi isolati
proiettavano sfocate ombre alla luce della luna. Ma nel momento esatto
in cui si sedette a terra, tutta la stanchezza accumulata durante le
ore che aveva trascorso in fuga le si riversò addosso, come un
fiume in piena che irrompe furiosamente dagli argini. D’un
tratto sentì il rimorso e il dolore per la perdita di Zack
nuovamente e con maggiore rammarico, e gli parve di rivivere la
conversazione che aveva sostenuto con Tseng come se fosse avvenuta
appena qualche minuto prima.
Strinse le gambe al
petto, mentre il cielo si macchiava di nubi gonfie giunte da est che
sembravano preannunciare una nuova tempesta imminente.
Venne assalita dalla
solitudine che serpeggiava dentro di lei, e si chiese a cosa servisse
quel disperato viaggio senza meta che aveva deciso di affrontare. Aveva
lasciato la ShinRa e non aveva alcuna intenzione di tornare tra i suoi
ranghi, ma adesso si sentiva sola, sperduta, smarrita
nell’immensità di un mondo che non aveva mai
affrontato da sola.
Lasciare la ShinRa, lo
capiva solo ora, era un po’ come perdere se stessi. E lei,
senza se stessa, fino a quel momento, non lo era mai stata.
Persa nei suoi
pensieri, gettò uno sguardo disinteressato al cielo
soffocato dalle nubi; e fu in quell’istante, mentre osservava
i rimanenti limpidi spazi di cielo, che notò un insolito e
scintillante bagliore che si muoveva nel cielo. Ed in quel momento,
allontanato ogni altro pensiero su Zack e sul suo futuro,
cominciò a correre velocemente, cercando riparo nelle grandi
foreste che si estendevano ai margini della pianura.
A Midgar la serata era
stata uggiosa e buia, preannunciando un temporale che di lì
a poco avrebbe scatenato la sua furia sulla città inerte. La
luce della luna, offuscata dalle nubi, non raggiunse nemmeno una volta
le solitarie strade, battute unicamente dai rivoli di pioggia che si
radunavano in pozzanghere di sempre maggiori dimensioni. Al contrario,
invece, l’acquazzone sempre crescente manifestò la
sua furia sulla città addormentata, piegandola al suo volere
e illuminandola saltuariamente quando i lampi squarciavano il cielo.
Gocce di pioggia si
infrangevano contro le ampie vetrate del suo attico, situato nei piani
alti dell’edificio ShinRa. Da quell’altezza,
ammirò come la natura manifestasse la sua tremenda forza
sull’uomo, e su come quest’ultimo fosse indifeso di
fronte ad essa. Mosse alcuni passi verso il vetro, ed il rumore dei
tacchi alti sul marmo scandì elegantemente il suo cammino.
Poggiò una
mano sulla finestra, perdendo lo sguardo tra le oscure vie desolate
della grande metropoli. Midgar si estendeva davanti ai suoi occhi,
costretta ad un letargo forzato imposto ingannevolmente dalla pesante
pioggia. In nottate del genere, quasi nessuno si avventurava per le
vie, rese impraticabili dal tempo. E quando nessuno solcava le strade
della città, sembrava quasi che quest’ultima
perdesse la sua anima, e divenisse un mero fantasma sbiadito, slavato e
incolore.
Ora che ci pensava, in
effetti, in quel momento le condizioni atmosferiche non sarebbero
potute essere migliori.
Da quando era riuscita
a dirigere provvisoriamente anche il reparto Turks, era stata
incaricata di risolvere parecchie seccature inutili; ma ciò,
stranamente, non l’aveva infastidita, perché
sapeva che era solo il primo passo al fine di mettere in moto qualcosa
di più grande. Aveva lavorato per parecchio tempo a quel
determinato piano, instancabile, pregustando la gloria che prima o poi
ne sarebbe conseguita, certa che un giorno i suoi sforzi sarebbero
stati ripagati. E adesso, osservando la ShinRa che cadeva sotto gli
insistenti colpi dei nemici, aveva deciso che probabilmente non avrebbe
trovato un’altra occasione per attuare le sue macchinazioni.
Sorrise alla tempesta,
salutando la pioggia che si infrangeva sulle vetrate come colei che
portava via gli ultimi residui di quel governo poco mirato che aveva
ridotto Midgar in malora. Una volta che lei sarebbe divenuta la nuova
Presidente, era certa che il destino della compagnia si sarebbe
rivoltato, e che una nuova età dell’oro avrebbe
investito la ShinRa e tutto le terre a lei alleate.
Fu in quel momento che
udì qualcuno bussare alla porta, lievemente, battendo due
volte le nocche sul lucido mogano. Si riscosse dai suoi pensieri, e il
ghigno sul suo volto svanì.
“Chi
è?” chiese, calibrando il tono della voce
affinché non sembrasse troppo soddisfatto.
“Sono
Michael.” rispose una voce dall’altra parte della
porta.
Scarlet sorrise,
pregustando una pungente chiacchierata. “Entra pure,
Michael.”
La porta si
aprì lentamente, cigolando sui cardini antichi. Davanti ai
suoi occhi apparve un uomo di circa trent’anni, in giacca e
cravatta, che rimase immobile sull’uscio, osservandola.
“Allora,
Michael” cominciò la donna, ponendo parecchia
enfasi su quel nome. “Credevo di averti dato la serata
libera.”
“Questo
è vero” esordì l’uomo,
avanzando disinvolto per la stanza. “Tuttavia, non credo di
avere molta scelta su dove trascorrere la mia vacanza, data la grande
tempesta che si è abbattuta sulla città. Davvero
simpatico, da parte sua, concedermi del tempo libero oggi.”
“Beh, la tua
dedizione è ammirevole” rispose Scarlet, ironica,
ignorando la sua ultima frase con un sorriso sarcastico.
“C’è un motivo particolare per cui mi
hai disturbato, o si tratta solo dell’ennesimo tentativo
malriuscito di farmi perdere le staffe?”
“Per la
verità, mi manda il Presidente ShinRa”
annunciò l’uomo, con voce ferma.
“Gradirebbe parecchio poter avere una chiacchierata con lei,
il ché, a mio avviso, è davvero straordinario,
poiché di solito ogni persona sana di mente preferisce
starle a debita distanza.”
“Riferiscigli
che aspetto la sua visita con ansia” rispose la donna, seria,
scartabellando alcuni documenti sulla sua scrivania. “E
quanto a te... beh, sentiti pure libero di stare a debita distanza da
questo ufficio. Ti assicuro che nessuno sentirà la tua
mancanza.”
“Naturalmente”
decretò lui, sorridendo. “Bene, andrò a
contattare il presidente subito.”
Scarlet non rispose, e
lasciò che l’uomo abbandonasse la stanza.
Ascoltò il rumore dei suoi passi spegnersi lungo il
corridoio, poi si preparò in vista dell’incontro
con il presidente e ai possibili nuovi pezzi che l’uomo
avrebbe potuto schierare in campo. Era certa che non sospettasse nulla
del suo piano: l’unico che ne era a conoscenza, in effetti,
era Michael. I suoi pensieri deviarono per un momento su di lui, mentre
lo sguardo si posava sulla porta che pochi secondi prima
l’uomo aveva attraversato. In effetti, nel momento in cui si
sarebbe appropriata del comando, il posto che avrebbe occupato Michael
sarebbe stato quello che adesso apparteneva a lei. Nonostante non
perdesse occasione di biasimarlo, sapeva della sua profonda
lealtà nei suoi confronti, ed era per questo che dopotutto
si fidava di lui. Persino quel cinico senso dell’umorismo di
cui era fornito era un punto a suo favore: nonostante talvolta lo
ritenesse tremendamente sfacciato, era certa che questa sua dote, in
futuro, gli sarebbe risultata utile.
Il presidente si
annunciò con un finto colpo di tosse, osservandola serio
dall’entrata dell’attico.
“Presidente
ShinRa!” esclamò lei, voltandosi verso di lui e
chinando lievemente la testa.
“Salve,
Scarlet” la salutò quello, avvicinandosi alla
scrivania dove quest’ultima era seduta. “Pessima
serata, non trova?”
“Piuttosto
uggiosa, in effetti” si ritrovò a rispondere lei,
indicando il vento che ululava fuori dall’edificio.
“Prego, si accomodi” aggiunse poi, indicando una
delle due poltrone situate in un angolo dell’attico.
“Grazie”
disse quello, stanco, sedendosi compostamente. Fece una lunga pausa,
smarrendo lo sguardo tra le pesanti gocce di pioggia che si riversavano
sulla città. Poi aggiunse, con un sospiro
sfiancato: “Dobbiamo discutere del futuro di questa
compagnia. In effetti, non scherzo nell’affermare che siamo
di fronte alla situazione più difficile che la ShinRa abbia
mai dovuto affrontare, e, francamente, non saprei nemmeno dire come
possa uscirne indenne: per questo ho bisogno del suo aiuto, Scarlet,
della sua audacia nel campo degli affari, e della sua attitudine al
comando, per un consiglio fidato su quelle che sono le sorti del mondo
intero. E spero che sarà così gentile da non
negarmelo, perché mai come adesso la compagnia ha avuto
bisogno del suo aiuto.”
Scarlet si sedette di
fronte all’uomo, assumendo una maschera seria sul volto.
“Naturalmente può contare su di me”.
Il Presidente le
rivolse un accenno di sorriso, grato. Poi, tossendo, osservò
nuovamente il violento temporale, facile preda dei suoi pensieri.
“Speriamo che la tempesta esaurisca la sua furia
presto” sussurrò infine, mentre la luce di un
lampo illuminava improvvisamente le iridi dei suoi occhi spenti.
Fine
Capitolo 2
Ehm. Allora. Non
aggiornavo questa fic da circa… un anno. Mica male, eh? xD
Seriamente, scusate il
mostruoso ritardo. D’ora in poi cercherò di
mantenere un andamento più regolare per questa storia, in
modo tale che giunga alla fine più o meno entro una
cinquantina d’anni, invece dei cento che sarebbero passati
con l’andatura da bradipo che ho ingranato durante questi
ultimi mesi.
Spero vi piaccia,
perché, sinceramente, a me non sembra un granché
(specie per la parte finale, che si discosta davvero molto dal resto
del capitolo).
Ringrazio vivamente
Bankotsu, Lirith e Valy_Chan per aver commentato il capitolo precedente
(Grazie a tutti per i complimenti, sono felice che via sia piaciuta
tanto ^^) e soprattutto quest’ultima per aver inserito la fan
fiction tra le preferite. Grazie, grazie, grazie :D
Infine, vorrei
spendere ancora un minuto in questa nota finale di capitolo, per
sottolineare un importante fattore che mi ha spinto a recuperare questa
fic: fino a venerdì sera, infatti, il capitolo contava
appena tre paginette scarse. Tuttavia, ho deciso di scrivere le
successive sei pagine in così poco tempo perché,
dopotutto, volevo onorare la memoria di un amico che, due anni fa
circa, aveva letto la prima versione di questa fan fiction (che
all’epoca si chiamava solo After Crisis) e che
l’aveva da subito amata. Adesso, a due anni di distanza, sono
cambiate molte cose: ma io gliela dedico comunque, perché
credo che sarebbe contento di vedere che (almeno in parte) sono
migliorato e che ho affinato ulteriormente il mio stile.
Quindi, con la
speranza che il prossimo capitolo arrivi entro il prossimo decennio (e
qualcosa mi dice che sarà così), vi lascio qui. A
presto!
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