Titolo:
Autoritratto
di una dannata
Personaggi:
Artemisia Gentileschi, Michelangelo Buonarroti il Giovane
Genere:
Storico, romantico, generale
Conteggio
parole: 1407
Rating:
Verde
Note
dell'autrice: Credo che ben poco di questa storia sia
riconducibile alla realtà. Oh, be'... in verità,
non lo so per
certo. Di sicuro, Artemisia si trasferì a Firenze nel 1614 e
fece la
conoscenza tanto di Galileo Galilei quanto del nipote del famoso
Michelangelo, suo omonimo e di professione poeta. Non ho idea di
quale fosse la vera natura del loro rapporto, ma sta di fatto che
adoro romanzare la storia. Credo che la stessa natura di Artemisia
sia, nella mia storia, ben più romanzata di quanto non deve
essere
stato nel Seicento. Ma tant'è che così mi andava,
perciò vogliate
scusarmi.
La
storia è stata scritta per l'iniziativa 2010:
a year together indetta da Cos -
Contest of Starlight. Il prompt scelto è ''Tra la
verità e la bugia: la vera
storia di un pittore''.
«Non
è consono ad un poeta del vostro rango introdursi come un
comune
ladro nelle altrui dimore, Michelangelo».
Nascosto
dalla penombra delle tele che riempivano ogni angolo della bottega,
Michelangelo sorrise lievemente. Mosse qualche passo verso il tavolo
al quale la donna stava lavorando, stringendo il mantello per evitare
che si sporcasse con le polveri e gli oli sparsi su ogni superficie
rigida.
«Com'è
possibile che riusciate a udire il mio arrivo ancor prima che io
faccia un solo rumore, Artemisia?» le chiese.
«Credetemi, date
l'impressione di essere una di quelle folli chiromanti che affollano
la via dell'Anguillare».
Artemisia
sollevò gli occhi dai propri disegni e lo guardò
con un
sopracciglio maliziosamente inarcato.
«Fra
una pittrice e una folle non corre molta differenza».
«Né
fra una donna e una chiromante».
«O
fra un uomo ed un ladro, invero» ribatté piccata
la giovane,
socchiudendo minacciosa le palpebre.
Michelangelo
sollevò i palmi delle mani in segno di resa. Sapeva di
essersi
inoltrato in un argomento pericoloso, tanto quanto sapeva come
Artemisia potesse diventare pericolosa. Fra tutte le donne che aveva
conosciuto spostandosi da Firenze a Pisa, la pittrice romana era
sicuramente la più affascinante. Eppure, non era
né la più
avvenente né la più elegante di loro. Non era
solita acconciarsi i
capelli scuri – Michelangelo credeva non ne fosse nemmeno in
grado
– e li stringeva con rozze corde sopra la nuca. Le gote
paffute
erano spesso arrossate dal troppo lavorare e le sue mani portavano i
segni degli anni trascorsi fra gli oli e i collanti – e di
quella
tortura subita a Roma il cui ricordo la faceva sempre fremere di
rabbia e indignazione. Artemisia non era bella,
ma Michelangelo non riusciva a resistere a lungo lontano dai suoi
vivaci occhi scuri e dai suoi mascolini modi di fare.
Era
la prima donna con cui colloquiava con sincero piacere, sebbene le
stesse ancora insegnando la nobile arte della scrittura. Le sue
conoscenze erano ancora esigue, se confrontate alle nobildonne
fiorentine della corte del Granduca, eppure Michelangelo sentiva di
provare per lei un sentimento ben più profondo di qualunque
altra
unione lo avesse mai stretto alle altre dame – e dire che
avrebbe
potuto essere sua figlia.
Continuò
a sorridere mentre si avvicinava alle sue spalle e allungava il collo
per sbirciare il contenuto dei suoi fogli. Adorava l'espressione
concentrata con cui Artemisia si dedicava al proprio lavoro. Quando
lei glielo consentiva – cosa che non avveniva tanto spesso
–
trascorreva ore seduto su una delle sedie della bottega,
contemplandola in religioso silenzio.
«Quest'oggi
è il solstizio d'estate. Perché non
riposate?» le chiese.
«Non
ricordo d'essere mai venuta a disturbare il quieto comporre delle
vostre poesie durante l'equinozio di primavera, Michelangelo»
lo
punzecchiò con tono stanco Artemisia, intingendo con flemma
la punta
del pennino nella boccetta d'inchiostro.
«Non
avete idea di quanto ve ne sia grato. Per quanto vi abbia in stima,
dubito che il Granduca potrebbe mai apprezzare opere di cui voi siete
la musa ispiratrice ed io finirei ad elemosinare qualche fiorino
d'argento a Santa Maria del Fiore».
«Quale
meravigliosa possibilità. Firenze perderebbe il suo
più molesto e
irritante compositore».
Ridacchiando
appena, Michelangelo le sfiorò la clavicola, abbassando di
qualche
centimetro l'orlo della sua veste. Notò qualche nuova
macchia di
colore sul tessuto porpora e sorrise ancora. La maggior parte delle
dame avrebbe storto il naso dinanzi ad una tale scempio; Artemisia,
al contrario, pareva mostrarle con orgoglio – esattamente
come le
macchie del suo onore, sui cui l'intera città malignava con
incredibile dedizione.
«Sto
lavorando ai vostri disegni, Michelangelo» lo
ammonì seriamente
Artemisia. «Da parte vostra, è piuttosto
improduttivo
interrompermi».
«Al
contrario: non ho fretta che li terminiate»
ribatté. «Si stanno
rivelando una scusante perfetta alle mie visite».
«Alle
vostre visite inopportune, vorrete dire».
Michelangelo
si chinò su di lei, le scostò un ricciolo scuro e
le baciò
delicatamente il collo bianco. Con un lieve sbuffo, Artemisia poso
sul tavolo il pennino e allontanò da sé i propri
bozzetti.
Sogghignando sorniona, si voltò verso di lui con un cipiglio
irritato ben poco credibile.
«Maledettamente
inopportune» ribadì divertita, mentre sfiorava la
mandibola
dell'uomo con un polpastrello sporco d'inchiostro. «Temo
dimentichiate troppo spesso che sono sposata, Michelangelo».
«In
verità, lo ricordo con profondo rammarico. Meritereste
meglio di
quel mediocre imbrattamuri di Stiattesi».
Artemisia
si finse pensierosa.
«Un
poeta, magari?».
L'uomo
parve ghignare come una volpe.
«Verrete
con me alla cerimonia di battesimo dell'ultimogenita del Granduca,
domani?».
«Un'altra?»
s'informò Artemisia con una risatina di scherno.
«Michelangelo,
dovreste consigliare al Granduca di immergere i suoi numerosi figli
nell'Arno, così da risparmiare sulle acquasantiere di Santa
Maria
del Fiore».
«Suvvia,
togliereste a Firenze la sua più grande fonte di
chiacchiericcio».
Artemisia
inarcò sarcastica un sopracciglio.
«Credevo
di essere io, la sua più grande fonte di
chiacchiericcio».
Michelangelo
sbuffò divertito e si voltò sul fianco sinistro
per poterla
guardare in viso. Nel corso della sua vita, aveva dedicato alla
bellezza un numero incredibile di odi e sonetti. Eppure, le belle
forme rotonde e gli occhi scuri di Artemisia parevano appartenere ad
una bellezza senza nulla di umano. Tutto di lei pareva gridare alla
provocazione dei sensi e Michelangelo, in cuor suo, sapeva che la
luce derisoria dei suoi occhi non poteva essere che un sordido
scherzo del Diavolo. Se avesse continuato a inginocchiarsi dinanzi
alla lussuria di Artemisia, sarebbe sprofondato nelle più
oscure
bolge dell'Inferno. Inspiegabilmente, la cosa non pareva
terrorizzarlo quanto avrebbe dovuto.
«Sapete
se verrà anche Galilei?» domandò d'un
tratto Artemisia.
Michelangelo
ruotò comicamente gli occhi.
«Inizio
ad essere geloso di quel pisano. Pare quasi che lo riteniate
più
affascinante di me solo perché ha l'intero Vaticano
contro» ribatté
con tono scherzoso.
«Non
siate ridicolo. Non potreste uguagliare Galilei nemmeno se a
scomunicarvi fosse San Pietro in persona».
Michelangelo
si finse offeso.
«Io
vi ho insegnato la nobile arte della scrittura e vi ho dedicato
centinaia di sonetti. Cosa mai ha fatto Galileo per meritare tanto la
vostra stima?».
«Innanzitutto,
mi ha insegnato a far di conto. Mi ha evitato di essere gabbata alla
taverna e, sebbene non sia una nobile arte
come la vostra scrittura, è stato un precettore ben
più utile di
voi. In secondo luogo, voi non mi avete mai dedicato un solo sonetto,
ringraziando il cielo. Siete già sufficientemente snervante
quando
state in silenzio: non oso immaginarvi a decantare a gran voce le mie
virtù» rispose Artemisia con aria
saputa. «Fra l'altro,
Michelangelo, dovreste ringraziarlo. Non fosse stato per le belle
parole con cui vi elogiava, difficilmente ora sarei sdraiata accanto
a voi con nient'altro che la mia pelle addosso».
«Questa
è la più grande maldicenza che abbia mai udito.
Non ho bisogno
delle glorificazioni di Galileo per farmi apprezzare».
«Lo
credete davvero? Eppure, al mio arrivo a Firenze, non ho potuto fare
a meno di notare quanto voi foste irritante, molesto, smorfioso e
sgradevole sotto ogni punto di vista».
Divertito,
Michelangelo si voltò verso di lei e le sfiorò
appena il braccio.
Artemisia gli rivolse un'occhiata sprezzante, si alzò sui
gomiti e
si avvicinò al suo viso.
«Sappiate
che vi ritengo irritante, molesto e smorfioso tuttora»
mormorò al suo orecchio.
Lui
scoppiò a ridere. Con un lieve sogghigno, Artemisia
ruotò sulla
schiena, si alzò a sedere e si chinò per
afferrare il proprio
vestito.
«Dove
state scappando, ora?».
«Ho
i vostri lavori da finire, rammentate?».
Sbalordito,
Michelangelo sgranò gli occhi.
«State
scherzando?».
«No».
La
osservò rivestirsi rapidamente e aggiustare al gomito i
risvolti
delle maniche. Rimase a fissare incantato il modo deciso con cui
stringeva i lacci dell'abito. Non aveva mai incontrato una donna che
si vestisse con una tale mancanza di grazia femminile – e ben
sapeva di essere preoccupantemente attratto da questo suo fare
irriverente. Quando si fu allacciata i capelli in una rozza
acconciatura dietro la nuca, Artemisia voltò il capo verso
di lui.
«Alzatevi,
Michelangelo. Non costringetemi ad adoperare le maniere
forti».
Lui
la guardò con aria di sfida.
«Mi
confesso assai curioso di sapere quali siano».
Sbuffando
indispettita, lei si levò in piedi e si diresse a passo
deciso verso
la porta. Michelangelo era certo di averla sentita borbottare
qualcosa come ''dannato poeta''. Ridacchiando fra sé e
sé, incrociò
le braccia al petto e rimase a scrutare con aria persa le travi del
soffitto. D'un tratto, gli comparve davanti agli occhi una delle
più
superbe tele di Artemisia, un'incredibile Giuditta con
la testa
di Oloferne che la giovane aveva da poco ultimato.
Non
aveva mai avuto il coraggio di confidarlo a lei, ma ne era rimasto
profondamente turbato. Com'era possibile che la sua Giuditta potesse
essere tanto bella, nonostante quegli occhi perversi che Artemisia le
aveva dipinto? E com'era possibile, in effetti, che Artemisia gli
apparisse tanto meravigliosa, nonostante il suo spirito ribelle
l'avesse ormai condannata all'eterna dannazione?
«Debbon
esser di luce li occhi del Demonio, ché all'uomo il peccato
pare
divino»
recitò a voce alta con
una smorfia scocciata. «Non avresti potuto trovare un'arma
migliore
con la quale sconfiggermi, Lucifero. È più fatale
della morte
stessa, quella folle donna».
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