0. Prologo
Se c’era una
cosa che detestava con tutto il cuore erano i clienti che volevano
mettersi a tutti i costi a fare il suo lavoro. Lanciò uno
sguardo rassegnato al campo brullo e gibboso, da cui emergevano grossi
ciottoli. Lontane lungo il fosso in secca, due figurine immobili,
attorcigliate su una specie di enorme spillo dalla capocchia azzurra.
Mirko e Claudio. Quanto li invidiava. A lei toccava per
l’ennesima volta lo sproloquio torrenziale del loro infido
cliente. Era certa che se l’avesse cronometrato, avrebbe
raggiunto il ragguardevole traguardo dei venti minuti ininterrotti di
dissertazione sul cosa stessero sbagliando.
«Signorina, mi ascolta?» ringhiò l’uomo,
grattando il ventre prominente sotto la maglietta lisa e sudaticcia.
Stremata da quello tsunami verbale, Amelia si limitò ad annuire
scartabellando fra le tavole spiegazzate in cerca di un bel niente. Ma
questo lui non poteva saperlo.
«Dicevo che mica che potete venirci qui senza dirci niente, che
qui c’abbiamo da lavorare noi» spiegò, in un
italiano maccheronico.
La pesante cadenza dialettale dava ad intendere che non facesse molta pratica dell’idioma nazionale.
«Perché io sono in gita, eh?» pensò tra
sé, irritata dalla sua grande dote di incassatrice e dalla
scarsa attitudine ad alzare la voce.
Era cresciuta sotto lo stretto dettame che l’educazione vien
prima di tutto, anche quando hai di fronte il re dei cafoni. Se questo
la faceva ben volere dalle segretarie e dai colleghi, di contro le
rendeva quasi impossibile puntare i piedi con i clienti dello studio.
Soprattutto quel genere di cliente che ora aveva davanti.
Intanto la rampogna era andata avanti, spaziando dalla scarsità
di contatti col suo capo, al perché diamine non davano una mossa
a quei cretini del Comune-del servizio Sanitario-delle fogne-eccetera
che non rilasciavano quanto dovuto. Inutile tentare di spiegare che
ogni ente aveva delle tempistiche da seguire per l’iter della
pratica e che queste non coincidevano mai con il termine
“subito”.
«E poi non c’avete detto che quelli là venivano a fare il rilievo»
Sorpresa dal termine tecnico, o per meglio dire allarmata, Amelia alzò gli occhi dai disegni.
«Guardi che il rilievo è stato fatto a settembre
dell’anno scorso» osservò quieta, sperando di
contagiare con la sua calma il ciarliero tiranno.
Niente ad fare. Quello riprese berciando che non era vero, che quella
cosa non era stata fatta, che ne era più che certo perché
lui andava lì ogni giorno, e che quei due in mezzo al campo il
rilievo lo stavano facendo in quel momento.
«Lei sa cos’è un rilievo?»
s’informò cautamente, anche se già immaginava la
risposta.
«Fanno il disegno»
Sintetico. Vago. Sostanzialmente corretto nel concetto, ma non nella pratica.
«Vede, quello che stanno facendo ora non è il rilievo
dell’area. Stanno posizionando gli strumenti per definire i
punti…»
«Un cazzo!» sbraitò l’interlocutore che, senza
lasciarle il tempo di ribattere, si profuse nell’ennesima tirata
sul fatto che lo si stava prendendo per i fondelli, che lui sapeva
perfettamente cosa stavano facendo e che stavano sbagliando tutto di
proposito per fargli spendere altri soldi che lui, per inciso, non gli
avrebbe dato e che comunque non aveva.
«Io ho chiesto in giro e sono andato a vedere che facevano gli
stessi lavori giù di là, dietro la plastica»
ringhiò, indicando una tensostruttura al limitare della zona
artigianale. «C’ho chiesto tutto, fanno uguale a noi»
«Ne dubito» azzardò a mezza voce.
«Ma lei cosa ne sa! Mica ci capisce di queste cose!»
Sgranò gli occhi per un paio di secondi, felice
d’indossare gli occhiali da sole. Prese tempo aggiustando il
plico dei documenti mentre tentava di ricomporsi. Sistemò il
foglio per il verbale di cantiere sopra la cartelletta e
cominciò a scrivere.
«Io sarei un architetto» osservò, accennando un sorriso conciliante.
«Eh, ma non vuol dire niente! Io c’ho chiesto
all’ingegnere che stava là e c’ho detto che dovevamo
fare queste robe dentro nella terra e lui ha detto che non si fa mica
come dite voi, che non si fa il giro col naso per aria a fare un cazzo
per due ore senza dirci niente. Ci vuole quello che fa i lavori e uno
bravo, mica l’architetto. Ci vuole il geometra! Lei non lo sa
come si fa. E poi l’ingegnere là c’è sempre,
invece voi qua ci venite quando vi gira il culo»
Per poco la penna non le scappò di mano. Andava in quel
postaccio infame almeno un paio di volte la settimana da più di
dieci mesi e questo secondo lui era non essere presente sul campo? Un
altro po’ ed avrebbe potuto chiedere la residenza.
«Ma guardi che…» tentò di ribattere, finendo nuovamente zittita dalla parlantina scatenata.
«No, no, perché io mi son rotto i coglioni di aspettarvi
che siete sempre in ritardo e non avete mai tempo di fare quello che vi
dico io. Io c’ho da lavorare, mica come voi che state in giro
tutto il giorno e non si sa dove vi cacciate che non vi si trova mai!
Non c’ho mica i soldi da buttare nel cesso io! Io lavoro»
Se avesse avuto la forza di fregarsene delle buone maniere,
l’avrebbe scaraventato in pasto alle nutrie. Sapeva che
c’erano e tante: gli argini del fosso erano traforati dalle loro
tane, alcune di dimensioni preoccupanti.
«Vado a sentire cosa mi dicono» glissò a denti
stretti, superando il ponte che congiungeva la strada al campo.
Mirko veniva avanti con la testa china, come se cercasse qualcosa.
«Problemi?»
«Il chiodo. Non c’è più. Non possiamo tracciare senza»
Che bella notizia. Voleva dire rinviare i lavori di almeno un’altra giornata.
«Sei sicuro?»
«Sì, è sparito» confermò Claudio,
appoggiandosi allo strumento «Abbiamo provato tre volte con i
punti che abbiamo preso dalla sponda, ma senza quello di mezzo non
riusciamo a vedere le coordinate. Dà errore ogni volta»
spiegò, battendo la mano sull’asta che mandava sonori bip
di disapprovazione per le batterie scariche.
«Ci mancava anche questa! E quello mi sta tirando matta che non stiamo facendo le cose giuste»
«E che cazzo ne sa lui?» chiese Mirko, cercando le sigarette nel marsupio.
Amelia fece un cenno come a dire di lasciar stare. Includendo anche l’idea di fumare vicino a lei.
«Dov’era il chiodo?»
Claudio si guardò intorno, in cerca di un punto di riferimento.
«Vedi lo scavetto in mezzo al campo? Più o meno a metà. Solo che…»
«Che?»
«Beh, sembra che hanno annaffiato. Quando siamo venuti
l’altro ieri la terra non mi sembrava così, è
più piatta»
Non occorse cercare a lungo: dato che la terra era secca e dura, il
cliente aveva pensato bene di far arrivare un’autobotte per
“dare una bagnata” all’area, nell’idea di
agevolare chi avrebbe dovuto scavare nei giorni successivi.
L’acqua impiegata era stata però talmente tanta che aveva
finito col trascinare via il chiodo ed il blocchetto di cemento in cui
era stato infisso.
***
La chiave girò a fatica nella serratura, come sempre. Nella
tromba delle scale rimbombava la voce di un giornalista e gli strepiti
dei bambini del piano di sotto. L’odore di minestrone e carne
carbonizzata su qualche griglia elettrica si addensavano sui gradini.
Amelia sospirò, entrando in casa. I suoi non c’erano.
Erano partiti quella mattina per un viaggio organizzato dalla
parrocchia. Don Arturo aveva messo in piedi uno dei suoi soliti tour
della fede, tra santuari e luoghi di devozione la cui esistenza era
ignota persino alla Santa Sede. Si lasciò cadere a faccia in
giù sul divano, tastando il tavolino in cerca del telecomando.
Desistette dopo un paio di tentativi: l’idea di una qualunque
voce che si produceva in una fiumana insensata di termini messi
lì a casaccio le dava la nausea.
Anche l’appetito le era passato da un pezzo e al diavolo la succulenta parmigiana che sapeva essere nel frigo.
Soffocò un urlo liberatorio in uno dei cuscini bordati di pizzo
all’uncinetto della nonna. Probabilmente dovevano averla sentita
fino al piano terra, ma poco importava. Era fuori dai gangheri
più del solito.
«Quanto ti odio! Quanto ti odio! Brutto… brutto… approfittatore!»
No, non ce la faceva proprio ad insultarlo come avrebbe voluto. Come
avrebbe meritato. Il suo capo l’aveva piantata nelle grane,
sparendo come suo solito in quell’amena località che aveva
nome Montecarlo. Il disgraziato era stato irreperibile fino alle
diciotto, adducendo come scusa l’assenza di campo. Era una balla
colossale, tutti in ufficio lo sapevano. Quando si parlava del
principato, voleva solo dire una cosa: non scocciare e cavarsela alla
meno peggio.
Sì, perché l’architetto Tramonti aveva il brutto
vizio di non rivelare troppo delle pratiche alle sue assistenti, cosa
che non giovava affatto al lavoro. Tre brave ragazze (pie donne, diceva
il portinaio) che facevano di tutto, dagli schizzi ai contratti ai
computi, lavorando in orari assurdi, talvolta anche nel week-end o
rientrando di corsa dalle agognate ferie. E tutto perché a causa
della crisi economica, era bene tenersi stretto il proprio lavoro,
anche quando non dava alcuna soddisfazione, anche quando cominciava a
fare schifo. Erano mesi che Amelia si alzava dal letto con un artiglio
piantato nelle viscere dopo nottate insonni, angosciata dall’idea
di avere arretrati da smaltire o errori nei documenti.
Si mise a sedere nella penombra del soggiorno. Non c’era un solo
muscolo che non le facesse male, specialmente nelle gambe. Arrancare
tra le croste di fango solidificato era molto peggio che camminare su
una spiaggia di sabbia fine. Sfilò gli occhiali ancora
impolverati e pieni di ditate. Inspirò profondamente, premendo i
palmi sugli occhi. Ripensare ai mugugni seccati del capo, che aveva
trovato una quindicina di inutili chiamate in segreteria, le faceva
venire le lacrime agli occhi. Era stata a malapena capace di
fargli sapere del casino che quel tizio aveva combinato, che lui
l’aveva sommersa di rimproveri e farfugliamenti riguardo al non
poter lasciare quello stramaledetto ufficio per un po’ di
meritato riposo.
«Meritato riposo dice lui. Ci fa correre come pazze e dobbiamo
anche stare zitte alle sue ramanzine! Vorrei proprio sapere
perché diamine…» ma non terminò la frase.
Interrogarsi sul perché il mestiere di architetto le desse la
nausea era inutile. Le davano della pazza quando diceva che quello non
era ciò che voleva fare. Aveva trascorso sette anni al
Politecnico, seguendo i corsi con assiduità, facendosi in
quattro per studiare con profitto e laurearsi con il massimo dei voti,
sognando una brillante carriera. Una carriera speciale. Diversa.
Lontanissima da quell’obbrobrio che era costretta ad affrontare
ogni mattina.
Si trascinò a fatica in camera ed accese il computer. Il non
dover sentire la voce di sua madre che la chiamava per la cena e la
rimproverava di star troppo attaccata a quell’affare era un
piacevole diversivo. Di solito s’intrattenevano in
interessantissime discussioni in campo tecnologico che facevano
freddare i piatti in tavola e infervorare gli animi.
Il video s’illuminò e, pochi istanti dopo, un messaggio lampeggiò nella casella di posta elettronica.
Ben arrivato a chiunque abbia aperto
questa pagina, incuriosito da questa storia. È da un qualche
tempo che pubblico su EFP nella sezione Harry Potter (sempre di magia
si tratta, no?), ma questa è la mia prima produzione
completamente originale. Per cui, l’invito è di farmi
conoscere i vostri pensieri, qualunque essi siano. Critiche e lodi sono
utili in egual misura.
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