«
B e n v e n u t o a l m o n d o ,
f i g l i o
m i o »
«Andrà tutto bene Lentiggini, tutto alla grande.
Forza, ci siamo quasi, resisti solo un altro po'.»
Un grido, solo uno, soffocato dietro ai denti e la mascella serrata, e
la sua mano si chiuse attorno al suo braccio, stringendogli il
bicipite, conficcandogli le unghie direttamente nella carne. Il boato
della sirena le riempiva la testa fino a stordirla e lei
spalancò e chiuse gli occhi velocemente, immagazzinando
più aria di quanto i suoi polmoni potessero contenere e
gridò di nuovo quando una lunga, dolorosa fitta le
attanagliò il ventre con tanta forza che per un secondo
credé che le avrebbe strappato direttamente la carne dal suo
corpo.
Voltò il viso, gli occhi velati di lacrime e
singhiozzò, stringendosi con forza alla sua giacca di pelle,
al suo braccio. «James…»
mormorò, la voce spezzata e stanca.
«Siamo quasi arrivati.»
Lei scosse il capo. «Non ce la faccio
più.»
«Manca poco, resisti. Resisti solo un altro po'.»
«Non ce la
faccio!» E
gridò di nuovo, schiacciando la testa contro il cuscino che
la sosteneva, gli occhi e i pugni serrati.
James ispirò a fondo e appoggiò la mano sulla
sua, stringendole come poté le dita sottili e sudate tra le
proprie, mentre continuava a guardare fuori dall'angusto finestrino nel
tentativo di orientarsi, di capire quanto ancora ci sarebbe voluto per
raggiungere l'ospedale. Imprecò tra i denti, mentre sotto i
suoi occhi non facevano che comparire asfalto, macchine e ancora altro
asfalto e si sporse di lato, allungandosi alla meglio verso l'autista:
«Ehi, ehi! Ci vuole ancora molto?»
«James…»
«Va tutto bene, Kate, va tutto benissimo.»
Tornò a guardarla un momento e, con la mano libera, le
sfiorò la guancia sudata. «Stiamo arrivando, te lo
prometto.» E poi aggiunse, a voce più alta,
rivolto all'autista: «Allora? Non credo che
resisterà ancora per molto!»
L'uomo non gli rispose e scosse il capo, sbuffando, mentre il
paramedico seduto accanto a lui si voltò a guardarlo con un
grande sorriso che voleva essere d'incoraggiamento: «Non
preoccupatevi, siamo praticamente arrivati. Bruciamo un semaforo rosso
e siamo in ospedale.»
«Me lo auguro per voi,» gli rispose, tra i denti,
mentre un altro grido riempiva l'ambulanza, coprendo la sua voce.
Kate allentò un momento la stretta al suo braccio ed
espirò forte, iniziando a sbuffare e cercando di tenere gli
occhi aperti, mentre una lunga lacrima le attraversava il viso,
scorrendole sulla guancia arrossata. «Non doveva andare
così,» mormorò, iniziando a
singhiozzare. «Non doveva
andare così!»
«Lo so, Kate, lo so.» Le asciugò il viso
con un polpastrello e le strinse il mento, guidandola dolcemente in
modo che lo guardasse negli occhi. «Ma ora come ora, non
possiamo farci niente.»
«Non doveva…»
«Lo so,» ripeté, iniziando a sentire un
nodo alla gola che sapeva fin troppo bene da dove stava arrivando. Lo
cacciò via alla meglio, e scosse il capo, imponendosi di
sorriderle: «Ma non possiamo mollare adesso, tu
non puoi mollare adesso.»
«Fa male.»
James chiuse gli occhi ed inspirò di nuovo, quando il senso
profondo di quelle parole lo colpì direttamente nel petto.
«Lo so, lo so»
– ormai quelle due semplici parole erano diventate il suo
mantra – «Ma tu devi farti forza, Kate, solo per un
altro po'.» Inspirò, sentendo il nodo che aveva in
gola stringersi con più forza. «Pensa e te stessa,
Kate, pensa al bambino.» La vide appoggiare una mano sul
ventre rigonfio e poi tirarla via di scatto, come se bruciasse. Le
strinse le dita con più forza: «Pensa solo a lui,
adesso. A lui e a nessun altro.»
Lei singhiozzò, stringendogli la mano a sua volta.
«Lo faccio, James. Ogni secondo.»
«Lo so.»
«Ehi, voi lì dietro?» Entrambi
sollevarono la testa come poterono e il paramedico si voltò
a guardarli. «Siamo arrivati.»
Quando l'ambulanza si fermò e James vide le porte aprirsi
davanti a loro si prese un solo, brevissimo istante per tirare un
sospiro di sollievo. Grazie a Dio.
Jack non si prese nemmeno un secondo per tirare un sospiro di sollievo,
né per guardare i suoi collaboratori e le infermiere che,
invece, lo scrutavano stanchi e con gli occhi lucidi, e neppure avrebbe
perso tempo per sbattere le palpebre, se non gli fosse stato
indispensabile: continuava a muovere la mano senza sosta, osservando
con gli occhi spalancati l'ago entrare e uscire dalla pelle e il filo
nero che, di secondo in secondo, guadagnava terreno e rilegava insieme
i lembi della ferita.
Nessuno parlava. Jack tirò l'ago, strattonandolo appena e,
quando il filo fu annodato a dovere e tagliato, si allontanò
di scatto, come se passare un altro solo istante accanto a quel corpo
avrebbe potuto causare guai irreparabili.
Altri guai irreparabili.
Guardò la schiena nuda della ragazzina stesa sul suo tavolo
e rilasciò l'aria che non si era reso conto di aver
trattenuto, senza nemmeno accorgersi dell'infermiera che gli si era
avvicinata fino a che non sentì la sua mano gentile
appoggiata sul suo braccio. Si voltò a guardarla.
«È finita, dottore,» sussurrò
lei, dolcemente, e Jack, finalmente, chiuse gli occhi.
«Grazie,» mormorò, dopo un momento,
appoggiandosi contro un carrello traballante. Era troppo stanco per
sollevare gli occhi verso l'orologio per sapere esattamente quanto
tempo era durato quell'intervento, ma quelle ore – dieci?
Tredici? Quindici? – se le sentiva addosso come un peso
insopportabile, un fardello di cui non sarebbe mai più
riuscito a liberarsi. Ma andava bene così: la ragazza era
salva, null'altro contava.
Si leccò le labbra secche e annuì, rivolto a se
stesso, imponendosi di resistere ancora un altro po'.
«Bene,» disse, a voce alta, lasciando che un
sorriso stanco salisse ad illuminargli il volto. «Bene.
Possiamo riportarla in camera e dire finalmente ai suoi genitori che,
se tutto è andato a dovere, la loro bambina potrà
ricominciare a camminare.» E rise, lasciando che la testa gli
ricadesse sul petto, rise di sollievo mentre un leggero applauso
riempiva la stanza e la ragazza veniva adagiata dolcemente sul lettino,
pronta per uscire. Si passò il dorso della mano sulla fronte
e, mentre usciva a sua volta, si liberò del camice e dei
guanti insanguinati e spintonò la porta con la spalla, come
se non si fidasse della forza delle proprie braccia.
Quando uscì dalla sala operatoria, ad accoglierlo c'era la
luce abbagliante che si infrangeva contro i muri bianchissimi del
corridoio e una coppia di persone, strette l'una all'altra, che lo
guardavano con grandi e lucidi occhi imploranti. Si avvicinò
con passo lento, fermandosi a pochi passi da loro. Quando li
guardò in viso, sentì qualcosa muoversi nel suo
petto e, per un lunghissimo istante, non riuscì a dire una
parola.
«Allora?» sussurrò la donna dopo un
istante, aggrappandosi con tutte le sue forze al braccio del marito.
«Come sta?»
Jack si concesse solo un'altro secondo per guardarli e poi
chinò il capo, appena, allargando le braccia:
«Durante l'intervento sono sorte alcune complicazioni,
ma…»
«Complicazioni?» sbottò l'uomo,
allarmato. «Quali complicazioni? È andata male?
Non…» Tacque un momento, stringendo con forza le
mani della moglie nelle proprie. «Cos'è successo a
nostra figlia, dottore?»
Jack allungò le mani avanti a sé e scosse il
capo, come se solo in quel momento si fosse reso conto di quanto il suo
silenzio li aveva fatti spaventare. «Vi prego, calmatevi.
Come vi stavo dicendo, sono sorte alcune complicazioni in itinere, ma
sono… siamo riusciti a
limitare, per non dire annullare del tutto eventuali danni alla sua
spina dorsale. Alla fine,» spiegò, lasciando che
le sue labbra si allargassero in un sorriso, «è
andato tutto per il meglio. Vostra figlia starà
benissimo.»
Li vide illuminarsi e guardarsi negli occhi e poi la donna
iniziò a singhiozzare, nascondendo il viso contro la spalla
dell'uomo che restituì a Jack uno sguardo ricolmo di
gratitudine: «Quindi… quindi potrà
camminare? Potrà camminare davvero?»
Jack annuì. «Ci sarà bisogno di un
periodo di riabilitazione e di molta fisioterapia, naturalmente, ma
siamo fiduciosi che, a breve, potrà tornare a camminare
senza problemi.»
«Oh, mio Dio!»
«Grazie, dottore, grazie davvero. Questo… questo
è un miracolo!»
Jack allungò la mano e l'appoggiò sulla spalla
della donna, stringendola con decisione. «Ho fatto
solamente…»
«Dottor Shephard!»
I tre sollevarono la testa e si voltarono verso il fondo del corridoio,
da cui era spuntata una giovane infermiera con i capelli scomposti e il
viso stravolto. «Dottore!» Esclamò,
quando gli fu accanto e Jack inarcò un sopracciglio.
«Che succede, Mary?»
Lei sollevò i suoi grandi occhi azzurri verso di lui e
boccheggiò qualcosa, cercando di immagazzinare aria.
Mormorò una manciata di parole incomprensibile e poi tacque
ancora, inspirando a fondo. «Sua moglie,»
riuscì a dire, infine.
«Mia moglie?» Ripeté, allarmato,
incapace di staccare gli occhi dalla giovane donna.
«Cos'è successo?»
«Sì, lei sta… sta partorendo.
Adesso.»
Jack spalancò gli occhi, iniziando a boccheggiare a sua
volta, e guardò la coppia che iniziò a ridere,
davanti alla sua espressione. «Vada,» gli
sussurrò la donna, appoggiando la sua mano su quella che lui
ancora teneva sulla sua spalla. «Per noi ha già
fatto abbastanza.»
«Io…»
L'uomo rise più forte e gli diede un colpetto alla schiena:
«Su, corra! Non se lo vorrà mica perdere,
vero?»
E questa volta, non se lo fece ripetere.
Kate gridava con così tanta forza che lui arrivò
perfino a domandarsi come fosse possibile immagazzinare così
tanta aria nei polmoni. Non aveva staccato gli occhi da lei per un solo
secondo, da quando erano scesi dall'ambulanza, e anche adesso, mentre
percorrevano il lungo corridoio del reparto di corsa, continuava a
cercarla con lo sguardo sul suo lettino, benché fosse
circondata da così tanti medici e infermieri che gli era
quasi impossibile intravederla.
Dovette rallentare di colpo quando tutti, improvvisamente, svoltarono a
sinistra e poi subito a destra, facendola entrare in una stanza, e poi
la sistemavano su un lettino accanto ad alcuni macchinari. Lui si
fermò sulla porta, il fiato corto e gli occhi sempre puntati
su di lei, stravolto. Deglutì, come poté, e
abbassò il viso mentre le infermiere si affaccendavano per
prepararla, sentendosi all'improvviso terribilmente a disagio; aveva
ragione lei, non sarebbe mai dovuta andare così.
«Mi scusi?»
Si voltò, di scatto, nel sentire una voce di donna alle sue
spalle, accompagnata da una mano appoggiata con decisione sul suo
braccio. Fece quasi un balzo indietro e si sentì quasi
soffocare dalla sua stessa aria: «Cosa?»
La donna scosse il capo e, con la mano, gli fece cenno di levarsi.
«Devo entrare,» gli disse, sbrigativa.
Lui la guardò per un lungo istante – piccola,
tarchiata, camice bianco e aria decisamente poco divertita –
e poi spostò lo sguardo dentro la stanza. Scosse il capo,
passandosi una mano tra i capelli. «Mi scusi lei,
prego,» e si fece da parte, lasciandola passare. La donna
entrò, senza più voltarsi e si
avvicinò al letto, raccogliendo poi dal comodino una
cartellina metallica che studiò brevemente, prima di
sollevare gli occhi verso Kate.
Improvvisamente, sorrise. «Allora, signorina Austen,
è pronta?»
James ebbe un fremito al sentire come si era addolcita la sua voce, ma
Kate parve non farci caso. Scosse il capo, stringendo con forza le
labbra. «È troppo presto,»
mormorò, terrorizzata. «Sono solo all'ottavo mese,
è troppo presto.»
La donna scosse il capo, paziente, e si chinò verso di lei,
sparendo per una manciata di secondi sotto il suo camice. Quando si
sollevò di nuovo non parlò subito e rilesse
nuovamente la cartellina, velocemente, studiando alcune immagini.
Annuì un paio di volte e, quando Kate gridò di
nuovo per il dolore, tornò a concentrare su di lei tutta la
sua attenzione. Le sorrise, questa volta con decisione: «Il
suo bambino è già formato e pronto per nascere,
signorina Austen e lei è già troppo dilatata
perché noi si possa intervenire chimicamente.»
Fece una breve pausa e la guardò dritta negli occhi.
«È arrivato il momento e lei può
farcela, Kate.»
Lei scosse il capo e strinse le mani attorno ai braccioli, inspirando a
fondo. «Ho paura.»
La donna annuì: «Certo che ce l'ha,» le
disse. «Ma lei è forte, e lo sa benissimo, ed
è pronta ad avere questo bambino.» Kate scosse di
nuovo il capo e gridò ancora, tanto che la donna dovette
alzare la voce per farsi sentire: «Mi ascolti, Kate, ora io e
lei inspiriamo a fondo, contiamo insieme fino a cinque e poi spingiamo.
È pronta?»
Ma Kate non l'ascoltava più. Con gli occhi spalancati
voltò il viso lentamente, verso la porta, dove
incontrò la figura sfatta e stravolta di James che
ricambiava il suo sguardo con altrettanta paura. La dottoressa
voltò il viso a sua volta e poi scosse il capo, mormorando
qualcosa a bassa voce.
«Ha bisogno che il padre stia qui con lei?» le
chiese alla fine e quando James, fuori dalla porta, sospirò
e allargò le braccia, Kate sentì prepotenti le
lacrime premere contro i suoi occhi e scivolarle copiose sulle guance.
«Jack…»
«Grazie a Dio, Jack!»
La donna stesa supina sul lettino gridò, quando lo vide
entrare di corsa nella grande stanza, e sollevò il viso e
una mano verso di lui, guardandolo con gli occhi rossi ricolmi di
lacrime. Quando le fu vicino, Jack le strinse le dita con forza,
tenendola saldamente nella sua presa mentre, con l'altra mano, le
accarezzava il viso sudato, scostandole i capelli biondi dalla fronte.
«Sono qui, Juliet.»
La donna annuì, sollevata, e rise, quando lui
appoggiò la fronte contro la sua. «Grazie a Dio ce
l'hai fatta.» La sua voce fu spezzata da un singhiozzo e lei
gli accarezzò a sua volta una guancia coi polpastrelli,
delicatamente. «Non potevo farlo. Non senza di te,
Jack.»
Lui annuì, greve, sollevandosi appena e la guardò
dritta negli occhi verdi, cercando con il proprio sguardo di infonderle
la forza di cui aveva bisogno. Scosse il capo.
Verdi? Sbatté le
palpebre, tutto ad un tratto infastidito dalla luce e si
voltò appena, mentre sentiva che la stanchezza iniziava a
farsi strada dentro di lui e ad offuscargli la mente. Si
passò una mano in fronte, aggrottando le sopracciglia, e
dopo un istante lei scosse appena il braccio, richiamandolo a
sé. «Jack?» lo chiamò, con un
filo di voce. «Va tutto bene?»
Lui tornò a guardarla quasi come se fosse stato colto di
sorpresa e poi le sorrise, stringendole con più forza le sue
dita tra le proprie. «Io sono qui,»
ripeté. «Sono qui, e non vado da nessuna
parte.»
«Se ora sei pronta, credo che sia arrivato davvero il momento
di iniziare a spingere, Juliet.»
Entrambi si voltarono all'unisono verso la dottoressa, una piccolina
tarchiata e coi capelli scuri, che restituì loro un sorriso
incoraggiante e poi tornarono a guardarsi negli occhi, trovandosi
più stanchi di come si erano lasciati soltanto un secondo
prima.
«Siamo pronti, Jack?» chiese lei, la voce ferma
nonostante il dolore e, per un istante, quando sentì una
lunga fitta artigliarle il ventre, le balenò nella mente il
pensiero che ci fosse qualcosa di terribilmente sbagliato in quella
situazione. Cercò gli occhi di suo marito e, per quel lungo
momento in cui il dolore fece il suo corso, rimase inebetita, incapace
di capire perché la sua presenza accanto a lei non riusciva
ad infonderle quella sicurezza che aveva provato soltanto alcuni
istanti prima. E poi, improvvisamente, mentre il dolore scemava,
scomparirono anche quei pensieri, come se non fossero mai realmente
esistiti.
Jack chinò il capo da un lato, quando vide la sua
espressione trasformarsi in una maschera di dubbio e paura e quando si
fu calmata di nuovo le accarezzò nuovamente il viso,
disegnando col pollice dei cerchi sul suo zigomo, e annuì,
cercando di riportarla lì con sé.
«Sì, Juliet, siamo pronti. Tutti e due.»
Lei sorrise e le scappò una lacrima sulla guancia, mentre
tornava a stendersi sul lettino. Inspirò a fondo e
finalmente, quando sentì che Jack le aveva stretto le dita
anche con l'altra mano, iniziò a spingere con tutta la forza
che aveva in corpo, mentre tutto il suo corpo era sopraffatto dal
dolore più lancinante che avesse mai provato in tutta la sua
vita.
Nella stanza, adesso, c'era solo silenzio.
James si sedette più comodamente sulla sedia che aveva
sistemato accanto al lettino e si passò una mano tra i
capelli, esausto. Se chiudeva gli occhi, riusciva ancora a sentire le
urla di Kate che gli riempivano la testa, inframmezzate con le
incitazioni e gli ordini imperiosi della dottoressa e i pianti
assordanti del bambino che, vista la fretta con cui era venuto al
mondo, sembrava avesse davvero una gran voglia di nascere.
La donna se n'era andata alcuni minuti prima, dopo aver controllato che
sia la madre che il piccolo stessero bene e gli aveva stretto la mano,
quando l'aveva accompagnata sulla porta, congratulandosi con lui. James
non le aveva risposto; aveva scosso il capo e abbassato il viso e poi,
quando lei fu uscita, si era sistemato su quella sedia, cercando di
riprendere un po' di fiato, prima di tornare a casa.
Si passò una mano sulla bocca e si voltò appena,
intravedendo con lo sguardo il fagottino stretto tra le braccia magre
di lei e sospirò. Non voleva restare troppo a lungo, eppure
una parte di lui non se la sentiva proprio di abbandonare Kate adesso
che era così fragile. Allungò le gambe e
buttò la testa all'indietro, incrociando le braccia al petto
e chiuse gli occhi pensando che, forse, non sarebbe stato affatto male
farsi un riposino.
«È bellissimo.»
James sbatté le palpebre e si voltò verso il
lettino, rimanendo ad osservare la giovane donna che, con dita
tremanti, scostava appena la copertina per poter vedere il faccino di
suo figlio. Si raddrizzò e scosse il capo, puntellandosi sul
pavimento con i talloni. «Sei già
sveglia?» Lei annuì. «Dovresti riposare,
Lentiggini, la dottoressa ha detto che non puoi assolutamente far
fatica.»
Kate fece segno di no con la testa, senza staccare gli occhi dal
bambino. «Lo so, ma non riesco a dormire.» Fece una
pausa ed inspirò a fondo, togliendosi una ciocca di capelli
dal viso. «Gli somiglia.»
James si alzò in piedi e fece un passo nella sua direzione,
chinandosi poi a sua volta verso il piccolo e cercando il suo viso tra
le pieghe della coperta. Sul suo volto apparve un sorriso amaro. Aveva
i capelli fitti e scuri e gli occhi, che riusciva ad intravedere appena
attraverso le palpebre strette, erano di un verde chiaro appena
screziato di castano. «Hai ragione,» disse.
«Gli assomiglia.»
I due rimasero in silenzio per un lunghissimo momento e poi Kate,
finalmente, si voltò a guardarlo, anche se solo per un
brevissimo istante. «Grazie, James.»
Abbozzò un sorriso. «Grazie per non avermi
lasciata sola.»
James scrollò le spalle e cercò di ridacchiare.
«Be', non ci possiamo fare niente se mi sei crollata
praticamente addosso e Miles è svenuto appena ti si sono
rotte le acque.»
Anche Kate rise, e la risata riecheggiò leggera nella
stanza, spegnendosi però quasi subito, come se entrambi
fossero troppo provati per indugiare anche su una semplice risata. Lei
chinò il capo nuovamente verso il bambino e gli occhi le si
illuminarono quando gli accarezzò una guancia. James la
osservò in silenzio per un lungo momento e poi
allungò la mano a sua volta, sfiorando brevemente il viso
del bambino con un polpastrello. «Allora, come hai intenzione
di chiamarlo?»
Kate piegò il capo da un lato e strinse le labbra.
«Non ci ho ancora pensato,» ammise, mentre il suo
viso si rabbuiava. «Credo di aver sempre sperato che alla
fine lui…» e si interruppe, scuotendo il capo e
tenendo gli occhi bassi.
James distolse lo sguardo e inspirò a fondo, cercando di
scacciare quella brutta sensazione che si sentiva addosso.
«Be', Lentiggini, siamo al capolinea, adesso,»
disse, cercando di mantenere un tono di voce sereno. «Puoi
pensarci adesso.» Fece una pausa. «Se
può servire, suo padre si chiamava
Christian…»
«David,» disse lei, tutto a un tratto, come colpita
da una folgorazione. Sollevò il mento e cercò
James con lo sguardo, come se sul suo viso potesse trovare l'origine di
quel lampo che aveva sentito attraversarla da capo a piedi.
Lui aggrottò le sopracciglia e poi annuì,
scostandosi i capelli dal viso. «Be', sì. Anche
David è un bel nome.»
Kate abbassò nuovamente lo sguardo su suo figlio e socchiuse
le labbra in un sorriso quando lui le strinse la manina attorno al dito
con cui lei gli stava accarezzando il faccino. Sentì un nodo
stringersi nella sua gola e una lacrima attraversarle la guancia,
mentre il bambino la guardava negli occhi, ricolmo di speranza.
«David,» ripeté, quando alla prima
lacrima se ne aggiunse un'altra. Lo sollevò tra le braccia e
si chinò a sua volta verso di lui, andandogli incontro, e
gli posò un leggero bacio sulla fronte corrucciata:
«Benvenuto al mondo, David Shephard.»
Juliet era esausta.
Appoggiò la testa contro il cuscino e chiuse gli occhi,
stringendo tra le braccia il piccolo che, dopo aver urlato e pianto a
pieni polmoni per una manciata di interminabili minuti, si era
finalmente placato e adesso se ne stava tranquillo, appoggiato contro
il suo petto. Dopo un breve momento, sollevò lo sguardo
verso Jack che, sulla porta, salutava la dottoressa, confermandole che
avrebbe impedito a Juliet anche di pensare, se sarebbe servito per non
affaticarla troppo.
La dottoressa rise, appoggiandogli una mano sul braccio.
«Congratulazioni, Jack, è un bambino
meraviglioso.» Allungò lo sguardo verso la camera
e sorrise a Juliet. «Complimenti a tutti e due, di
cuore» e se ne andò, lasciandosi la porta
socchiusa alle spalle.
Jack si voltò verso l'interno della stanza con
un'espressione raggiante in viso e si avvicinò al lettino,
senza distogliere lo sguardo da lei e dal piccolo che teneva in
braccio. Si chinò appena per lasciare un bacio sulle sue
labbra e poi, con un dito, tracciò il profilo della guancia
del bambino che, di tutta risposta, mosse il viso, facendo una
smorfietta.
Juliet rise e sollevò il viso verso di lui. «Ti
somiglia.»
Jack rimase immobile, lo sguardo perso in quello verde chiaro della
creatura che aveva sotto gli occhi e non poté fare a meno di
sorridere a sua volta. Strinse le labbra. «Dici?»
Lei annuì. «Siete identici, Jack.»
L'uomo sorrise, come se quelle tre semplici parole l'avessero liberato
di un peso insopportabile e si sedette accanto a Juliet sul letto,
accarezzandole il viso stravolto. Lei gli sorrise e sollevò
le braccia, porgendogli il fagottino. «Vuoi prenderlo in
braccio, Jack?»
Lui la guardò per un lungo istante e poi, delicatamente,
fece passare le braccia tra quelle di lei, raccogliendo il bambino e
portandoselo al petto. Si alzò in piedi, senza smettere di
guardarlo, e fece qualche passo, cullandolo appena.
Juliet si fece forza sulle braccia e si sollevò,
riempiendosi gli occhi della vista che aveva davanti. Si
passò una mano sul viso, asciugandosi una lacrima e si
strinse con forza le mani in grembo, mentre sentiva dentro di
sé una gioia smisurata, una completezza che non credeva
avrebbe mai provato.
Guardò gli occhi, il sorriso di Jack e in quel momento le
sembrò di non averlo mai visto sorridere davvero. Si
schiarì la voce, per richiamare la sua attenzione e Jack si
voltò, tornando verso di lei.
Juliet si strinse nelle spalle, senza smettere di sorridere.
«Allora, Jack, come lo chiamiamo?»
Lui aprì la bocca per parlare e si volse di nuovo verso il
piccolino, le sopracciglia aggrottate. Scosse il capo, appena e si
strinse nelle spalle; poi, dopo alcuni attimi, il suo viso si
rischiarò e tornò a sorridere come alcuni istanti
prima. «David,» disse. «Vorrei chiamarlo
David.»
Juliet sbatté le palpebre e si accarezzò il viso,
scostandosi una ciocca di capelli biondi che le era caduta sugli occhi.
«Mi avevi detto che volevi chiamarlo come tuo
padre.»
Jack annuì. «Lo so. Volevo farlo,
ma…» Sollevò il bambino, tenendolo
più saldamente. «Lui è
David.»
Juliet sorrise con lui e annuì, sollevando il busto per
vedere meglio e allungò un dito per accarezzargli il viso
arrossato. «David è un bellissimo nome.»
Jack si spostò di lato, mettendo il piccolo sotto la luce
del sole e lo guardò; in un solo, brevissimo istante i suoi
occhi divennero lucidi e una sola, piccola lacrima gli
attraversò il viso. «David,»
ripeté. «David Shephard.» Si
chinò verso di lui, appena, e gli lasciò un
leggerissimo bacio sulla fronte, tornando poi a guardarlo con gli occhi
pieni di gioia e orgoglio. «Benvenuto al mondo, figlio
mio.»
____________________________________
N/A
Sebbene mi piacerebbe prendermene completamente il merito, la
verità è che questa storia è nata
quasi due mesi fa, alcuni giorni dopo il finale di Lost, nella mente di
Sonia, mia sorella che, quando ha
finito di raccontarmi la sua idea, mi ha chiesto di scriverla, per lei.
Le linee guida che mi ha dato erano molto semplici: tutto quello che
voleva era una scena in cui ci fossero James e Kate all'ospedale, con
lei sul punto di partorire, a cui veniva chiesto se non desiderava che
il padre - che i dottori pensavano a torto essere James - stesse
lì con lei. "Il resto, fai
tu." E come disse Garibaldi: "Obbedisco!"
La sua idea originale, che io trovo molto bella, era che in qualche
modo David - o una sua manifestazione - sia passato nell'Alt, un po'
come Ji Yeon, dando modo a Jack di poter crescere quel figlio che non
sapeva nemmeno di aspettare. E naturalmente, nonostante non fossero
parte integrante del progetto originale, conoscendomi avrete
già capito che James e Juliet non sono i figli del caso. (;
Ad essere onesta, avrei così tante cose da dire su questa
storia che scriverei un trattato lungo almeno quanto la storia stessa,
quindi è il caso di fermarmi qui. ^^"
Mentre scrivevo il pensiero è andato, come sempre, alle mie
EFPine Lostiane (Fede,
Ila,
Là e
Sil), poiché spero sempre
che vogliate perdere un po' del vostro tempo a leggere le mie
schifezzuole, ma in questo caso la dedico quasi interamente a
Sonia, colei che l'ha pensata e che
mi ha fatto passare serate, con la musica nelle orecchie, ad
arrovellarmi il cervello per capire come rendere al meglio la
bellissima trama che mi ha suggerito.
Amore mio, spero di tutto cuore di esserne stata all'altezza, ma se non
ti fosse piaciuta... be', trovati un'altra scribacchina!! ;P
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