Blasphemy

di Kioto
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Aprii gli occhi, svegliata da una leggera luce che entrava dalle grandi finestre alla mia destra.
Li strabuzzai un po’, facendoci lentamente l’abitudine. Ero in una stanza d’ospedale. Le pareti erano bianche, così come le lenzuola del mio letto. E probabilmente anche il mio viso era dello stesso colore.
Mi sentivo uno straccio, ma contemporaneamente stavo divinamente.
La porta fu aperta e la mia attenzione ricadde sulla figura maschile che aveva fatto capolino con un caffè in mano.
La sua espressione stupita lasciò spazio ad un grosso sorriso che ricambiai altrettanto volentieri.
- Buongiorno! – disse Tom raggiante, entrando e chiudendosi la porta alle spalle.
- Buongiorno. – risposi.
Si sedette al mio fianco e mi baciò a fior di labbra.
- Come stai?
- Bene, pensavo in un risveglio più traumatico.
- Anche io, sai? Invece mi sono ritrovato comodamente sdraiato in un lettino simile al tuo con una flebo al polso. – rise. – Sono svenuto come una melanzana!
Mi contagiò.
- Come sta il bambino?
Sorrise.
- Ho una bella sorpresa per te.
Lo guardai interrogativa.
Qualche minuto dopo ero seduta su una carrozzella, e Tom mi spingeva tra i corridoi. Entrò in una stanza decorata con cicogne e da dove si udivano tanti teneri e striduli pianti di neonato.
Mi spinse dentro, in mezzo alle culle, e mi portò davanti ad una dove c’era scritto, in un cartellino con il pennarello nero, il cognome Kaulitz.
Guardai nella culla e vidi la più bella creatura che Dio avesse mai creato.
Una bambina.
Aveva gli occhi chiusi,le mani che formavano due piccoli pugnetti, un pannolino che era tre volte la sua grandezza e corti capelli castano chiaro.
Mi portai una mano alle labbra, trattenendo a stento le lacrime di commozione.
Quella, era la figlia mia e di Tom. La bambina che avevo appena dato alla luce, dormiva a qualche centimetro da me.
Tom si chinò su di me, circondandomi con le sue braccia.
- E’ bellissima, vero?
Annuii senza riuscire a parlare.
- Avresti dovuto vederla da sveglia, piangeva come una disperata. Era quella che urlava di più qua dentro.
- Ha il tuo stesso naso.
- E i tuoi stessi occhi. – sussurrò.
Inspirai e sorrisi, portando una mano dentro la culla e accarezzando dolcemente la mano di quella piccola creatura che ritraeva perfettamente l’anima di Tom, e la mia.
- Dobbiamo decidere come chiamarla.
- Che nome ti piace? – gli domandai, voltandomi a guardarlo.
Arricciò la bocca, mentre pensava.
- Ci sono moltissimi nomi che mi piacciono, Andre. Ma ce n’è uno che sarebbe perfetto per lei.
Lo guardai attendendo e sul suo viso trasparì un sorriso felice.
- Hope.

3 anni dopo

Caro diario,
mi ritrovo qua, ad imbrattare queste pagine di un quaderno sbiadito trovato per caso in alcuni scatoloni che mia madre aveva tenuto con sé quando sono partita per la Germania.
E’ 6 anni che non ti scrivo più.
Vorrei raccontarti tutto nei dettagli, ma non avrei tempo.
La vita in Germania non è stata facile. Non voglio ricordare quei momenti bui, preferisco che restino nell’ombra, in un angolo remoto della mia scatola cranica.
Mi sono innamorata. Sì, lo so che potrebbe sembrare strano, sentito da me. Ma la Germania mi ha portato questo piccolo dono.
E’ ormai più di tre anni che sono tornata in Italia. Lui si chiama Tom, fa il chitarrista. Suona veramente bene. Ha un fratello gemello di nome Bill e insieme ad altri due amici, Gustav e Georg, hanno quella famosa band chiamata Tokio Hotel che per tre anni era rimasta in quarantena in Germania. Come me. Ci siamo conosciuti per caso, e per caso ci siamo innamorati.
Abbiamo avuto una bellissima bambina, si chiama Hope e ora ha tre anni. Ha lo stesso naso e lo stesso sorriso del padre, il quale sostiene che la bimba abbia preso i miei occhi. In ogni caso è bellissima. E’ diventata una bambolina un po’ per tutti, in famiglia. Mamma e papà salgono ogni tanto qua a Milano per trovarci e anche Simone e Gordon, i genitori di Tom, passano spesso.
Tom mi ha cambiata. Tanto. E’ riuscito a farmi avere una famiglia, quella che non credevo di poter avere, e mi ha portata sull’altare.
Il fratello Tom sta con Sara, la mia amica. E Gustav con Giulia. Hanno avuto un bellissimo bambino di nome Klaus, in rimessa della perdita di tre anni fa. Si sono sposati anche loro, mentre Sara e Bill si sposeranno alla fine dell’estate. Stefania invece sta frequentando Georg, l’amico bassista di Tom. Ha perso la ragazza in Germania, nessuno sa come. E Stefania l’ha aiutato ad andare avanti. Quella che in principio era un’amicizia, ora è qualcosa di più e tutti quanti speriamo nel meglio per loro.
Klaus e Hope vanno molto d’accordo e Tom è molto geloso di sua figlia.
Ora sono felice. Ho la famiglia che chiunque vorrebbe avere, una casa, degli amici al mio fianco e sono serena. Non so se metterò più piede a Berlino. Non ho molti bei ricordi di là.
Ancora oggi ho i brividi se ripenso a determinate cose. Ancora oggi, ho paura degli ospedali, dei dottori e dei poliziotti.
Ma questo non mi ferma, ho una vita davanti agli occhi e voglio viverla nel miglior modo possibile, proprio come sto facendo.
Spero che, d’ora in poi, vada tutto migliorando, senza più tempi bui come quello di Berlino. Ho sentito che hanno rinchiuso tutti i dittatori in carceri sotto la massima sorveglianza.
Oh, quasi mi dimenticavo! Abbiamo trovato un vecchio amico che ci ha salvato la pelle, quando stavamo scappando da Berlino. Si chiama Dirk, guidava dei camion da importo.
E’ un po’ mal messo, l’hanno pestato a sangue e ha subìto varie operazioni alle gambe. Ora è paraplegico, ma felicemente sposato con la sua amata Lidy, un’infermiera americana che faceva volontariato quando gli americani hanno liberato Berlino e tutta la Germania dalla dittatura.
Concludo quest’ultima pagina che racconta della mia vita richiamando l’attenzione su una cosa molto speciale: la speranza. Non deve mai morire. E Hope ne è la conferma.
Ora devo davvero andare, la mia bambina mi chiama.
PS: Sono di nuovo incinta!




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