Every step you
take
Berlino, d’inverno, era stupenda. Non che d’estate
o nel resto dell’anno non lo fosse, solo che
d’inverno assumeva quelle tinte cupe che gli ricordavano
tanto lei. Lei che, una volta, gli aveva detto: “Amo
l’inverno. Le tinte scure, il freddo, le coperte pesanti, i
pullover. L’estate mi mette l’ansia”.
Dalla finestra della stanza, il ragazzo poteva scorgere i passanti
imbacuccati in lunghi ed ingombranti cappotti, avvolti da sciarpe dei
più svariati colori, sommersi da pacchetti che, presto,
avrebbero trovato riparo sotto l’albero di Natale. Chi
correva, chi si fermava a fare l’elemosina a qualche povero
disgraziato, chi imprecava contro il tempo che, sotto le feste,
sembrava non bastare mai, chi sorrideva.
Si allontanò dalla sua postazione e, perso nei suoi
pensieri, raggiunse il fratello in sala. Lo trovò steso sul
divano, con il telecomando in mano ma mezzo addormentato.
“Che guardi?”
“Boh” mugugnò il rasta “Un
film, non so cosa sia”
Bill si lasciò cadere sulla morbida poltrona scura,
posizionata accanto al divano della medesima tinta e, giocando con una
ciocca di capelli, cercò di concentrarsi sulla trama del
film. Un ragazzo cercava, disperatamente, di rintracciare una ragazza
che aveva conosciuto su un treno, in viaggio per Madrid.
Pensare a lei fu inevitabile. A dire il vero, ogni cosa gli ricordava
lei, ogni gesto, ogni parola, ogni canzone, ogni profumo. Se vedeva un
bambino, pensava a lei e al suo smisurato amore per il nipote, se
sfogliava un giornale, la vedeva fra i sorrisi delle modelle che lo
osservavano dalle pagine patinate, se accendeva la radio, temeva di
sentire quella canzone che aveva fatto da colonna sonora al loro addio.
Aveva smesso di soffrire, non pensava più a lei con rabbia,
ma questo non significava che avesse smesso di pensarci. Era come
cercare di nascondere l’evidenza, come convincere
l’intera razza umana che il mondo fosse piatto. Lei era
semplicemente un pensiero costante, nulla di più, nulla di
meno. Un pensiero costante.
Il Natale imminente, poi, non faceva altro che peggiorare la
situazione. Le decorazioni, la città addobbata a festa, il
rito dello scambio dei regali, il bacio sotto al vischio. Quel bacio
che per loro non ci sarebbe stato. Nemmeno la settimana che aveva
trascorso con il fratello alle Maldive lo aveva rigenerato,
perché senza di lei si sentiva perennemente vuoto. Forse
all’aeroporto, tre mesi prima, aveva mentito, forse non era
vero che aveva capito la sua decisione, ma non voleva farla andare via
in malo modo, non voleva separarsi da lei con astio, fare la parte del
duro senza cuore.
“Non potevo farti andare via senza dirti che ho
capito. Ho capito quello che volevi dirmi, Lea. E mi spiace di non
avertelo detto prima, di averti lasciata andare via stamattina. Avremmo
potuto trascorrere la nostra ultima notte diversamente, invece di
urlarci addosso. Io ho capito. E adesso so quanto ti costi andare
via”
Non aveva capito, per niente. Cosa poteva essere la distanza, se ad
unirli c’era l’amore? Che paura poteva fare qualche
chilometro? Se c’era la fiducia, cosa c’era da
temere?
Forse non si fidava abbastanza di lui oppure non si fidava abbastanza
di sé stessa.
“E’ facile per te! Ma a me non pensi? A
Roma ad aspettarti, senza sapere cosa cazzo fai, dove sei e soprattutto
con CHI sei!” gli aveva detto, la sera prima della
sua partenza.
Forse il punto era quello. Lei non si fidava di sé stessa,
temeva di non essere all’altezza, di non essere abbastanza.
“Ma tu sei abbastanza. Io non chiedevo altro che
te” pensò il ragazzo, sempre tenendo lo sguardo
fisso sullo schermo del televisore.
“Hai fame?”
Sul subito, Bill non udì la voce del gemello. Solo quando si
ritrovò un cuscino in faccia, si destò e lo
guardò con espressione corrucciata “Sei
pazzo?”
“Ti ho chiesto se hai fame”
“No, non ho fame”
“Io sì. Ti va di uscire? Andiamo da
McDonald’s, andiamo in qualche trattoria, andiamo dove ti
pare, ma usciamo. Sto impazzendo, chiuso in casa”
“Io sto bene, in casa”
“Ho bisogno di uscire, Bill. Non ho intenzione di trascorrere
il resto delle vacanze tappato qui, come fai tu! Da quando siamo
tornati dalle Maldive, non hai messo piedi fuori da questo
appartamento. Come cavolo fai?”
“Mi godo il meritato riposo, ecco come faccio”
rispose Bill, torturandosi un labbro con i denti.
“Sei esaurito” commentò il rasta,
mettendosi a sedere e stropicciandosi gli occhi.
“Non sono esaurito, sono solo stanco! Non ci siamo fermati un
attimo, quest’anno. E questo è l’unico
periodo che abbiamo per rilassarci, per stare in pigiama tutto il
giorno se ci va, per dormire, per…”
“Magari per divertirsi, no?”
“Il tuo senso del divertimento non sempre collima con il
mio” sibilò Bill.
“Non puoi chiuderti in convento per lei, lo sai?”
insinuò Tom, squadrandolo.
“E cosa c’entra lei, adesso?”
Da tre mesi non pronunciava il suo nome. Mai. Era solo "lei".
“C’entra eccome! Non posso pensare che tutto
d’un tratto, tu sia diventato un vegetale così,
per puro caso!”
“Non sono un vegetale, Tom!”
“Certo, tu cammini. Ecco l’unica differenza fra te
e quell’albero lì” disse Tom, indicando
la pianta che troneggiava al centro del loro giardino e che, dalla
portafinestra del salotto, vedevano benissimo.
“Lei non c’entra nulla, ti sbagli. E’ una
storia finita, da un pezzo”
“Puoi darla a bere a chi vuoi, ma non a me, Bill. Sei un
libro stampato, per me. Ma, se solo mi dai retta una volta, guardati
attorno. Ci sono migliaia di ragazze disposte a tutto pur di passare
una serata con te. Non ti sto dicendo di uscire e farti tutto quello
che respira, ma almeno provaci. Stasera vieni con me e Georg, andiamo
in quel pub che hanno aperto da poco. Una serata in compagnia non ti
farà di certo male”
“Tom, non mi sto chiudendo in convento e non mi sono votato
alla castità! Sto bene così, in questo
momento” sbuffò Bill.
“Fai come ti pare, ma non pensare che io ti creda. E
dimenticatela, più presto che puoi” concluse Tom,
per poi alzarsi dal divano e dirigersi verso il bagno, grattandosi la
testa con una mano e sbadigliando.
Dimenticarla era impossibile. Certo, avrebbe sicuramente trovato
un’altra ragazza alla quale avrebbe dato tutto
l’affetto e le attenzioni che poteva, ma lei avrebbe fatto
capolino dagli angoli più remoti della sua mente, per
sempre. Non era semplice dimenticarsi di qualcosa di così
travolgente e puro. E non era semplice dimenticarsi il suono della sua
risata o il brivido che aveva provato sentendo la sua pelle chiara sul
petto.
Ricordava ancora, dopo anni, film bellissimi che aveva visto con la
madre, o libri fantastici che aveva letto durante gli innumerevoli
spostamenti con la band. Alla luce di questo, come avrebbe fatto quindi
a scordarsi di qualcosa che aveva accarezzato solo qualche mese prima?
Ci sono sapori che restano incollati al palato per ore, odori che non
se ne vanno dalle narici per settimane e persone che ti entrano nel
cuore e non se ne vanno più.
**
Il sole d’inverno, per Lea, era un controsenso.
D’inverno era tutto più scuro, tutto
più buio, proprio come piaceva a lei e quel sole, ostinato
come un ribelle d’altri tempi, cercava continuamente di
sconfiggere l’oscurità facendosi spazio fra le
nuvole nere. Coraggioso sole, più di quanto non lo fosse
stata lei, tre mesi prima. Vagò con lo sguardo per tutta la
stanza, fino a quando i suoi occhi non scorsero quel foglietto bianco,
diligentemente posato sulla scrivania accanto ad una rosa. Quella rosa.
Ripensò a quella mattina, quando si era risvegliata accanto
a lui per la prima volta e tutto sembrava così facile. Il
cameriere aveva portato loro la colazione e una rosa rossa, che lui le
aveva regalato.
“Ci hanno portato anche il regalo”
le aveva detto, lui, porgendogliela.
Lea si avvicinò alla scrivania e prese in mano il foglio.
L’aveva consumato a furia di leggerlo, nonostante vi fossero
scritte solo quattro parole. Lo aveva stretto a sé, ci aveva
pianto sopra, lo aveva anche baciato, annusato, accarezzato, centinaia
di volte in quelle settimane e ogni volta che lo faceva, prometteva a
sé stessa di non guardarlo più, di chiuderlo in
un cassetto e scordarlo. Ma la tentazione era troppo forte per potervi
resistere. Così aveva deciso di lasciarlo lì,
dove stava in quel momento, accanto a quella rosa ormai secca, ma che
portava con sé un ricordo indelebile.
Si domandava spesso cosa stesse facendo lui. Con chi stesse parlando,
cosa stesse mangiando, guardando, ascoltando. Chissà se
dormiva ancora nella stessa posizione, se al mattino gli piaceva ancora
rotolarsi fra le coperte prima di alzarsi, se si stropicciava gli occhi
nella stessa maniera, se il suo sorriso era lo stesso. Eppure, aveva
fatto tutto lei. Lei se ne era andata, lei lo aveva lasciato e lei
adesso pensava a lui con le lacrime agli occhi.
Marie bussò alla porta, interrompendo quel carnevale di
ricordi.
“Posso?” chiese, aprendo l’uscio.
“Sì, vieni” rispose Lea, asciugandosi
frettolosamente una lacrima “Entra”
Marie fece qualche passo verso la sorella.
“Tutto bene?”
“Sì, sì. Perché?”
“Sei… strana” balbettò Marie.
“Sto bene. Ma dubito che tu sia venuta in camera mia solo per
chiedermi come sto”
“No, infatti. Ero venuta a dirti che stasera non ci sono,
esco a cena con Laura. Porto Phil da mamma, dormirà da
lei”
“Ok, io inizio alle 20.00, stasera. Se vuoi, prima di andare
al lavoro accompagno io Phil dalla mamma, sono di strada”
“Ti ringrazio, mi faresti un enorme favore” rispose
Marie, sorridendo “Comunque Lea, perché
menti?”
“Mento?” ripeté Lea, sbigottita
“Mento?”
“Già” disse Marie, annuendo con la testa
“Non stai bene, per niente. Pensavo che dopo la storia di
Parigi, non ci saremmo più dette frottole, o meglio, tu non
me ne avresti più dette, dato che io non ti ho mai
mentito” concluse, lasciando trasparire un leggero sconforto
nel tono di voce.
“Marie” sospirò Lea “Non sto
mentendo. Io sto bene davvero, sono solo soprapensiero ma sto
bene”
“E’ lui che occupa quella tua testolina
dura?” chiese Marie, con tenerezza.
Lea fece cenno di sì con la testa, senza parlare.
“Sei stata coraggiosa, Lea. Non so quante altre persone, al
tuo posto, avrebbero pensato al futuro come hai fatto tu. Molti si
sarebbero persi dietro alla magia del presente, tralasciando quello che
sarebbe stato. Tu invece hai guardato oltre, hai pensato alle
difficoltà di un rapporto a distanza, alla gelosia, ai dubbi
che, prima o poi, vi avrebbero divorato. Ti ammiro, piccola. Io non so
se sarei stata così decisa”
Lea sorrise: “Pensa a come si sarebbe sentito, a come CI
saremmo sentiti ogni volta che ci saremmo dovuti salutare
all’aeroporto, a quante volte avremmo dovuti scambiarci un
bacio attraverso la cornetta di un telefono, festeggiare i rispettivi
compleanni a distanza, abbracciarci solo con le parole. Non sarebbe
stato corretto, per nessuno dei due”
“Ti manca?” chiese Marie, in un soffio.
“Da morire. Ma non ho intenzione di fargli sapere che
è la prima cosa a cui penso quando mi sveglio, sarebbe
meschino da parte mia. Che senso avrebbe ricordargli quanto lo amo?
Passerà, Marie. Passerà…”
E di nuovo, la mente volò a quel giorno
all’aeroporto e alle parole che Bill le aveva detto prima che
lei partisse: “Ma se sentirai la mia mancanza,
cercarmi. Salgo sul primo volo e ti raggiungo, dovunque sei”.
“Mi aveva detto di chiamarlo, se sentivo la sua
mancanza” continuò Lea, guardando la sorella
“Aveva detto che sarebbe salito sul primo volo e mi avrebbe
raggiunta, ovunque fossi stata. Ma non posso chiamarlo, Marie.
Preferisco che pensi che mi sia scordata di lui. Soffrirà,
ma almeno si dimenticherà di me più
facilmente”
“Credi?” rispose Marie, sventolando sotto agli
occhi della sorella il biglietto che le aveva mandato il ragazzo,
qualche settimana prima “Dopo tre mesi, ti arriva questo
biglietto, con queste parole. Non so se lui ti ha dimenticata”
“Tre mesi sono pochi. Abbiamo ancora addosso i rispettivi
odori, Marie. Ci sono dei giorni in cui sento il suo profumo sui miei
vestiti e per quanto possa sembrare banale, ti giuro che è
così. Non avevo idea di come potesse essere
l’amore. Così travolgente, spiazzante, faticoso.
E’ qualcosa di gigantesco, ecco. Gigantesco è la
parola esatta. Vieni catapultato in un mondo parallelo, fatto di pure
sensazioni”
Marie annuiva, con aria sognante.
“In ventitre anni di vita, non ho mai provato nulla di
simile. Mai”
“Sicura che non vuoi ripensarci? Benché ammiri la
tua coerenza, sento il dovere di dirti che forse staresti meglio se lo
sentissi”
“No, sarebbe peggio. Sto bene, Marie, il suo pensiero mi
accompagna ogni giorno. Ci sarà sempre posto per
lui”
“Come vuoi, Lea. Spetta a te decidere”
“Ti ringrazio per la comprensione. Adesso però,
mangiamo qualcosa. Phil avrà fame”
ridacchiò Lea, uscendo dalla stanza seguita dalla sorella e
dall’ombra di… lui.
**
Bene, come avrete capito
"Every step you take" è il seguito di "Dopo di te".
L'ho scritta perchè c'erano ancora un paio di cose che
andavano dette e perchè mi ero smisuratamente affezionata ai
personaggi della Fan Fiction precedente.
Spero tanto vi piaccia. Perdonatemi se posto molto velocemente ma
quando ho i capitoli pronti non mi piace aspettare troppo ^^
Grazie di nuovo a tutte
coloro che leggono le mie storie! *_*
Kate
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