Nuova pagina 1
Agognata sera
Pensieri di un
sedicenne
Quella sera di
settembre
Come desideravo che quella sera arrivasse.
Lo bramavo con tutto me stesso, fin nel più
profondo del mio cuore, od almeno questo credevo…
Ora invece ritengo che non fosse affatto il
mio cuore a desiderare che quell’agognata sera di settembre arrivasse, ma bensì
il mio orgoglio, associato alla mia virilità, sempre che a sedici anni di
virilità si possa parlare.
Ora come ora la definirei più stupidità
ormonale.
La mia impazienza e la mia curiosità mi
facevano fremere, provocandomi talvolta una sensazione languida dalle parti
dello stomaco, chiudendolo come in una morsa e dandomi l’impressione che
qualcuno lo stesse strizzando come uno straccio bagnato.
Mi ero prefissato un preciso obiettivo,
aiutato e sostenuto dai miei sedicenti amici; amici gelosi e scontenti; amici
che non si erano mai accontentati di quello che ero io; amici che si fingevano
tali solo per interesse o compassione; amici che volevano cambiarmi.
Nonostante dentro di me sapessi bene
quanto ipocriti fossero questi miei amici, li avevo ascoltati, come spesso
capita ai più, per essere da loro accettato, cosa a cui tutti noi, più o meno
inconsciamente, teniamo molto; li ascoltai e mi prefissai questo insano
traguardo che nessuno avrebbe potuto impedirmi di superare; nessuno, neppure mio
padre.
Mio padre… il padre che tanto mi ama e che
io tanto amo… lo stesso che ora non riesco più a guardare in faccia senza che i
sensi di colpa mi invadano e che l’imbarazzo mi infiammi, privandomi anche
dell’uso della parola. Il padre che ormai finge che io non esista, evitando di
parlarmi o cercando di non ritrovarsi mai nella stessa stanza con me; il padre
che io vedo chiaramente di aver deluso, cosa che mi affligge terribilmente più
di qualsiasi rimprovero o di qualsiasi indifferenza da parte sua, poiché
l’ultima cosa che desideravo al mondo era deludere mio padre, ma ho miseramente
fallito.
Come allora desideravo con tutto me
stesso, ardentemente, impazientemente, che quella sera arrivasse, adesso invece
vorrei tanto che non fosse mai arrivata, che nulla di tutto questo fosse
successo e che l’inferno nel quale sono sprofondato ora sia solo un incubo dal
quale mi risveglierò domani mattina, sobbalzando forse, ma che mi farà poi
tirare un sospiro di sollievo, permettendomi di dire la liberatoria frase: “Era
solo un sogno”.
Invece so fin troppo bene che questo
purtroppo non è un sogno, ma bensì la dura realtà, la quale mi è crollata
addosso tutta in una volta con una potenza impressionante, risvegliandomi come
da una sorta di torpore nel quale vegetavo fin dalla nascita, scuotendomi
profondamente e privandomi bruscamente della mia adolescenza, nonché della mia
innocenza. Ora che entrambe mi sono state tolte, provo un’immensa nostalgia e
darei qualsiasi cosa per riaverle indietro: ciò che un tempo disprezzavo e
desideravo superare il più in fretta possibile, ora è diventato per me il tesoro
più prezioso ed irraggiungibile, irreperibile, irrecuperabile. Non riavrò mai
indietro ciò che mi è stato tolto; il cancello che si è chiuso dietro di me non
si riaprirà mai più.
Io e mio padre abbiamo litigato tanto quando
lui è venuto a sapere quello che era accaduto; non ricordo ci fu mai fra noi una
discussione più accesa.
Le frasi terribili che ci scambiammo ora mi
rimbombano nella mente, provocando un’eco insopportabile che risveglia il mio
senso di colpa.
Ma sono troppo orgoglioso per chiedere scusa
a mio padre, perciò i rimorsi mi attanagliano lo stomaco, il quale si contorce
terribilmente, provocando conati che cerco a fatica di reprimere.
Mia madre, venutolo a sapere, era stata da
un lato molto più comprensiva, ma da un altro, molto più dura e fredda.
Ora fatichiamo a parlarci ed io è da
almeno un mese che non oso guardare mio padre negli occhi per paura che lui
possa vedere dentro i miei e scoprirvi un’innocenza sfiorita, un’adolescenza
affrettata, cose dalle quali lui aveva sempre cercato di proteggermi, di
salvaguardarmi con i suoi ammonimenti.
Quando mi parlava di certe cose, io non
lo ascoltavo, oppure mi spazientivo, asserendo che non ci fosse bisogno di
affrontare certi discorsi, poiché ero perfettamente in grado di decidere da solo
cosa fare.
Lui allora mi guardava sospirando e se ne
andava scrollando il capo in segno di diniego, gesto che mi irritava ancor di
più, poiché ai miei occhi appariva come un’offesa alla mia presunta maturità.
È incredibile a volte come tutto possa
cambiare in una sola serata, in pochi attimi. Un momento ti senti maturo,
responsabile, in grado di gestire da solo la tua vita, e l’attimo dopo tutto ti
crolla addosso con una potenza che la fisica non è in grado di spiegare, né di
descrivere, poiché nessuna formula potrà mai contenere in sé gli effetti
devastanti di questi cambiamenti.
Ebbene, questo è quanto è successo a me.
Da quando Laura è venuta qui, dopo mesi che
non ci vedevamo né parlavamo più, e mi ha detto cosa il nostro gesto aveva
comportato, non sono più lo stesso; non riesco ad esserlo e non lo sarò mai più.
Tutto ad un tratto, i problemi che una
volta mi sembravano abnormi, irrisolvibili ed insormontabili, sono diventati
piccoli e sciocchi, quasi privi di importanza.
Inoltre dentro di me è per sempre
crollato un mito: il mio.
Io che mi ero sempre detto maturo e
responsabile, in grado di decidere da solo cosa fare della mia vita, solo ora mi
rendo conto di quanto fossi, e di quanto sia stato, stupido.
Laura mi aveva detto chiaramente fin da
subito che il nostro rapporto non avrebbe potuto funzionare, che sarebbe stato
impossibile fare andare a buon fine tale relazione, ma io non avevo voluto
ascoltarla, sicuro di essere diverso, superiore.
Adesso non saprei dire se insistei per amore
o solo per vanità.
Ricordo che i miei amici quasi non
riuscivano a credere che io mi fossi messo con una ragazza più grande di me e
per di più così bella; loro avrebbero dato qualsiasi cosa per essere al mio
posto.
Fu forse per invidia o per cattiveria che mi
spinsero a fare ciò che feci, toccando con astuzia diabolica un tasto delicato
del mio essere un maschio adolescente.
Ricordo molto bene quella calda serata di
settembre, illuminata da molte stelle e da un quarto di luna; sono passati solo
tre mesi e mezzo da allora, ma mi pare un’eternità.
Avevo portato Laura fuori a cena in una
pizzeria a portata del mio portafogli, come ormai era mia abitudine il sabato
sera; terminata la cena, a base di pizza ai peperoni, invece di riaccompagnarla
a casa sua, l’avevo condotta da me.
A casa mia ero sicuro non ci fosse
nessuno, poiché i miei genitori erano fuori a cena a loro volta e mio fratello a
casa di qualche suo amico.
Laura mi lanciò uno sguardo stupito ed
interrogativo quando la introdussi nel mio salotto deserto; io le sorrisi per
tranquillizzarla, ma ottenni il risultato opposto e cioè la spaventai,
portandola a chiedermi il motivo che mi aveva spinto a condurla fino a lì,
invece di riaccompagnarla a casa come ogni sabato sera.
Non mi sentii per niente in imbarazzo
quando mi pose questa domanda, e le risposi con franchezza che il motivo per cui
l’avevo portata a casa mia era che volevo fare sesso con lei.
Dopo questa mia affermazione, Laura si
sedette lentamente sul divano, con le mani sulle ginocchia ed un’espressione
seria e greve sul volto: evidentemente si aspettava questa risposta da me,
poiché non sembrava stupita. Quando si fu ripresa, si voltò verso di me che mi
ero seduto accanto a lei sul divano, mi guardò intensamente ed infine mi chiese
il perché di questa voglia.
Fu il mio turno di stupirmi; infatti mi
sembrava che la risposta fosse ovvia, la risposta più ovvia del mondo: perché
l’amavo. Od almeno questo le dissi, ma forse il vero motivo era che volevo
assolutamente dimostrare ai miei amici di essermi portato a letto una ragazza
prima di loro. Inoltre questo mio merito sarebbe stato notevolmente accresciuto
dal fatto che Laura fosse più grande di me.
Questa mia risposta colpì, come mi
aspettavo, un lato del suo cuore di ragazza, ma l’altra metà rimase fredda,
sospettosa: difetti questi che, sebbene io abbia avuto a che fare con poche
donne nella mia vita, riconosco come limiti propriamente femminili.
Dopo qualche attimo di silenzio, mi disse,
fortunatamente con meno freddezza di quanta ne celasse il suo sguardo, che non
avevo bisogno di arrivare a tanto per dimostrarle che l’amavo; aggiunse che il
sesso era un passo importante nella vita delle persone e che la prima volta
avrebbe potuto essere meravigliosa, così come terribile, stava a me trovare la
giusta alchimia fra la persona ed il momento.
Ascoltai questo discorso solo a metà, e
quella metà parecchio di malavoglia, dato che mi era già stato fatto almeno un
centinaio di volte da mio padre.
Inoltre mi dava molto fastidio ascoltare
la mia ragazza parlare di sesso a quel modo; infatti, nonostante sapessi molto
bene che per lei non era la prima volta, non volevo pensarci per non essere
assalito da un’assurda gelosia.
Quando Laura ebbe terminato questo suo
discorso, mi guardò intensamente ancora una volta, quasi cercasse di leggere nel
mio cuore la verità.
Fu forse qualche cosa nei miei occhi che le
fece cambiare idea, portandola ad aggiungere l’opzione della scelta.
Mi disse con un sospiro d’incertezza che, se
ero proprio sicuro di quello che volevo, lei era disposta ad accontentarmi.
Io naturalmente, senza minimamente pensare a
quello che facevo, le dissi di essere pronto e che tutto quello che desideravo
era lei.
Non so perché accettò. Forse lei, tutto
sommato, era più innamorata di me di quanto lo fossi io.
Mi ripeteva sempre che, da quando stava con
me, si sentiva bene, felice, e che provava sentimenti ed emozioni che mai nessun
altro le aveva trasmesso.
Anche io sentivo di amarla dentro di me, ma
quel gesto fu dettato più dall’orgoglio che non dall’amore. Forse per questo la
sensazione che provai fu un piacere misto ad imbarazzo e rimorso, sensazione per
nulla piacevole.
Lo facemmo sul letto dei miei genitori, cosa
che mi sono guardato bene dal dire quando mio padre lo venne a sapere.
Mia madre aveva cambiato le lenzuola
proprio quel giorno, e l’odiato odore dell’ammorbidente alle rose avvolse i
nostri corpi nudi, distesi l’uno sopra l’altro.
Mai avrei creduto che una simile
esperienza potesse suscitare in me un tale incontrollabile imbarazzo,
accompagnato da miliardi di sensazioni nuove, eccitanti, mai provate prima.
Mi sentii un verme quando, percependo il
corpo di Laura sotto di me, fui invaso da una sensazione violenta di piacere, la
quale comportò un’eiaculazione precoce. Prima d’ora le mie polluzioni notturne
non mi avevano mai imbarazzato, ma in quel momento desiderai scomparire,
sprofondare in una voragine di vuoto.
Mi alzai e chiesi convulsamente scusa a
Laura, ringraziando silenziosamente il buio che avvolgeva la stanza, il quale le
impediva di scorgere l’evidente imbarazzo dipinto sul mio viso.
Quando lei mi ebbe rassicurato,
garantendomi che non era niente e che non dovevo preoccuparmi, aggiunse che, se
non me la sentivo, non eravamo obbligati a farlo.
Questa sua frase mi ridestò improvvisamente:
ora che mi ero spinto fino a lì, non potevo rinunciare, fallire.
Con voce ferma, forse troppo aggressiva,
pronunciai un forte e secco “no”.
Dopo questo breve momento di imbarazzo,
recuperammo da dove eravamo rimasti: dopo quello spiacevole episodio, l’iniziale
sensazione di piacere si era affievolita notevolmente, per lasciare spazio
all’impaccio e ad un’impressione di rimorso attanagliante.
Quando ebbi finito, mi staccai da lei
quasi fosse stata infetta e mi sdraiai al suo fianco, stanco per lo sforzo, reso
ancor più insopportabile dal peso opprimente che si era posato sulla mia
coscienza.
Laura mi posò delicatamente una mano sul
torace e mi accarezzò, quasi volesse rassicurarmi: non risposi a questo suo
gesto, ma scendendo dal letto e cominciando a vestirmi, le dissi di fare
altrettanto, ché l’avrei riaccompagnata a casa sua.
Faticai a guardarla negli occhi mentre
camminavo affianco a lei per la buia strada asfaltata, la quale aveva lo stesso
colore del mio umore.
In più di un’occasione, Laura cercò di
prendermi la mano, ma io abilmente evitavo che questo succedesse, o fermandomi
per allacciarmi una scarpa ancora perfettamente allacciata, od accelerando il
passo. Scoraggiai così qualsiasi suo futuro tentativo di riprovare a compiere
quel dolce gesto.
La casa di Laura non era eccessivamente
lontana dalla mia, ma quel giorno la distanza sembrava essere raddoppiata ed il
tragitto fu poco piacevole.
Quando fu arrivata, prima di rientrare,
mi guardò intensamente negli occhi e mi chiese, con i suoi modi dolci ed
affabili che sempre mi imbarazzavano, poiché mi davano la sensazione di essere
un bambino rispetto a lei, se fossi sicuro di aver fatto la scelta giusta.
Rendendomi conto solo in quel mentre del
comportamento che avevo inconsciamente adottato fino a quel momento, cercai di
recuperare.
Risposi con un’ostentazione di falsa
sicurezza e tranquillità, di essere più che sicuro di aver fatto la scelta
giusta e, detto questo, mi chinai su di lei e le presi quasi violentemente le
labbra per baciarla. Non so se lo feci per darmi una maggior sicurezza o solo
per nasconderle il mio imbarazzo e la mia insicurezza; fatto sta che lei parve
soddisfatta e rientrò in casa con un sorriso sul volto.
Pochi giorni dopo questa esperienza,
Laura venne da me e, con gli occhi lucidi e la voce rotta, mi disse di volermi
lasciare.
Non mi fornì una spiegazione particolare
ed io, troppo scosso da quella richiesta, non gliela chiesi.
Prima di andarsene, mi restituì il
braccialetto d’argento che le avevo regalato il giorno in cui, timidamente, le
avevo finalmente chiesto, dopo tanto tempo trascorso insieme come amici, di
mettersi con me, fuori dal negozio di antiquariato dove lavorava per pagarsi gli
studi di lettere all’università.
Ancora oggi lo porto al braccio destro come
il più caro ricordo del mio primo amore; poiché Laura fu il mio primo, vero
amore.
Soffrii per settimane intere a causa
della nostra separazione, che avevo sperato invano non dovesse mai arrivare.
Il fatto che mi deprimessi a quel modo per
essere stato scaricato, fece ridere i miei gretti amici, che si burlarono di me
per tutta la durata del mio abbattimento, contribuendo ad aumentare le mie
sofferenze.
Cominciavo a pensare che non sarei mai
riuscito a trovare una ragazza come Laura, quando
Stacey entrò nella mia vita,
riempiendola nuovamente di felicità.
Con lei ho
vissuto bellissimi momenti, i quali mi fecero dimenticare ciò che era successo
con Laura. Purtroppo anche questa storia è durata ben poco.
Alcuni giorni fa,
Laura si è presentata a casa mia con una strana espressione sul volto;
espressione che non mi piacque per nulla.
Le lanciai
un’occhiata sommaria e stupita: notai che si tormentava le mani con nervosismo.
Era strana: aveva
un’espressione triste e greve sul viso, il quale si presentava terribilmente
pallido e smunto.
Mi disse con voce
tremante di volermi parlare con urgenza; nei suoi occhi scorsi uno sguardo di
profonda tristezza.
Vedendola così,
non potei fare altro che permetterle di entrare, annuendo.
Si sedette sul
divano con un sospiro e l’aria stanca; io mi accomodai sulla poltrona, alla sua
sinistra.
Per parecchio
tempo, nessuno dei due parlò; quel silenzio mi spaventò, ma non riuscii a fare
niente per romperlo.
Laura, seduta
alla mia destra, continuava a tormentarsi le mani in grembo con inquietudine
straziante, che mi mise ancor più in agitazione; solo dopo questi lunghi attimi
di silenzio, parlò.
Con velocità
impressionante, quasi senza mai prendere fiato, Laura mi ricordò, con imbarazzo
che le imporporò leggermente le guance diafane, quella sera di settembre.
Sentendo quelle
parole, fui come riportato in vita: me ne ero quasi dimenticato, o forse avevo
voluto dimenticare, in modo da poter dedicare tutto il mio corpo e la mia mente
a Stacey.
Annuii
lentamente; quella terribile sensazione mi attanagliava sempre di più lo
stomaco, provocandomi un disagio immenso, che mi impediva di stare fermo sulla
poltrona.
Quando le ebbi
fatto intendere che avevo ascoltato, lei mi vomitò in faccia tutta la verità,
lasciandomi tramortito: mi disse di essere incinta di mio figlio.
Fu quello il
momento in cui tutto mi crollò addosso con potenza indescrivibile.
Ci misi un poco
per comprendere fino in fondo il significato di quelle parole. Mi sembrava
impossibile, assurdo.
Io che, da
adolescente quale ero, mi sentivo immortale, intoccabile, ora ero più
vulnerabile di un uccello ferito.
Se avevo creduto
che la vita potesse passarmi davanti come un film del quale io non facevo parte,
in quel momento mi ricredetti, trovandomi davanti alla crudele realtà.
Non ascoltai una
sola parola del seguente discorso che mi fece Laura, fra un singhiozzo e
l’altro: sebbene sentissi un ronzio di sottofondo, parecchio somigliante alla
voce di lei, ero troppo immerso nei meandri della mia mente, della mia coscienza
e dei miei sensi di colpa per ascoltare.
Mi riscossi solo
quando sentii la parola “genitori”, pronunciata con un accento interrogativo
forte che mi ridestò.
Vidi che Laura mi stava fissando con il suo
solito sguardo intenso e perforante, gli occhi lucidi di pianto.
Confuso, le domandai cosa avesse detto,
allora lei mi ripeté la domanda. Voleva sapere quando lo avrei detto ai miei
genitori.
Mi spaventai: voleva che dicessi tutto ai
miei genitori; non poteva volere che io dicessi tutto ai miei genitori; non
potevo dire tutto ai miei genitori; non volevo dire tutto ai miei genitori.
Rimasi immobile, quasi paralizzato da
questa richiesta, alle mie orecchie così inconcepibile, così assurda.
Infine, dopo parecchi minuti trascorsi
nel più totale silenzio, parlai per la prima volta, ma ciò che dissi non fu
nulla di più interessante del monosillabo atono più noto ed usato: “no”.
Parve non capire, lo discersi dalla sua
espressione, ma io non avevo recuperato ancora del tutto l’uso della parola,
perciò non fui in grado di aggiungere altro; mi limitai a scuotere lentamente la
testa, con gli occhi socchiusi.
Dovevo essere diventato terribilmente
pallido, perché Laura si precipitò verso di me, posandomi una mano sulla fronte
e chiedendomi se mi sentissi bene.
Non riuscii a rispondere neppure a questa
domanda.
La notizia mi aveva sconvolto così
profondamente che Laura si sentì in colpa: scoppiò a piangere di nuovo,
portandosi una mano alla tempia destra e bisbigliando fra i singhiozzi che le
dispiaceva.
Le dispiaceva?!
Mi sentii un verme: lei era dispiaciuta,
quando ero stato io a metterla incinta; io le avevo rovinato la vita.
Per causa mia, avrebbe dovuto rinunciare
agli studi che si era prefissata di portare a termine con tanto entusiasmo;
avrebbe dovuto lavorare il doppio e guadagnare neanche un quarto del denaro che
il mantenimento di un neonato richiede… inoltre, non sarebbe stato più possibile
per lei abortire, poiché erano già passati più di novanta giorni dal
concepimento.
Mi si chiuse lo stomaco, e quasi mi sentii
mancare l’aria.
Nonostante questo mio pentimento, non
riuscii a parlare, né a rassicurarla, facendola andare via in lacrime.
Con quella rivelazione, la mia adolescenza
se ne era andata, seguita dalla mia innocenza.
Da un giorno all’altro, ero diventato un
ragazzo padre.
Fu difficile per me tenermi dentro quel
segreto e, in breve tempo, i miei genitori lo vennero a sapere.
Fui io stesso a riferire loro la verità, pur
sapendo a cosa sarei andato in contro: non volevo dirlo, ma se me lo fossi
tenuto dentro ancora a lungo, sarei esploso.
Aspettai di essere da solo con i miei
genitori: mio padre e mia madre erano seduti a guardare la TV sul divano, mentre
mio fratello Kevin era ancora a scuola.
Mi avvicinai lentamente e parlai con
indolenza, titubanza e timidezza; mai prima d’ora mi era capitato di rivolgermi
così a mio padre: di solito gli parlavo da pari a pari, poiché mi ritenevo
adulto e maturo, mentre ora, che forse lo sono più di quanto non lo fossi
allora, esito e balbetto davanti a lui.
Non rammento neanche più il mio
approccio, ho scordato le parole che utilizzai, ma ricordo perfettamente che mio
padre scattò in piedi e mi guardò stralunato, incredulo, mentre mia madre si
portava una mano davanti alla bocca.
Dopo quell’attimo di apparente
smarrimento, mio padre esplose, inveendo contro di me, perfino insultandomi,
reazione quella dettata dalla rabbia, dalla delusione e dalla paura: sì, perché
anche lui, ne sono sicuro, ha paura.
Ed io ero lì, immobile davanti a lui, e non
reagivo in alcun modo, incapace di dire una sola parola in mia difesa.
Le sue imprecazioni mi investirono con
violenza: mi disse che ero un’irresponsabile, un adolescente immaturo e che gli
ormoni mi avevano dato al cervello.
Mi chiese con ira se avessi pensato mai
alle conseguenze che questo mio gesto avrebbe potuto portare, alle malattie che
avrei potuto prendere, ed alla responsabilità che mi sarei dovuto assumere.
La risposta era semplice: no, non ci
avevo pensato. Nonostante mi fosse stato abbondantemente ripetuto, ed io avessi
sempre risposto, indispettito, che lo sapevo benissimo, non ci avevo pensato nel
momento più opportuno…
Incassai queste affermazioni senza
rispondere, ed anche le successive frecciatine di mia madre, se possibile ancora
più dolorose e velenose.
Mentre mio padre urlava e strepitava, lei mi
parlò con calma e freddezza, con un tono apparentemente solidale, ma dalla sua
bocca uscirono le frasi più pungenti, frasi che ho preferito dimenticare.
Quando ebbi subito abbastanza rimproveri
ed umiliazioni da parte dei miei genitori, trovai finalmente dentro di me la
forza di reagire.
Tentai di giustificarmi, di difendermi, ma
ci misi meno impeto di quanto non volessi adoperarne, perciò fallii.
Ora viviamo da estranei nella stessa
casa: evitiamo di parlarci e di vederci; credevo di avere toccato il fondo, ma i
miei guai erano appena cominciati.
Spiegare a Kevin il motivo della rabbia dei
nostri genitori nei miei confronti non fu facile.
Cercai di mantenere l’espressione severa ed
autoritaria del fratello maggiore che solitamente gli riservavo, ma il tremore
delle mie mani ed il mio pallore mi tradirono.
Gli parlai con voce tenue, incerta ed
inferma; voce che non riconobbi come mia.
È imbarazzante parlare di certe cose ad
un ragazzino di quattordici anni che ti osserva con gli occhi sbarrati e alla
fine del discorso proferisce con voce mutata ed aria incredula, ma non per
questo meno interessata: “Hai fatto sesso con la tua ragazza?! E com’è stato?”
Questo fu il primo ostacolo da superare e
fortunatamente non inciampai, ma il secondo si presentava troppo insormontabile.
Il suo nome era Stacey.
Da giorni mi
vedeva strano, pallido, taciturno, distante: aveva cominciato a preoccuparsi per
me ed a chiedermi come stessi e cosa avessi.
Io avevo mentito,
dicendole che la mia era solo stanchezza, nulla di più, ma ogni volta che la
guardavo, gli ormai noti rimorsi mi attanagliavano, facendomi soffrire ancora di
più.
Non avrei retto a
lungo; non sarei riuscito a tenermi dentro quella verità ancora per molto:
dovevo dirlo a Stacey.
Lei per me era
importante, non volevo perderla, ma cominciai subito a mettere in conto questa
possibilità.
Avevo deciso di
incontrarla in un piccolo bar dove servivano favolosi frullati alla fragola che
lei adorava.
Mentre osservavo
l’ambiente, mi davo dell’imbecille: come speravo di poter comprare Stacey?
Metterla a suo
agio e di buon umore non avrebbe cambiato i fatti, né avrebbe cancellato la mia
colpa.
Quando arrivò, il
poco colore sul mio viso sparì, per lasciare posto ad un pallore spettrale.
Lei ordinò il
frullato alla fragola ed io attesi che l’avessero portato prima di parlare,
sebbene lei insistesse.
Se affrontare
l’argomento con Kevin era stato difficile, con Stacey fu una tortura.
Come aveva fatto
Laura con me, cominciai a parlare velocemente, senza quasi prendere fiato fra
una frase e l’altra.
Quando arrivai al
dunque, la vidi sbiancare, dopo avermi lanciato un’occhiata incredula.
Io continuai,
credendo che, se mi fossi interrotto, non sarei più stato in grado di
continuare; mentre parlavo, Stacey scuoteva la testa, con gli occhi chiusi.
La sua bocca si
muoveva e, sebbene non ne uscisse alcun fonema, io riuscii a leggere sulle sue
labbra parole come: “No, non è possibile; non può essere vero…”
Quando ebbi
finito, la osservai: scuoteva ancora il capo ed appariva profondamente turbata.
Indugiai qualche
secondo ed infine tesi la mia mano verso la sua, pronunciando sottovoce il suo
nome, quasi volessi rassicurarla, ma ottenni solo l’effetto contrario.
Lei si alzò di
scatto, ritirando la mano, quasi fosse disgustata dal contatto con la mia.
Pagò il frullato
e, mandandomi al diavolo come solo una ragazza sa fare, uscì dal bar.
Io, dimenticando
la mia dignità maschile ed il mio stupido orgoglio, la seguii, supplicandola di
aspettare e di riflettere.
Non volle
ascoltarmi.
Non badai agli sguardi delle centinaia di
passanti posati su di noi, né ai nostri toni di voce, inopportuni da utilizzare
in un’affollata via del centro, mi limitai solo a seguire
Stacey, pregandola di perdonarmi.
Lei era troppo
importante per me: non volevo perderla. Ma ormai era troppo tardi: l’avevo già
persa.
Non ha più voluto
vedermi da allora, né parlarmi: anche per lei sono diventato un estraneo.
Adesso sono
seduto qui, nel letto estraneo di questa casa estranea.
Mi guardo
attorno, girando gli occhi lentamente.
È da parecchio
tempo che non parlo più con nessuno, né con mio padre, né con Stacey. Evito i
miei amici, poiché ho paura di lasciarmi sfuggire qualche frase di troppo.
La verità mi
opprime, mi divora assieme al mio rimorso, ma io ormai li affronto entrambi con
freddezza.
Ho cercato di
essere mite e farmi perdonare: nessuno ha accettato le mie scuse, né mi ha dato
il suo perdono; ora perciò non cercherò più la loro approvazione.
La mia colpa mi rimarrà addosso come un
marchio a fuoco per tutta la vita, ma io sono preparato a questo.
Ho sbagliato ed ora mi assumo le mie
responsabilità.
Pensandoci bene ora, nella solitudine
della buia camera da letto, questa esperienza, avendomi tolto qualche cosa, me
ne ha date delle altre; la capacità di raziocinio che possiedo adesso, la
freddezza, tanto simile a quella di mia madre, la capacità di assumermi
finalmente le mie responsabilità, sono tutte doti che non possedevo.
La mia adolescenza è sfiorita per lasciare
spazio ad una maturità acerba, ottenuta passando attraverso sofferenze che mai
avrei immaginato di poter provare.
Chissà se, un giorno, ciò che mi ha
procurato tanti dolori, non possa darmi altrettanta gioia?
Solo ora, per la prima volta, comincio a
pensare alla creatura che dimora nel ventre di Laura come a mio figlio. Il mio
egoismo fino ad adesso me lo aveva fatto dimenticare, ma ora è da qualche giorno
che penso a quella creaturina, riuscendo a guardare a lei anche con un certo
affetto.
Come desideravo che quella sera arrivasse.
Quando arrivò, bramai con tutto me stesso
che non fosse mai arrivata.
Non finirò mai di pentirmi di ciò che ho
fatto, ma può darsi che riesca a trarre felicità anche da un errore; accettando
il fatto di essere un ragazzo padre.
|