Lungo il sottile filo di luce che separava il pomeriggio
dalla precoce notte autunnale, lui era là, seduto sulla sommità della lunga
scala di legno, a srotolare i suoi pensieri insieme al fumo della sua sigaretta.
Li lasciava salire, dispiegare, disfarsi, incorporei e volubili come quelle
spire, li lasciava seguire i moti ascensionali della sua mente, fondersi l’uno
nell’altro, e tenere dietro al destino del filo di fumo che svaniva nell’aria.
Gli ultimi, tardivi
visitatori del piccolo tempio gli rivolgevano tutti lo stesso sguardo accigliato
e vuoto mentre salivano le scale per andare a pregare per le loro effimere vite.
E c’era sempre, sempre uguale il tintinnio di una moneta, il fruscio della
spessa corda ritorta che si trascinava dietro lo stanco rintocco della campana,
quel mormorio monotono e poi il ritmico sussurro delle vesti che si piegavano in
inchini senza fine. E lui rimaneva là, immobile, come se il vento che faceva
conversare tra loro gli alberi non potesse lambire le falde del suo cappotto
nero, come se i rumori della vita non colpissero le sue percezioni.
Profumi, colori, dettagli
di esistenza salivano e scendevano accanto a lui, la concretezza di ogni
presenza, mani, vestiti, occhi, scivolavano su di lui senza alterare la fissità
del suo sguardo, come non alteravano i pinnacoli, le esili colonne e l’arco del
legno. Finché la luce non tramontò in un ultimo bagliore di rosso, e
quell’andirivieni cessò definitivamente. Allora si alzò, lasciò cadere la
sigaretta nel piccolo corso d’acqua, salì l’ultimo gradino ed entrò nel tempio.
Dentro faceva freddo.
Tuttavia, un freddo differente da quello che fuori stava scendendo insieme alla
notte: non era gelo, ma un fresco accogliente, ricordava il sollievo dell’ombra
di un albero in mezzo all’estate, il refrigerio del buio del portone di casa
chiuso alle spalle di una giornata di canicola. Lontano, veniva un inno appena
sussurrato di voci maschili, l’intonazione bassa e monocorde di un incantesimo
antico come il mondo; e tutto era buio, immobile, e in pace.
Eppure così diverso dal
buio, dall’immobilità e da quell’oscura pace che circondavano la figura del
giovane uomo stagliata contro il vano del portale.
Cosa avrebbe detto Hokuto a
vedere suo fratello adesso…
Il familiare splendore del
verde di quell’occhio ormai addormentato, adombrato dall’impenetrabile ambra
dell’altro, il nero che avvolgeva le forme sottili, rendendole quasi
irriconoscibili, e il guanto destro ancora impercettibilmente macchiato di…
Cosa avrebbe detto Hokuto…
Hokuto… i suoi occhi, le
linee agili e immature delle sue membra, i suoi capelli…
Il fumo dei bracieri,
l’odore dei pensieri salivano, scendevano, si confondevano… nuvole di nebbia, le
note dell’inno e quelle di ricordi perduti s’intrecciavano in dita evanescenti
che disegnavano nell’aria…
E lentamente,
all’improvviso, Hokuto era lì, davanti a lui, la veste cerimoniale bianca che
scintillava di concretezza, gli occhi un lieve chiarore di smeraldo nella notte
del tempio.
Hokuto…
Era Hokuto… ma allo stesso tempo, non era lei… i capelli
scivolavano in un’onda di seta disordinata sulle spalle della veste, le guance
s’incavavano lievemente sotto le tempie, la pelle di madreperla più tesa sopra
gli zigomi… il viso meno rotondo, meno sfuggente, e negli occhi un’altra luce…
Hokuto… come sarebbe stata,
se…
Hokuto a vent’anni…
La giovane figura avanzò
verso di lui, le vesti che non gettavano alcuna ombra, alcun fruscio. E
lui avvertì il contatto, il calore, le dita, le unghie lunghe sulla pelle, sotto
il mento… uno sguardo obliquo e diffidente che si fissava nel suo…
“Subaru?”
La voce… la voce, precisa,
chiara e vicina come fosse stata sussurrata al suo orecchio, che non risuonava e
non si perdeva sotto la volta di legno…
“Sei proprio tu?”
Dentro di lui, qualcosa si
alzava in piedi, si svegliava –la tentazione di rispondere…
“Com’è possibile?
Perché, sai, mi avevano
detto che eri morto…”
E in un terremoto di aria,
di suono, di sogno, tutto andò in pezzi. Lui fece un passo indietro, chiuse gli
occhi, intrecciò le dita…
“On…”
Il fremito della sillaba
impresse minuscole onde nelle acque verdi di quegli occhi, ma la linea delle
labbra restava immobile, serrata.
“On…”
Radunò sotto le palpebre la
concentrazione, la ben allenata capacità di chiudere la mente, di vedere
soltanto lo spettro oscillante, la vibrazione dell’incantesimo –ma, inatteso,
c’era il ricordo, il ricordo di una risata, dei colori di un vestito, il vento,
il mattino, il battere della luce sull’acqua di una gita al mare…
… il bianco immacolato, poi
il rosa dei fiori, e infine, il rosso…
Affondare la mano in quel
rosso, una goccia di sudore gelato, il vacillare degli occhi di una adolescente
–o di un uomo?
Il peso leggero,
schiacciante, del bianco, del nero, le radici dell’albero, e le radici, le
nervature di metallo di un ponte spezzato senza fine…
“On.”
E in un’ultima, tremula
rivoluzione, il mondo crollò, si rovesciò, e infine tornò ai suoi piedi. Nessun
profumo di giovinezza, di presenza si sovrapponeva più a quello dell’incenso,
nessun calore di una mano viva, nessun fantasma, se non quello del ricordo, di
un ricordo lontano.
Fuori e dentro di lui,
tutto era di nuovo un oceano di calma, di calma immobile, una lastra di vetro,
di ghiaccio che sa che la primavera è altrove. La calma sicura del cacciatore a
cui non può sfuggire la preda, che sa attendere con infinita pazienza che il
passo attraversi la sua trappola, come è già scritto. La rassegnazione di chi sa
che il mondo è finito, di chi è stato legato così stretto in quella trappola, di
chi ha cicatrici così profonde di quei lacci che ormai non ha che da attendere,
con la stessa pazienza del cacciatore, che scenda la notte.
Non sapeva dire quanto
tempo era passato, quando sentì quel passo.
Si voltò; fuori dalla cella
del tempio era sera ormai, l’oscurità delle pareti non si distingueva più da
quella dell’aperto. Ma poteva avvertire, seppur debolissima e stanca, un’aura di
presenza, quella minuscola, esitante vibrazione così tipica della vita. E poi,
riuscì finalmente a distinguere il profilo fragile di una figura vestita di
nero, inginocchiata nello scuro.
“Subaru…”
Mesi passati senza udire il
suono del suo nome, e adesso sentirlo chiamare due volte nella stessa, minima
manciata di tempo. Non riconobbe la voce, qualcosa dentro di lui reagiva ad
essa, come una goccia di acido che schiarisce di appena un’ombra il colore opaco
di una soluzione, ma non la riconobbe. Allora si avvicinò di un passo, fece
sprizzare una scintilla dal suo accendino, e diede fuoco ai carboni spenti
dentro a un braciere.
La fiamma illuminò di un
palpito la seta nera di un kimono, il tremore di lunghe mani bianche, di lunghe
ciocche bianche a incorniciare un volto rigato di ragnatele, e di lacrime…
“Subaru…”
Quegli occhi allagati e
distrutti, eppure in cui, in qualche modo, sopravviveva l’ultimo fantasma di
nobiltà, si sollevarono per incontrare i suoi.
“Sei tu…”
Tutta la commozione, lo
sfinimento, la disperazione che tremava in quel volto di donna… e lui provava
una sola sensazione, quella di quando, ragazzino, rimuoveva la pellicola lucida
che avvolgeva un nuovo libro di scuola, e, sfogliandolo, riconosceva un
monumento, un dipinto, la foto di una città –semplicemente, il minuscolo scatto
che distingueva il già visto dall’ignoto, la casuale facoltà di collegare ad
un’immagine un nome… nulla di più.
Stremati, gli occhi si
abbassarono, le ciglia non riuscirono più a trattenere le lacrime.
“Perché, Subaru… Perché?”
E quel volto fine e altero…
era lo stesso che, con uno sguardo, gli imponeva il silenzio nelle ore di
meditazione davanti al fuoco, che gli troncava sulle labbra le proteste durante
i loro colloqui… quelle mani erano le stesse che gli servivano con gesti
compassati e gelidi la tazza di tè, che gli serravano con inaspettata forza le
sue, i suoi guanti, ordinandogli di non toglierli mai… che si avvinghiavano con
l’ultima fierezza al suo braccio quando lui stringeva già –pochi mesi prima- le
valigie per Tokyo…
“Non hai fatto altro che
controllarmi, quando avrei semplicemente voluto vivere come tutti gli altri” le
disse con voce atona. “e che lasciarmi solo, l’unica volta che avrei avuto
bisogno di te. Ma non può andare tutto come vuoi tu… nonna.”
Forse fu quell’ultima
parola, quella dolcissima parola che le ricordava immensi occhi verdi che
ridevano nel suo abbraccio, ma detta con quell’indifferenza, quel gelo con cui
si pronuncia il nome di un oggetto… forse fu quell’ultima parola a far crollare
definitivamente, per sempre, il mondo intorno a lei. Prostrata, il volto sepolto
nelle ginocchia, i capelli sparsi nel disordine della disperazione, l’anziana
donna mormorava, una cantilena sfinita e spezzata dai singhiozzi…
“Io… non ti volevo…
controllare… non ti volevo… inseguire… non ti volevo… lasciare solo… io… ti
volevo solo… bene…”
Immensi occhi verdi che
ridevano nel suo abbraccio… ma adesso, anche dentro di lui, per la prima volta,
affiorava il sorriso di piccoli occhi castani, di eleganti palpebre allungate e
finissime… affiorava, sotto il violento, accecante schiumare di amore e odio, di
uccidere e morire, trapelava il semplice calore di una guancia china sulle sue
mani, il tintinnio di un sonaglio, e una carezza orgogliosa di lui fra i suoi
capelli…
Tuttavia… ti prego di volerti almeno un po’ di bene…
S’inginocchiò anche lui,
afferrando piano il polso della donna. Lei alzò gli occhi di scatto –sorpresa, o
forse paura, puramente, semplicemente paura… la paura di morire…
Perché, sai, mi avevano detto che eri morto…
Il sentimento più
spontaneo, l’istinto più primitivo: sopravvivere, stringersi alla propria pelle,
avvinghiarsi al proprio essere, all’ultimo baluardo a guardia dell’assenza, per
non perdere l’unica partita che ci è dato di giocare…
Riconoscere il richiamo di
casa, sentirsi sciogliere dentro un fiume caldo di velluto, di sorriso, a sapere
di essere amati, riconoscere il suono del proprio nome… tutto questo, da tempo,
non lo sentiva più.
E adesso era veramente
morto, ora che ravvisava l’ombra che l’uomo aveva gettato su di lui, e che non
aveva mai voluto vedere, ora che sapeva cosa volesse dire essere quell’ombra.
No, non quando la sua vita era stata distrutta per la prima volta, non quando lo
era stata per la seconda: in tutti quegli anni, aveva cercato la morte,
era corso dietro ai vestiti fruscianti di nero della bella signora, desiderando
solo disfarsi in quell’inebriante notte –ma mentre cercava, correva, desiderava,
era vivo…
Era adesso che era
diventato ciò che non aveva voluto essere mai: il riflesso di lui, lo
specchio in cui lui avrebbe potuto per sempre contemplarsi, contemplare
il suo immobile sorriso e la luce fumosa dell’ambra del suo occhio –e, per
quanto potesse avvicinare al vetro le labbra, il contatto non ci sarebbe stato
mai…
Ma, per un istante, nel
verde cristallino di occhi che un tempo erano stati anche i suoi, nelle lacrime
che in un’altra vita avevano sfiorato anche le sue guance, nell’attimo in cui
aveva riconosciuto la ragazza dalla veste bianca e la vecchia inginocchiata nel
buio, una scintilla aveva dato fuoco al suo mondo. Solo il bagliore di un
momento, che dava il suo ultimo sussulto mentre lui accarezzava la guancia della
donna, e poi già si spegneva, assediato dall’oscurità a cui sapeva, come sempre,
di dovere, di volere cedere.
Ma quell’istante c’era
stato, l’ultimo legame col suo mondo non lo era riuscito a spezzare.
Ed era quell’istante che lo
avrebbe reso per sempre diverso da Seishiro.
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