- The Wedding -
Sei
bellissima, mia mamma non me lo aveva mai detto. O forse me lo aveva
detto
quando ancora non ero in grado di capirlo. Di certo, non mi ha mai
guardata
così, con gli occhi neri che tentano di ricacciare indietro quel pianto
che,
già lo so, troverà pieno sfogo quando mi vedrà varcare la sacra soglia.
Non che
lei mi reputi brutta, tutt’altro, ma chissà perché riesce sempre a
trovarmi un
qualche difetto. Che sia il mio abbigliamento, che siano i miei
capelli, che sia
la mia pelle, che sia il trucco che non metto e che quando metto è un
disastro,
qualcosa che non va, lei, la trova sempre. Vuole che io sia perfetta
anche in
pigiama, vuole che io si bellissima, perché mi ha sempre reputata in
grado di
esserlo. Be, oggi, forse per la prima volta, mi guarda come se lo fossi
davvero, perfetta e bellissima. Magari è solo perché deve, magari è
solo perché
oggi non può proprio non pensarla diversamente. Non lo so, ma che
m’importa?
Lei mi vuole bene. Ed io non ho indossato questo splendido vestito
bianco,
questo filo argentato attorno al collo, questo trucco che nasconde ogni
minima
imperfezione e questi fiori tra i capelli perfettamente raccolti per
essere
bellissima.
Oggi non
voglio essere bellissima. Oggi voglio solo essere sua.
Il viaggio
verso la chiesa è breve. Mio fratello guida la berlina blu
perfettamente
lucida. Mio padre se ne sta in silenzio sul sedile davanti, pensando ad
un’altra
figlia che se ne va. Accanto a me, la mia nipotina di sette anni gioca
con
l’orlo del suo vestitino ciclamino. Ed io fisso il paesaggio che scorre
lento
oltre il finestrino. Tengo stretto con entrambe le mani il mio bouquet
di
roselline bianche, puntellato qua e là di violette che non potevano
mancare,
perché il viola è il mio colore preferito.
E lui? Cosa
starà facendo lui? Lui, mi starà aspettando.
Non mi sono
svegliata, stamattina, con quello sciocco timore di ritrovarmi da sola
all’altare. Non mi sono posta domande tipo “e se ci ripensa?”, “e se
quando mi
vede in modalità meringa cambia idea e scappa?”, “e se durante l’addio
al
celibato ha incontrato qualche modella degna della sua bellezza?”. No.
Non ho
mai avuto paura. Forse la mia è presunzione, ma io preferisco chiamarla
sicurezza.
Non sono
sicura di me stessa. Non sono sicura di lui. Sono sicura di noi. Di
quello che
abbiamo. Sono sicura di questo amore che mi ha strappato il cuore dal
petto e
lo ha chiuso in uno scrigno di cui solo lui possiede la chiave. E forse
è
stupido pensare che io non amerò mai nessuno come amo lui, che nessuno
potrebbe
amare qualcuno più di quanto io amo lui. Ma non sempre le cose stupide
sono
anche sbagliate. E la verità è talmente ovvia che negarla sarebbe solo
un
tentativo sciocco di sembrare meno…stupida, appunto. Ma non posso
incolpare me
stessa per amarlo in un modo talmente irrazionale, e folle, e
sconfinato.
D’altro canto, se non lo amassi in questo modo, non avrei risposto “si”
alla
domanda che mi fece sei mesi fa…
“Amore, sei tu?”
La sua voce proviene dalla
cucina, e mi
stupisco. Quando è a casa tra un progetto e l’altro, ogni volta che
rientro dal
lavoro lo trovo sempre stravaccato sul divano a guardare un film, a
leggere un
libro, più spesso a suonare la chitarra. Ed al mondo non esiste modo
migliore
per rincasare, con il suono di quelle vecchie corde pizzicate dalle sue
lunghe
dita.
Ma oggi, è diverso. E’ in cucina,
ed è
strano. E’ totalmente incapace di preparare una cena decente, e poiché
ho
eliminato dalla dispensa ogni sorta di quelle schifezze che lui adora e
che
finiranno per fargli venire il cancro allo stomaco, sono sempre io
quella che
armeggia con mestoli, padelle e mattarello. Ed anche se sono stanca, lo
faccio
volentieri, perché a causa del suo lavoro, non ho molte occasioni di
cucinare
per lui.
“No, sono la tua amante focosa
che ne ha
ancora voglia” grido, mentre appendo il cappotto all’appendiabiti.
“Ah, meno male! Mi ero quasi
preoccupato…”
Facciamo questo giochino da
almeno un anno,
praticamente da quando abbiamo cominciato questa folle convivenza.
Getto la borsa sul divano, e,
mentre mi
avvicino alla cucina, i miei sensi iniziano a percepire segnali
inquietanti.
Rumore di padelle e di piatti, ed un odore che mi stupisco a
riconoscere come
profumo di sugo di pomodoro e ragù di carne. Intercetto anche una scia
diversa,
che sembra essere…cioccolato.
Quasi mi convinco di essere
entrata nella
casa sbagliata, ma quando entro in cucina mi devo ricredere. Questa è
davvero
casa mia. I fornelli sono accesi. Il forno è in funzione. Dell’acqua
bolle in
una pentola. Il sugo borbotta nella padella. E dietro a tutto questo,
c’è lui.
Riconoscerei la sua schiena ovunque, e meglio ancora riconoscerei i
suoi capelli,
perché sono esattamente i suoi. La sua chioma è un po’ come lui, perché
è
pazza, fuori da ogni logica, senza una forma, senza possibilità di
domarla, nemmeno
il colore è definibile: al primo impatto, può sembrare un biondo scuro,
ma poi
lo guardi bene e ti rendi conto che forse è un castano chiaro, e se
spunta il
sole, la faccenda si complica, perché appaiono dei magnifici riflessi
bronzei.
Quando si volta verso di me e mi
sorride
come se mi stesse aspettando da tutta la vita, mi rimbalza addosso la
verità,
tante volte appurata, che niente, in lui, è normale. Niente di lui si
avvicina
minimamente al concetto di normalità. A partire dal suo viso, che più
che
quello di un uomo somiglia un po’ troppo a quello di un angelo. Non che
io ne
abbia incontrati molti, di angeli, a dire il vero non so nemmeno se
abbiano una
faccia, però se il suo fosse il viso di un uomo, prima o poi avrei
dovuto
incontrare qualcuno che avesse un volto simile, e invece no. Ed io, di
quel
viso amo ogni dettaglio. La linea marcata della mascella, la curva
gentile
delle guance che tanto spesso si tingono di rosso, le labbra sottili e
incredibilmente rosse, la barbetta persistente che dà quel tocco di
virilità
alla perfezione. Non esiste nessuno con un volto così, perciò devo
dedurre che
il suo viso trascenda la realtà umana. Può essere un angelo, può essere
un dio,
o un semidio, di certo non può essere semplicemente un uomo.
E poi, oggigiorno, quasi tutti
gli uomini
sanno sbrigare qualche lavoro domestico. Lui è completamente negato!
Per questo
me ne sto qui impalata a fissarlo come se non lo riconoscessi.
“Ma…stai cucinando?” balbetto.
“Ottima intuizione, Sherlock!”
risponde,
gettando le tagliatelle nella pentola d’acqua.
“Ma chi sei tu?! Che ne hai fatto
del mio
ragazzo?!”
Lo vedo scoppiare in una di
quelle sue
risate sceme e incontrollabili, quelle risate che a volte lo fan
sembrare un
idiota ma che inevitabilmente ti coinvolgono e ti risucchiano come un
vortice,
e ti ritrovi a ridere con lui e come lui. Solo che, in questo momento,
sono
troppo sconvolta persino per quello.
“Diciamo che l’ho chiuso
nell’armadio per
qualche ora, ma il sostituto è così inguardabile da non meritare
nemmeno un
bacio?”
Me lo chiede con un tono ed uno
sguardo che
sono un frullato di innocenza e malizia, ergo irresistibili. Sono due,
i metri
che ci separano, eppure gli corro incontro, perché improvvisamente mi
sono
ricordata che ho trascorso le ultime otto ore senza di lui. Un nulla,
in
confronto ai mesi in cui lui è assente, ma anche in quelle otto ore mi
sento
come se mancasse la parte fondamentale di me. Lui è la mia vita, è il
mio
ossigeno, e solo quando sono di nuovo
insieme a lui posso tornare a respirare.
Le mie braccia si allacciano
attorno al suo
collo e le mie labbra accolgono l’invito delle sue. Non so che sapore
abbia la
sua bocca quando è separata dalla mia, so solo che quando lo bacio, ho
l’impressione di star gustando una mousse di frutti di bosco. Le nostre
lingue
si conoscono bene, come due amanti di vecchia data, eppure non si
stancano mai
di rincorrersi e scoprirsi come due bambini. Come noi. Quando ci
separiamo, ho
il fiato corto, le palpitazioni e la tremarella alle ginocchia. Tanto
spesso,
lui mi fa sentire come un’adolescente alla sua prima cotta. Altre
volte,
divento quella donna piena di voglie indicibili e pensieri talmente
impuri che
potrebbero davvero condannarmi all’inferno.
“Mi sei mancata” sussurra la sua
voce
arrochita, mentre le sue labbra mi accarezzano il collo e le sue mani
vagano
lungo la mia schiena.
“Anche tu, amore. Come sempre…ma
se non la
smetti finisce che ti trascino con me sul pavimento e mando all’aria
tutto
questo miracolo”
Ridacchia contro la mia pelle,
perfettamente
cosciente, il bastardo, dell’effetto che scatena sulla sottoscritta.
Solleva la
testa per tornare a guardarmi, dall’alto del suo splendente metro e
ottantanove. Un giorno, la mia insistenza a non voler colmare con un
qualsiasi
tipo di tacco i venti centimetri abbondanti che ci separano, condurrà
ad un
torcicollo perenne per lui e ad una frattura alle caviglie per me. Ma
dopo
quattro anni, ancora ce la caviamo.
“Dai siediti, è quasi pronto”. Mi
ruba un
altro bacio, prima di tornare ai fornelli.
Mi accorgo ora che ha anche
apparecchiato la
tavola in modo pressoché perfetto. Mi siedo al mio solito posto, ancora
sbigottita. Faccio un po’ mente locale, perché oggi potrebbe essere un
giorno
importante per la nostra storia ed io me ne sono dimenticata. Non è il
mio
compleanno. Non è nemmeno il suo. Non è il nostro anniversario, e non è
nemmeno
il mesiversario. Oggi è il 18 gennaio e noi ci siamo conosciuti a
marzo. Forse
ha firmato un contratto importante di cui non mi aveva parlato, ma di
solito ne
discute sempre prima con me. Niente, non capisco.
“Amore…ma a cosa devo tutto
questo?”
Non mi risponde. Si avvicina al
forno e
sbircia dentro.
“Ah, bene! E’ pronta!” esclama
tutto
soddisfatto.
Apre il portellino ed estrae
quella che
sembra una splendida torta di cioccolato, di quelle semplici con il pan
di
spagna al cacao.
“Devo chiamare un esorcista per
caso? Hai
fatto anche la torta?!”
“Eh si, so che la adori…”
Un sospetto inizia a formularsi
nella mia
mente confusa.
“Amore…non è che hai combinato
qualcosa e
stai cercando di farti perdonare?”
Sorride, mentre scola la pasta.
“Amore mio, con tutto lo
sconvolgimento e i
casini che ho portato nella tua vita, dovrei cucinare ogni giorno per
farmi
perdonare…”
Non so cosa rispondergli, perché
piuttosto
che parlare preferisco godermi lo spettacolo di lui che mescola la
pasta con il
ragù con la grazia di un elefante, ma con successo. Prende un
sottopentola e
porta la padella calda sul tavolo.
“Eccola servita, madame” e si
esibisce
persino in un inchino da perfetto gentiluomo d’altri tempi.
E’ così buffo e così folle, il
mio amore.
Il primo boccone è un po’
riluttante. Ho il
terrore che abbia usato lo zucchero anziché il sale, perché ne sarebbe
davvero
capace. E invece, mi ritrovo a gustare delle tagliatelle perfettamente
al
dente, condite con un sugo davvero delizioso. Mi complimento con lui
più e più
volte, ed il mio è anche un sottile incoraggiamento a dilettarsi più
spesso in
cucina, così che qualche sera possa essere io quella che si stravacca
sul
divano. Perfino la torta è buonissima,
anche se non è venuta proprio morbida come avrebbe dovuto
essere, ma
basta fare un po’ di pratica.
“Amore, era tutto ottimo,
davvero, ma ora mi
spieghi perché?”
“Be, sai…a 28 anni penso che un
uomo debba
imparare ad essere autosufficiente”
“Mmm…chissà perché non mi
convince…”
“Dev’esserci per forza un motivo
se ho
voglia di cucinare per la mia ragazza?” mi domanda sfuggente.
“Be, nel tuo caso…si”
Distoglie lo sguardo e sorride,
ma in
maniera nervosa, come a dire “beccato!”. Mentre fissa il suo piatto
vuoto,
cerco di immaginare cosa stia cercando di dire o fare. Escludo subito
che le
sue siano brutte notizie, per due motivi: primo, dubito che mi avrebbe
fatto
una sorpresa piacevole come trovarlo in cucina per annunciarmi che
vuole
lasciarmi, secondo, la mia mente semplicemente si rifiuta di prendere
in considerazione
tale ipotesi. Perciò, sotto dev’esserci qualcosa di buono, e per questo
non sto
più nella pelle.
“Mi vuoi dire cosa c’è, o devo
iniziare a
preoccuparmi?”
“E va bene! Va bene!” sbotta,
scuotendo la
testa e alzandosi improvvisamente, facendo quasi ribaltare la sedia.
“Torno subito” bisbiglia, prima
di baciarmi
la punta del naso.
Poi scompare, ed io mi rilasso
sulla sedia.
Con la forchetta, stacco un altro pezzettino di torta dal vassoio e mi
gusto
l’ultimo peccato di gola di questa giornata. Un minuto dopo, lui
rientra in
cucina e quando lo vedo non so se ridere o piangere.
“E quella cosa sarebbe?” domando,
lasciando
trasparire una certa sorpresa.
“Una cravatta” risponde ovvio.
“Lo so che è una cravatta…ma da
quando
s’indossano le cravatte in casa e soprattutto sopra una t-shirt? E poi
cosa
stai nascondendo lì dietro?”
“Ti prego, ti prego! Lo so che ti
sembro
ridicolo…però…lasciami prima fare quello che devo fare e poi potrai
prendermi
per il culo quanto vuoi, ok?”
Provo quasi tenerezza nel vederlo
così. E’
chiaramente in difficoltà, è teso e nervoso, e non so nemmeno perché.
Non ho idea
di cosa stia succedendo, ma è anche della sua follia che mi sono
perdutamente
innamorata. Non so mai che aspettarmi da lui, ed ora eccolo qua: prima
cucina,
poi si mette la cravatta sopra un’anonima t-shirt bianca. Quale
spettacolo stia
mettendo in scena, lo saprò solo gli permetto di continuare.
“Ok…”
“Bene”
Si avvicina a me e si accuccia
accanto alla
sedia, piegandosi sulle ginocchia, ed è strano ritrovarmi più alta di
lui.
Allunga le braccia, ma invece che incontrare il suo abbraccio, mi
ritrovo con
una coroncina di carta e plastica sulla testa, di quelle che si reggono
con un
elastico. Ora davvero non ci sto capendo più niente…
“Ma che cos-“
“Shhh” mi zittisce, poggiando
l’indice sulle
mie labbra. “Adesso parlo io, poi quando sarà il tuo turno, potrai dire
quello
che vuoi, promesso”
Non ho altra scelta che fidarmi.
Prende un bel respiro, fissa per
qualche
secondo le piastrelle che compongono il pavimento, e poi torna a
guardarmi. Con
un’intensità che quasi mi ferisce, tanto che il mio cuore sembra
diventare
piccolo piccolo per poi scomparire nel nulla.
“Stasera avrei dovuto…avrei
voluto portarti
fuori a cena, in uno di quei ristoranti costosissimi in cui manca solo
che ti
portino in braccio sino alla sedia. Magari un posto sul Tamigi, o su
una
terrazza panoramica. Avrei sfruttato il mio nome, ed anche i miei
soldi, per
avere il tavolo migliore nel ristorante migliore con la cucina migliore
e la
vista migliore. Mi sarei messo la cravatta, e sai che la metto soltanto
per gli
eventi pubblici e ogni tanto in televisione. Ti avrei comprato quel
vestito che
ti piace tanto e che non hai nemmeno voluto provare perché costava
troppo. E
finalmente sarei stato davvero, davvero orgoglioso di essere quello
sono,
perché finalmente sarei stato il tuo principe e ti avrei fatta sentire
una
regina…”
So che il discorso non è
concluso. So che
andrà avanti, non so come, ma andrà avanti e comunque si concluderà,
saranno le
parole più belle che io abbia mai sentito. Per questo, il mio cuore,
che
improvvisamente ha ritrovato il suo posto, sta galoppando nelle
prateria. Per
questo, sento che i miei occhi si stanno giù inumidendo.
“Ma non l’ho fatto. Non l’ho
fatto perché,
mai come questa sera, ho voluto essere normale. Non volevo uscire a
cena ed
essere continuamente disturbato da qualcuno che mi chiede un autografo.
Non
volevo che ti sentissi costretta ad indossare quei tacchi che non
sopporti. Non
volevo ritrovarmi in uno di quegli ambienti lussuosi e snob in cui né
tu né io
ci sentiamo a nostro agio. Volevo che fossimo…noi. Semplicemente, tu ed
io. Però,
come vedi, mi sono messo la cravatta ed ho cucinato, per farti capire
che anche
un bambinone come me può diventare grande e prendersi cura di te. E ti
ho messo
questa coroncina in testa perché volevo che tu ti sentissi una regina
anche
senza un bel vestito e tra le mura di casa nostra. Tu sarai la mia
regina ogni
giorno, perché giuro che non ti farò mai mancare nulla.”
Sorrido, mentre con il dorso
delle dita
raccoglie le prime lacrime sfuggite al mio controllo. Non respiro,
perché temo
che una cosa tanto bella possa sparire anche con il più leggero dei
suoni.
“Non voglio prometterti che sarò
l’uomo
perfetto, perché io sono esattamente l’opposto e sbaglierò tante,
tante, tante
volte. E non sto cercando di…pararmi il culo per il futuro, sto solo
dicendo
che se la tua risposta sarà no io…lo capisco.”
Risposta? Quale…quale risposta? A
quale
do…domanda? I…io…
Perfino i miei pensieri
balbettano come un
disco inceppato, e per questo non oso dar loro voce. Anche perché credo
di
avere le corde vocali attorcigliate insieme allo stomaco.
“Ma se mi risponderai si, io
prometto che…io
prometto…Ma no, niente promesse. Non voglio che tu mi risponda si per
le mie
promesse, anche perché mi odierei troppo se non riuscissi a mantenerle.
Però
una cosa posso promettertela, si, perché è l’unica cosa di cui sono
pienamente
convinto, il motivo per cui ho organizzato tutta questa messa in scena
ed il
motivo per cui sto facendo la figura dell’idiota da circa mezz’ora…”
Ridacchio nervosamente,
mordendomi il labbro
inferiore fino a quasi sanguinare. Mi fermo solo quando il suo sguardo
s’incatena al mio, imprigionandomi ed immobilizzandomi completamente.
Con quei
suoi occhi che mi hanno resa assolutamente sua dal primo istante in cui
hanno
incontrato i miei.
“Io ti amo. Ti amo da sempre e
prometto che
ti amerò finché avrò la forza di respirare. Perché amarti per me è
esattamente
come respirare. E scusami, scusami per quei giorni in cui non te l’ho
detto e
quei giorni in cui non te lo dirò, ma ti prego, non devi mai, nemmeno
per un
secondo, dubitare di questo. Mai. Perché se non fosse così, se io non
ti amassi
più di ogni altra cosa al mondo…io…non ti darei questo…”
I miei occhi, totalmente
appannati, si
concentrano sulla sua mano che va verso la tasca posteriore dei suoi
jeans. Le
sue dita afferrano una scatolina di velluto blu e la posano
delicatamente sul
tavolo, proprio davanti a me. Non serve che io la apra per sapere cosa
nasconde.
Non ho bisogno di vedere per esplodere nel pianto più felice di tutta
la mia
vita. Magari è un ciondolo. Magari un paio di orecchini. Magari le
chiavi di
una macchina nuova. Sono le parole che ha detto…quello che
rappresentano che mi
fanno sentire come se non fossimo più sulla Terra. Come se fossimo su
un
pianeta isolato dove esistiamo solo noi nella nostra bolla felice e
perfetta.
Ma ora, mi farò coraggio. Ora
aprirò questa
scatolina. E se dentro dovesse esserci…quello che penso, giuro che
inizierò a
torturami di pizzicotti per provare a me stessa che questo non è solo
un
bellissimo sogno.
Le mie dita tremano, mentre
sfiorano la
superficie liscia della custodia tondeggiante. La prendo in mano, come
se
reggessi un cristallo molto fragile. Mi mordicchio di nuovo il labbro
e...apro…e mi gira la testa…e un po’ voglio morire…e un po’ non mi sono
mai
sentito tanto viva…e un po’ non ci credo…e un po’ voglio troppo
crederci…
Un anello. Un anello bellissimo.
Una fede
argentata che culmina in un piccolo diamante, le cui sfaccettature
colpite
dalla luce della lampada sopra le nostre teste, brillano creando ognuna
il
proprio arcobaleno. Non ci sono parole per descriverne la bellezza,
tantomeno
per descriverne il significato.
Mi porto una mano alla bocca,
singhiozzando
come una casalinga disperata alla prima visione di “Love story”. Vorrei
urlare,
ma anche starmene zitta a fissare questo anello che, per quanto bello,
non si
avvicina minimamente agli occhi celesti del mio amore. Non so come dove
trovo
la forza per tornare a guardarlo, perché sono certa che la mia faccia
adesso
sia una maschera orribile, bagnata e patetica.
Non mi sono nemmeno accorta che,
nel
frattempo, si è inginocchiato. Lui, che ha il mondo ai suoi piedi, si è
inginocchiato davanti a me.
“Vuoi sposarmi?”
A chiedermelo, è ogni minuscola
parte di
lui. I suoi occhi, la sua bocca, le sue mani, il suo cuore, la sua
mente, tutto
il suo corpo, tutti suoi desideri. Ed io, potrei trascorrere l’eternità
a
frugare in ogni angolo del mondo, senza mai riuscire a trovare un solo
motivo
per cui non dovrei rispondergli si. Unirmi a lui, in ogni modo
possibile,
questo è tutto ciò che desidero e che ho sempre desiderato. Non si
tratta solo
di un anello, di una firma su un contratto, non è per l’orgoglio che
avrei nel
portare il suo cognome. E’ la pura e semplice consapevolezza di volersi
legare
in maniera indissolubile. E’ una promessa, la promessa di quel “per
sempre” a
cui pochi ancora credono, ma che per me, per lui, per noi, è tutto,
perché non
accetteremmo mai l’idea di poterci amare meno.
“Si…si!”
Ed il suo sorriso, dopo la mia
risposta, non
potrò mai, mai, mai dimenticarlo, perché è la cosa più bella che io
abbia mai
visto in tutta la mia vita.
Quando
incontro i suoi occhi, tutto svanisce.
Non sto più
camminando lungo la navata.
Sento a mala
pena il contatto del braccio di mio padre.
Gli
invitati, che se ne stanno in piedi ad ammirare il cammino della sposa,
diventano solo una macchia colorata, senza volti, né sguardi, né voci.
Non sento il
profumo dei fiori.
Non sento la
musica che proviene dall’organo.
Non vedo il
prete, non vedo i testimoni.
C’è soltanto
lui.
E’ immobile.
E mi guarda come non mi ha mai guardato. Mi guarda come se non mi
avesse mai
vista, e come se non volesse vedere nient’altro. Mi guarda come se non
ci
credesse, come se avesse paura di vedermi svanire. Mi guarda come se al
mondo
non esistesse null’altro. Mi guarda come se questo fosse il giorno più
bello
della sua vita. Mi guarda come se qualunque cosa brutta sia successa in
passato
e succeda in futuro, non contasse più nulla. Mi guarda come se avesse
voglia di
ripetere tutto un’altra volta, purché lo conduca di nuovo qui.
Per questo,
c’è soltanto lui.
Ci sono
solamente i suoi occhi, che in questo momento sono spaventosamente
colorati e
immensi come l’oceano. E’ come se mi stessero risucchiando, come se mi
ci
perdessi dentro. Affondo in quei due zaffiri sfaccettati di minuscoli
smeraldi.
Anche i suoi occhi, come i suoi capelli, come lui, sono indescrivibili.
Non so
di che colore siano, so solo che mi ricordano il cielo, a volte il
mare, ma son
sempre il mio paradiso, il mio rifugio sicuro, l’ancora che mi tiene
attaccata
alla vita.
Quando li
vidi per la prima volta, pensai a come avrei potuto continuare a vivere
senza
di loro…
Quando mi apre la porta, è come
se morissi.
E’ come se tutto, il mio
cervello, il mio
corpo, il mio cuore, si scollegassero dal resto del mondo.
Le orecchie mi fischiano e la
vista si
appanna. Ho paura di svenire, ma so che non succederà, perché non posso
rischiare un’apocalittica figura di merda proprio davanti a lui.
E non è che io non voglia svenire
solo
perché lui è l’attore più famoso, richiesto e pagato del momento -anche
se si
tratta di un dettaglio non proprio da trascurare. Più che altro, non ho
voglia
di svenire davanti all’uomo per cui ho perso la testa da…diciamo cinque
secondi.
Questa non è la prima volta che
lo vedo,
ovviamente. A meno che non ci si sia voluti rinchiudere in un qualche
monastero
in Tibet, tutti sanno chi è lui. Tutti, almeno una volta, hanno visto
la sua
immagina su una rivista o in televisione. Succede così, quando
improvvisamente
diventi uno degli uomini più belli del mondo.
Che lui fosse bello, non ho mai
avuto dubbi,
perché l’oggettività è di per sé innegabile.
Ma che lui fosse così bello, io
davvero non
me lo aspettavo.
“Ciao…” mi dice, aggrottando la
fronte e
fissandomi con aria quasi preoccupata.
Perfetto, nemmeno dieci secondi,
e già nutre
dei dubbi sulla mia salute mentale…E come dargli torto, visto che me
sto
impalata con l’espressione da creatura “rincitrullulita” del bosco di
Bambie.
“Ehm…tu sei…l’assistente di
Melissa
Rosenberg, vero?”
Mi viene in aiuto, questo gentile
splendore.
Chissà quante volte gli sarà capitato d’imbambolare le ragazze
semplicemente
esistendo.
“Ehm…si, si sono io” mi scuoto,
ritrovando
improvvisamente la lucidità.
Le sue labbra si tendono in un
sorriso
sollevato, come se fosse felice di non dover telefonare alla neuro.
“Anna, giusto?”
“Si”
Oh. Mio. Dio. Ha pronunciato il
mio nome
italiano con un accento inglese che avrebbe anche potuto sciogliermi e
farmi
diventare una specie di uovo all’occhio di bue sparso sul pavimento.
Impazzirò, me lo sento. Il
processo di
perdita della sanità mentale è già iniziato.
“Accomodati pure”
Si scosta dalla porta per
lasciarmi passare.
Varco la soglia quasi timorosa, perché ho la sensazione che, compiuto
questo
passo, la mia vita non sarà mai più la stessa. Io non sarò mai più la
stessa,
ma temo che questo sia dovuto a quando, un minuto fa, i miei occhi si
son
posati sui suoi. Grave errore. Gravissimo. Mortale, oserei dire.
“Scusa il disordine, ma sai…non
sono mai
stato portato per le faccende domestiche”
Mentre parla raccoglie un paio di
magliette
che non so come son finite per terra. Quella che dovrebbe essere una
suite
somiglia più ad un accampamento nomade. Sul tavolino davanti al divano
c’è un
pacchetto vuoto di patatine, un posacenere con un paio di mozziconi ed
una pila
di quattro o cinque dvd noleggiati da Blockbuster. Una lattina mezza
accartocciata di Coca Cola spunta da sotto il divano, su cui se ne sta
appollaiata una vecchia chitarra classica.
“Stavi suonando?”
Mi esce così, questa domanda che
non so
perché mi sa di troppo confidenziale, di troppo intima. Mi mordo la
lingua,
perché lui ha l’aria del divo riluttante che almeno qualcosa di suo,
della sua
vita, se lo vorrebbe tenere per sé. Forse la chitarra è il suo piccolo
angolo
di pace in cui torna ad essere solamente se stesso, ed io con la mia
domanda,
lo sto invadendo senza alcun ritegno. Posso iniziare a scavarmi la
fossa o devo
aspettare che lo faccia lui? Lui, che tuttavia mi guarda come se il mio
impicciarmi gli fosse in qualche modo gradito.
“Si…ehm…più che altro
strimpellavo note a
caso e cercavo un modo per dare un senso a quel che ne usciva. E’ che
nella mi
testa c’è un tale casino che…che non so nemmeno io di che diamine
parlo…Scusa,
sicuramente ti sembrerò un idiota”
Allora, mi sono appena innamorata
perdutamente di un idiota.
“Credimi, di idioti ne ho
conosciuti tanti
nella mia vita e non ti somigliano nemmeno un po’…”
Ma che cazzo ho detto? Ora mi
metto pure a
fargli il filo così apertamente? Contegno, Anna! Contegno, maledizione!
Però lui, se non è un idiota, è
un gran
bastardo. Perché ora mi sorride con così tenero imbarazzo che mi sento
improvvisamente
febbricitante ed ha quella mano tra i capelli che non so davvero che
cosa
invidiare, se la mano che tocca quei capelli o i capelli che vengono
toccati da
quella mano.
Dio, ma che dita sono quelle?
Sono così
lunghe…Che diavolo ci fa con quelle dita, eh? Come se tutto il resto
del suo
corpo, e tutto il resto di lui, non incoraggiasse abbastanza pensieri a
dir
poco depravati…Scommetto che se la sua chitarra avesse una voce,
urlerebbe come
una donna in preda all’orgasmo, mentre con quei polpastrelli ne pizzica
le
corde con maestria.
“Siediti pure, se vuoi!”
Lascio che sposti la chitarra per
riporla
delicatamente in una custodia in pelle nera e mi accomodo sul divano.
“Vuoi qualcosa da bere?”
“No grazie, sono a posto…e poi
diciamo pure
che non bevo sul lavoro”
Ridacchio isterica della mia
stessa
penosissima battuta, e il suo sguardo da punto interrogativo è un po’
lo
specchio della mia attuale deficienza.
“Ok…ehm…allora, tu sei qui perché
devi
consegnarmi una cosa, giusto?”
Si…il mio cuore.
“Esatto”
Apro la borsa e prendo la
cartellina a cui
manca solamente il timbro “top secret” per essere considerato
ufficialmente
tale. E’ lo script di “Breaking Dawn”, ed il mio capo, Melissa
Rosenberg,
autrice di codesta opera, mi ha incaricato di consegnare una copia ad
ogni
attore che prenderà parte al film.
Le nostre dita si sfiorano,
mentre il
copione passa dalle mie mani alle sue, ed è come se una scossa
elettrica
penetrasse attraverso la pelle. L’idea che lui si accorga dell’effetto
che ha
su di me mi terrorizza a morte. Non voglio che pensi che io sia
l’ennesima
ragazzina che grida e si strappa i capelli in sua presenza. E’ chiaro,
l’ho
sempre considerato un bel ragazzo, ma soprattutto l’ho sempre
apprezzato come
il talentuoso artista che è. Di bellocci senza sostanza ce ne sono fin
troppi
in giro – un po’ come gli idioti – ma lui merita decisamente molto più
rispetto
e considerazione. Anche se il suo fascino diventa irresistibile quando
si
ritrova a gironzolare dalle tue parti e senti che il cuore sta quasi
per
scoppiare, lui è soprattutto un ragazzo di talento, un uomo che tenta
in
qualunque modo di scrollarsi di dosso quell’identità di idolo delle
adolescenti
che lui non ha mai chiesto gli fosse attribuita.
“E’ un bel malloppo. Ne avrò di
compiti da
fare quest’estate…” scherza, mentre sfoglia rapidamente il copione.
“Immagino però che tu sia
abituato…”
“Si…ma forse avrai saputo dei
miei problemi
di memoria, e la cosa peggiore di questi film è che non ti è concesso
improvvisare perché…”
“Perché il personaggio è già
troppo
costruito e definito…e se cambi qualcosa, ci saranno circa un miliardo
di
ragazzine che saranno pronte ad appenderti alla Bastiglia”
“Giusto” sussurra stupito.
Mi fissa con un mezzo sorriso ed
uno sguardo
quasi incantato, come se le mie parole gli avessero appena cambiato la
vita.
Sorrido ed abbasso lo sguardo, sentendomi un po’ a disagio. Avere quei
suoi
occhi su di me e sentirmi avvampare d’imbarazzo mi ricorda tanto il mio
primo
bacio, quel momento nella vita di ogni donna in cui tutto, ma proprio
tutta,
diventa magia.
“Dev’essere…dev’essere
quasi…frustrante per
te” mi azzardo a dire, anche per interrompere l’imbarazzante silenzio sceso tra di noi.
“Lo è, in effetti…”
Si siede sbuffando sul divano,
accanto a me,
ma mantenendo una sorta di distanza di sicurezza, come se non volesse
sembrare
azzardato.
“So che farò la figura di quello
che sputa
nel piatto in cui mangia, ma sebbene sia grato per le opportunità che
mi ha
dato essere Edward Cullen, non vedo l’ora che tutto questo finisca…”
Parla tenendo la testa reclinata,
appoggiata
allo schienale, e lo sguardo fisso sul soffitto. Mi ritrovo ad ammirare
la
curva accentuata della mascella sotto l’orecchio e due piccoli nei
gemelli
sulla nuca, e scopro di essere diventata una maniaca senza speranza,
perché
perfino quei dettagli mi sembrano infinitamente attraenti. Il profilo
delle
labbra color pesca è incantevole. La maglietta bianca e anonima che
indossa
mette in risalto la finezza dei bicipiti e dei pettorali, ben definiti
da un
po’ di lavoro in palestra, ma non così grossi da lasciare intendere che
lui ne
sia un assiduo frequentatore. Il suo corpo è davvero la cosa più
perfetta che
io abbia mai visto. La sua pelle ha il colore del latte, e vorrei
toccarla
anche solo per sentire se è fredda o calda.
In tutta questa sua abbagliante
bellezza, c’è
solo un elemento che stona: il suo sguardo. Vi leggo malinconia, e
soprattutto
stanchezza, ed anche qualche sfumature di rabbia. Qualcuno potrebbe
domandarsi
di che cosa diavolo si lamenti uno che ha un traboccante conto in banca
e che
basta che respiri per avere le donne ai suoi piedi. Il punto è che
questo
ragazzo mi sembra un po’ troppo sensibile per soffermarsi su questi
aspetti
triviali della vita.
“Ho una paura fottuta che la
gente non mi
prenda mai sul serio. E’ assurdo pensare che proprio il ruolo che mi ha
aperto
un sacco di porte allo stesso tempo mi faccia apparire sempre e solo
come
quello che ha fatto Twilight…Io non sono così. Io voglio
essere…qualcosa di
più. Io…io non so nemmeno perché ti sto dicendo tutto questo…non ti
conosco
neanche…”
Ora sorride amaramente e si copre
il volto
con le mani, come se si vergognasse. Ho voglia di abbracciarlo e
sussurrargli
che andrà tutto bene, perché lui è eccezionale. Ho voglia di
accarezzargli il
capelli e lasciarlo addormentare con la testa sul mio grembo. Ho voglia
di
ascoltare il suo respiro mentre la mia mente si annebbia del suo odore.
Il suo odore, mi piace. Da
morire. Quando
uscirò da questa stanza sarà la cosa che mi mancherà di più, oltre ai
suoi
occhi. Non è che lui profumi di qualcosa in particolare, non profuma di
erba
tagliata, di menta o di vaniglia. Semplicemente profuma di buono. Il
suo odore
è accogliente, familiare, ti fa stare bene, ti fa sentire al sicuro
e…parte di
qualcosa.
“Chissà…forse ti ispiro fiducia…o
forse
qualcosa di me ti fa venire in mente tutte quelle ragazzine che ti
idolatrano e
sfogandomi con me è come se volessi lanciare un messaggio anche a loro…”
“O forse è solo perché…mi sento
bene…con
te…”
Il mio cuore forse ha smesso di
battere. Il
mio respiro forse si è bloccato. Il mio cervello è in stand by. Eppure
perché
mi sento così viva? Che mi dicesse una cosa tanto bella, non ho osato
nemmeno
sperarlo. Possibile che lui, in questi pochi minuti, abbia provato
almeno un
centesimo delle sensazioni che hanno travolto me?
“Ma che cazzo sto dicendo?
Scusami, devo
sembrarti proprio malato…”
“Idiota, malato…noto che hai
un’elevatissima
considerazione di te stesso! Il fatto che tu non riconosca le tue
qualità è
quasi irritante…”
“Scusami…”
“Vuoi smetterla di scusarti?
Diamine,
solitamente gli uomini non ti chiedono scusa nemmeno una volta nella
vita, e tu
lo hai già fatto tre volte nell’arco di cinque minuti…Non sarai idiota
né
tantomeno malato, ma di certo sei strano”
Lascia scivolare le mani lontano
dal suo
volto, permettendomi finalmente di rimirare lo spettacolo dei suoi
occhi. Ha lo
sguardo di un bimbo sperduto, e un po’ mi sento in colpa perché forse
ho
esagerato con la sincerità. Ma lui me l’ha proprio strappata dal petto
e
mentirgli mi è impossibile, non ci riuscirei nemmeno se volessi.
Mi sento meglio quando, dal
nulla, scoppia a
ridere. Sarà per la situazione semplicemente assurda, sarà per
sciogliere la
tensione che ha trasformato questa stanza in uno studio medico e questo
divano
in un lettino da psicologo, ma nemmeno io riesco a trattenermi e mi
lascio
coinvolgere dalla sua risata cristallina e quasi infantile.
“Ora devo andare…” mormoro,
fissando la
porta, perché non oso guardarlo mentre la sua euforia si spegne, e non
oso
guardarlo mentre io stesso annuncio la mia imminente dipartita.
Mi alzo dal divano e mi dirigo
verso la
porta. Non mi volto nemmeno quando lo sento alzarsi e seguirmi. La
vicinanza
del suo corpo a mio è quasi insostenibile. Per questo, è meglio che me
ne vada
subito ed accetti l’idea che la mia vita deve andare avanti senza di
lui. Non
so come, ma non vedo alternative. Insomma, lui è immensamente lui,
mentre
io…sono solo io.
Ma…c’è una faccenda che non mi
posso
permettere di lasciare in sospeso. Una domanda che devo porgli, una
risposta
che devo assolutamente avere. Perché improvvisamente è diventata la
cosa più
importante della mia vita, e di fronte a questa consapevolezza, non
posso fare
a meno che prendere un bel respiro e guardarlo. E sento il mio cuore
fare
“ahi”, perché lui è talmente bello che guardarlo mi fa male.
“Posso farti una domanda?”
“Certo”
“Sei felice?”
Oh Dio. Ed ora mi guarda così, e
sembra un
bimbo ancora più sperduto, ancora più confuso. Ed io, spero solamente
che non
mi chieda il perché di questa profonda intrusione, perché non saprei
che cavolo
rispondergli. Come posso rispondergli che la sua felicità, da circa
dieci
minuti, è tutto per me.
“Ti risponderò, ma ad una
condizione…”
“Quale?”
“Resta…”
“Perché?”
“Perché se ora uscissi da questa
stanza, la
mia risposta sarebbe no…ed io no, a te, non lo voglio mai dire…”
Da quella
stanza, alla fine, non sono mai uscita.
Da quel
giorno, è come se fossimo perennemente rinchiusi in una stanza, io e
lui.
Anche quando
ci sono mille miglia a separarci, il suo odore continua ad avvolgermi
come se fossimo
seduti sullo stesso divano, sdraiati sullo stesso letto, a respirare la
stessa
aria, a sognare le stesse cose.
Sono di
fronte a lui, finalmente. Il mio cammino sembrava non avere mai fine.
Non
vedevo l’ora di raggiungerlo, pur sapendo che da lì, lui, non si
sarebbe mai
mosso. I suoi occhi puntati nei miei lo tengono ancorato al terreno, e
a questo
pianeta, nonostante lui appartenga chiaramente ad un altro mondo. Forse
proviene dall’Isola che non c’è. Forse, se un giorno lo perdessi,
saprei dove
andarlo a cercare: seconda stella a destra, e poi dritto sino al
mattino,
giusto? O forse, è nato in quel luogo che sta tra il sonno e la
veglia…Non lo
so. Però ora è qui, proprio davanti a me, e tutto di lui mi dice “ti
amo”.
Il completo
nero che indossa fascia il suo corpo alla perfezione. Al mondo non può
mai
essere esistito uno sposo tanto bello. Vorrei chiedergli se lui pensa
la stessa
cosa di me. Vorrei chiedergli se il vestito che ho scelto gli piace.
Vorrei
chiedergli se m’immaginava così. Vorrei chiedergli tante altre cose.
Vorrei chiedergli
se un giorno il cielo riuscirà mai ad essere azzurro come i suoi occhi
ed il
sole splendente come il suo sorriso.
Il prete
recita la funzione, ma io sento a mala pena le sue parole. Nelle
orecchie, ho
solo il dolce suono della sua voce, quando in quella stanza si è messo
a
suonare e canticchiare, stregandomi.
L’ ho ascoltato e mi ha
incantata. Ci siamo
ingozzati di hamburger e patatine fritte, stando attenti a non sporcare
il
divano di maionese e ketchup. Ci siamo raccontati ogni genere di
cazzata ci
venisse in mente e abbiamo riso come solo i bambini sanno ridere. Mi ha
permesso di entrare nel suo mondo fatato e confuso, ed io l’ho lasciato
entrare
nel mio. E’ diventato il mio migliore amico, ed io la sua migliore
amica. Gli
ho detto che lui ha tipo cinque modi diversi di ridere e lui mi ha
detto una
come me non l’ha mai conosciuta. E’ entrato dentro di me ed io sono
entrata
dentro di lui, eppure non ci siamo mai nemmeno sfiorati.
E’ mezzanotte passata, e mi alzo
per andarmene.
Lui mi chiede di restare e dormire insieme a lui, puntualizzando che
per
dormire intende sul serio dormire. E mi fa ridere perché è così buffo
quando s’imbarazza
e anche se si sente uno scemo ma non può fare a meno di chiederle,
certe cose.
E non me la sento di rifiutare, perché davvero non me ne voglio andare.
Così,
ci sdraiamo sul letto, e ci fissiamo negli occhi senza sapere da dove
cominciare per sentirci meno impacciati. E’ dolce, il modo in cui è
sdraiato.
Tiene le mani unite sotto il cuscino, le ginocchia piegate e le
caviglie
sovrapposte, e quell’aria da cucciolo disperso e impaurito che ti fa
morire
dalla voglia di accarezzarlo.
“Non ho mai solo dormito con una
ragazza” mi
confessa, e non capisco perché si sente così sporco mentre lo dice.
“Perché me lo hai chiesto ?”
“Perché nemmeno io sapevo di
avere cinque
modi diversi di ridere. Il fatto che tu mi abbia fatto ridere in cinque
modi
diversi significa che non potevo lasciarti andare via. Non stanotte. E
visto
che sei la prima persona che abbia mai notato una cosa del genere, ho
deciso
che devi essere la prima in tante altre cose. Come dormire…e basta”
E abbiamo
dormito e basta sul serio, quella notte.
Non so chi
dei due si sia addormentato prima, so solo che la prima a svegliarsi
sono stata
io. Mi ero mossa durante il sonno e gli davo le spalle. Il suo braccio
mi
circondava la vita, senza troppe pretese - pur nell’incoscienza -, se
non
quella di avvertire la mia presenza. Non so esattamente se il suo
desiderio
fosse quello di non sentirsi solo o di non sentirsi senza di me.
Ricordo però
che sorrisi.
Sorrisi come
sto sorridendo ora, mentre i suoi occhi si fanno lucidi per l’emozione
e la
premura di dire si, di ripetermi che mi vuoi anche davanti a Dio e a
tutto il
resto del mondo.
Non serve
che lui lo dica anche a me, perché lo so. Lo so da quando mi chiese di
dormire
insieme a lui. Lo so da quando mi svegliai con il suo braccio attorno a
me. Lo
so da quando anche lui aprì gli occhi e mi disse che mi lasciava
libera, perché
non poteva tenermi in ostaggio...
“E poi, entrambi abbiamo anche un
lavoro ed
una vita fuori di qui, giusto?” mi dice, con non troppa convinzione.
Annuisco, perché la nostra
separazione è inaccettabile
quanto necessaria.
“Non sparire, ok?” mi supplica,
mentre tiene
aperta la porta.
Solleva un angolo della bocca, in
uno dei
suoi famosi sorrisi sghembi, come se volesse sdrammatizzare tutta la
dolorosa
assurdità della faccenda.
“Ci rivedremo, forse. Non so
quando, non so
dove...ma ci rivedremo”oso dire.
“Me lo prometti?”
“Si, te lo prometto”
Ed esco da quella stanza, senza
nemmeno
dirgli ciao. Sento il rumore della porta che si chiude alle mie spalle,
e del
mio cuore che si frantuma in mille pezzi. Ogni frammento è come una
scheggia di
vetro che riflette la sua immagine. C’è lui, dentro di me, in ogni
parte di me.
C’è solamente lui. In ogni respiro, in ogni lacrima, in ogni passo
lungo il
corridoio.
Ci rivedremo, forse.
Gliel’ho promesso.
Non so quando, non so dove…ma
gliel’ho
promesso.
E l’ho promesso anche a me
stessa, perché in
quella stanza ho lasciato fin troppo di me.
E se non potessi andare avanti,
senza quella
parte?
Mi blocco. Con un piede avanti ed
uno
indietro, ed il dito pronto a premere il pulsante di chiamata
dell’ascensore.
E se non volessi avere il cuore
in frantumi?
Se quelle schegge mi stessero tagliando troppo in profondità?
Chiudo gli occhi. Respiro.
E se di lui volesse avere tutto?
E se a lui
volessi dare tutto?
Mi volto.
E se quel quando fosse ora? E se
quel dove
fosse qui?
Cammino. Anzi corro, finchè non
mi ritrovo
ancora davanti a quella porta. Busso.
…Io, Anna,
prendo te, Robert, come mio legittimo sposo, e prometto di amarti e
rispettarti
ogni giorno della mia vita…
Mi apre la porta, senza nemmeno
chiedere chi
è. Perché già lo sapeva, che come lui non poteva lasciarmi andare ieri
notte,
così io non potevo andarmene questa mattina.
E senza dire niente, senza
nemmeno indugiare
troppo sui suoi occhi languidi che non sanno se esultare o chiedermi
perché, lo
bacio. O meglio, mi avvento letteralmente sulle sue labbra, che hanno
il colore
delle pesche ed il sapore della mousse ai frutti di bosco. E mi inebrio
della
sua dolcezza e del suo respiro ansante, mentre risponde al mio bacio,
quasi
aggredendo a sua volta la mia bocca. Mi prende in braccio, allacciando
le mie
gambe al suo bacino, e mi porta in camera da letto.
Facciamo l’amore in un modo così
intenso e
dolce che quasi mi si spezza il cuore. Lui non è certo il primo, ma è
il primo
che mi ama delicatamente come se fossi fatta di cristallo. E’ il primo
che con
quelle sue labbra scopre ogni angolo di me come se fossi ricoperta di
miele. E’
il primo che mi entra dentro come se avesse paura di vedermi evaporare.
Mi
tiene stretta a lui con un braccio, mentre con l’altra mano stringe la
mia. Nessuno
mi ha mai amata così, come se non ci dovesse essere nemmeno un
centimetro della
mia pelle separata dalla sua. E questo mi dà la certezza che, d’ora in
avanti,
dove sarà lui, sarò anche io. E viceversa.
...Io, Robert,
prendo te, Anna, come mia legittima sposa, e prometto di amarti e
rispettarti
ogni giorno della mia vita…
Sdraiati l’uno di fronte
all’altro, ci
fissiamo negli occhi mentre ancora non abbiamo ripreso a respirare in
modo
normale. Anche se con lui, oramai lo so, nulla potrà mai essere
normale,
nemmeno il respiro.
Accarezzo la sua fronte, portando
via quel
poco di sudore che ancora la imperlava. Le mie dita s’insinuano di
nuovo nei
suoi capelli, finché il mio palmo non si posa sulla sua guancia ed
inizio a
tracciare il profilo della sua bocca con il pollice.
Sei così bello, vorrei dirgli. Ma
rimango zitta,
perché ancora devono inventare parole degne di lui.
“Anna…”
“Si?”
“Secondo te…è possibile che io
già ti ami?”
“Non lo so…già mi ami?”
“Si”
“Allora si, è possibile”
“E tu?”
“Io cosa?”
“Già mi ami?”
“Già? Io…credo di avere anche
tardato troppo
a farlo…”
“Vi dichiaro
marito e moglie”
Lo
scrosciare degli applausi alle nostre spalle è lo sfondo perfetto al
nostro primo
bacio come marito e moglie.
“Ti amo, signora
Anna Pattinson”
“Ti amo,
signor Robert Pattinson”
“Secondo te, è possibile che ci
siamo
conosciuti solo ieri e già sto pensando che un giorno potrei chiederti
di
sposarmi?”
“Non lo so…stai già pensando che
un giorno
potresti chiedermi di sposarti?”
“Si”
“Allora si, è
possibile anche questo”
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