Vivo per un miracolo.
Tutti quanti sapevamo perfettamente che nessuno ne sarebbe mai uscito
vivo.
… Dal Monastero, intendo.
Magari, per un fortuito caso di ottimismo, avevamo nutrito qualche
speranza una volta superata la prima settimana; magari qualche speranza
l’avevamo avuta con la caduta della Borg.
Ma nessuno credeva veramente nel trionfo dei diritti umani.
Avevamo visto cose… sentito suoni… Non
è possibile descriverli, non a mente lucida.
Si crede sempre che non ci sia niente di peggio della morte: grosso
errore.
Il peggio è temere ogni giorno di morire… Il
peggio è pisciarsi nei pantaloni ogni fottutissimo giorno,
sapendo che potrebbe essere l’ultimo.
Per noi era un incubo: speravamo sempre che i monaci ponessero fine
alle nostre sofferenze, ma quando il momento stava per giungere, allora
sognavamo il nostro futuro, e la vita che avremmo ancora potuto avere.
Molti dei bambini non avevano famiglia: orfani, per lo più;
alle volte esposti dalle famiglie.
I più fortunati erano stati bambini fantasma, ed erano
giunti al Monastero per sfuggire alla strada ed alla fame: non avevano
nulla da perdere, ed erano forti della loro brama di sopravvivenza.
Poi vi erano i bambini che venivano strappati dalle famiglie legittime,
i rapiti:
Sergej era tra questi.
Una volta mi aveva confessato di vergognarsi, perché non
ricordava più la voce di sua madre; recentemente io ho
conosciuto suo padre, al suo funerale:
ha pianto sulla mia spalla, ed io gli ho detto che non era colpa sua.
Infatti la colpa era mia…
Non ero riuscito a dire al mio amico quanto avessi bisogno di lui, e
lui, non sapendolo, non si era fatto scrupoli, e si era suicidato.
Sergej era giovane, alto, forte, solido, ma profondamente solo.
Parlava poco, meno degli altri, non si apriva, tentava di non
vacillare: è marcito dall’interno, la sua anima,
pezzo dopo pezzo, si è sgretolata; la bellezza della neve,
per lui, non contava; nessun sorriso, nessun abbraccio
l’avrebbero risollevato.
Era morto in partenza, non potevamo salvarlo… me lo ripeto
sempre, probabilmente per liberarmi dal rimorso.
Forse si drogava, forse si tagliava, non saprei dirlo con certezza:
quando abbiamo trovato il suo corpo appeso al soffitto non abbiamo
avuto la forza di controllare le sue braccia.
Ricordo molto bene la scena – la rivivo ogni notte.
Io e Yurij stavamo cercando Sergej da ore, inutilmente; avevamo bisogno
di lui per spostare tutti i vecchi mobili presenti al monastero:
dovevamo liberare le stanze per rimettere a nuovo
quell’edificio malefico.
Ma Sergej era già in un altro posto, meno malefico spero:
Yurij, vedendolo, svenne.
Io non ricordo più la mia reazione: forse piansi, forse
urlai, forse vomitai. Forse tutte e tre, o forse rimasi impassibile.
Difficile a dirsi, perché tutt’ora provo un
profondo senso di confusione a riguardo.
Non ce ne siamo capacitati inizialmente, e abbiamo impiegato parecchio
a capire cosa avesse portato il nostro compagno a compiere un simile
gesto anche se eravamo liberi da Vorkov e dalla Borg: non avevamo
compreso che il vero incubo era a mala pena cominciato.
Sergej era sempre stato saldo, non aveva mai ceduto quando il Monastero
era ancora in mano ad Hiwatari: sapeva che, se mai fosse crollato,
avrebbe fatto una pessima fine, ed il suo attaccamento alla vita era
troppo forte; tutti quanti volevamo sopravvivere, per dimostrare di
essere forti.
Morire equivaleva a dare ragione a Vorkov. E questo chi poteva volerlo?
Quindi il nostro compagno aveva resistito stoicamente, divenendo
cattivo e muto: né morto né vivo, eseguiva ogni
ordine ed esisteva nel rispetto dei loro
orari… Evidentemente gli andava bene così.
Non era un sovversivo, non era un ribelle: suppongo non avesse le forze
di esserlo.
Ed una volta distrutta la Borg, che gli rimaneva? I suoi genitori non
li trovò, come non trovò il modo di impiegare la
sua vita: nessuno gli aveva insegnato ad essere libero.
Al tempo non avevamo lavoro, non avevamo orari e nemmeno idee: la Bba
ci appoggiava, avevamo un posto dove dormire, ma nient’altro
che questo.
Ed ogni giorno ricordavamo un bambino morto, una tortura subita, una
voce temuta…
Yurij era così voglioso di proseguire il suo cammino che
presto riuscì a trovare il modo di affrontare i fantasmi del
passato; io ero così concentrato su ciò che avrei
potuto essere che tentavo di non pensarci troppo; Sergej…
Sergej aveva delle voci,
in testa.
Voci di vecchi compagni.
Voci che urlavano, stridevano, piangevano, imploravano, vomitavano.
Voci che non avevano voce, voci mute.
Andrej era un ragazzino smunto e anonimo, dal sorriso pallido ed i
capelli spettinati: era morto di fame all’età di
dodici anni.
Daniel aveva nove anni: aveva pestato il piede di un monaco, questi
l’aveva gettato a terra con una spinta; trauma cranico, morte
istantanea.
Craig, invece, era grandicello; aveva tentato la fuga, sperava di poter
andare dalla polizia: non si è più visto a Mosca.
Sergej sentiva i loro lamenti, vedeva le loro facce, ed il suo cielo
aveva il colore del loro sangue.
Come ho detto, nulla poteva salvarlo: troppo schivo per poterne
parlare, troppo disperato per poterne uscire.
Sua madre mi ha fatto vedere una foto di quando era piccolo:
l’ho fotocopiata, ed ora piango guardandola.
In quella foto sorride. Io non l’ho mai visto sorridere. E
non lo vedrò mai.
Yurij mi diceva di non pensarci, di guardare avanti: aveva fondato
un’associazione contro la Mafia e le violenze sui minori, ed
il suo operato stava ottenendo risultati non indifferenti; viaggiava,
andava e veniva, sempre di fretta, sempre a sfamare, aiutare, difendere
o osteggiare qualcuno.
Grazie a lui molti criminali sono finiti in prigione.
Protetto dalla polizia, vagava per le strade a raccogliere i bambini,
così da portarli al Monastero, la nuova sede della sua
associazione.
Io lo aiutavo, occupandomi dell’organizzazione interna; non
era una vita brutta, anzi, era quasi piacevole.
C’erano, e ci sono, tanti volontari ad aiutarci, e la loro
forza d’animo a volte mi distoglieva dai pensieri riguardanti
Sergej.
Poi scomparve un bambino.
Lo cercammo, avvisammo le autorità, mettemmo in movimento
tutta la città.
Fu inutile…
Yurij pianse: non voleva altre vittime.
Robin era un ragazzetto alto e magro, aveva quattordici anni e temeva
tutto e tutti: Vorkov lo dimenticò
in una cella.
Julian era piccolo e cocciuto, aveva la risposta pronta e, in
un’altra vita, avrebbe potuto fare molta strada; un giorno
rispose acidamente a Vorkov, ma non subì conseguenze o
punizioni: felice, credette di aver fatto colpo.
Il giorno dopo, Julian venne preso e portato via: nessuno lo rivide
più.
… Aveva fatto colpo.
Ivan era un nanetto con un enorme talento per il beyblade: divenne un
Demolition Boy.
Era forte, il ragazzo: atletico, senza scrupoli, impugnava bene le
armi, era furbo.
Alla fine del primo Mondiale capì i piani di Hiwatari; si
ribellò.
Riuscì a liberare qualche bambino, ed a rubare un documento
nell’ufficio di Vorkov.
… Venne preso, le sue gambe vennero spezzate e lui rimase a
marcire sul pavimento.
Ecco, Yurij aveva in mente loro, come vittime: e piangeva.
Diceva: “Io non voglio altre disgrazie.”
Eppure avvennero: bambini scomparvero, alcuni vennero ritrovati morti,
il Monastero subì un tentativo di incendio, e la macchina su
cui una coppia stava portando via un ragazzino adottato improvvisamente
esplose.
I volontari avevano paura, non tornavano. Noi avevamo paura,
ma dovevamo restare.
Yurij resisteva ad ogni attacco stoicamente: rilasciava interviste,
spiegava che era colpa della Mafia, faceva nomi. Io volevo aiutarlo,
intervenendo pubblicamente, ma lui continuava a ripetere: “Non ho bisogno che tu
faccia questo. Il tuo momento arriverà.”
La mattina si alzava con l’aria di essere un condannato a
morte, e consapevole, per giunta; eppure ogni giorno affrontava ogni
battaglia imperturbabile ed impetuoso, e con solerzia e determinazione
conseguiva successi.
Yurij… Il mio capitano, il mio amico.
Al Monastero, ai tempi di Vorkov, a volte veniva nella mia stanza, di
notte; pallido, magro e tremante, si sedeva per terra con sguardo perso
nel vuoto, e sussurrava: “Questi
mi ammazzano. Io, qua, ci muoio.”
Non lo diceva per dire, purtroppo: lo massacravano di allenamenti,
impegni, botte, doveri. Era cavia, era capitano, era insetto, era re;
doveva essere perfetto, ma inferiore; doveva essere forte, ma
remissivo; doveva comandare, ma obbedire agli ordini.
La sua pelle era uno scempio: se ne vergognava come di un vizio.
Sapeva tante cose, Yurij… Cose che non mi aveva mai voluto
dire.
So che le aveva dette ad un agente del Fbi, uno che era venuto da noi
anni fa; però sono rimaste un segreto tra lui e i federali,
ed io ne sono rimasto escluso.
Credo che Yurij fosse un assassino: penso avesse ucciso molte persone,
per obbedire.
Penso fosse al corrente di ogni piano di Vorkov, e penso collaborasse
attivamente.
A volte andava via il mattino, e non tornava se non giorni
dopo… Ed ogni volta che tornava, era più vecchio
di mille anni.
Sembrava spaventato, comunque: evidentemente i loro piani non gli
piacevano.
Era una pedina che poteva essere mangiata in qualunque momento,
importante ma non fondamentale.
E quando la pedina si è ribellata, il Re l’ha
eliminata.
Yurij è morto qualche anno fa.
Una scena surreale è stata la sua morte; passeggiava per
strada, quando si è accasciato a terra: cinque cecchini
l’avevano colpito, contemporaneamente, nelle parti vitali del
corpo.
Un ragazzo ha filmato per sbaglio la scena, così tutto il
mondo ha visto quell’orrido spettacolo.
Ed ora io non riesco a trattenere le lacrime a pensarci,
perché quello della sua morte è stato il giorno
più brutto della mia vita, e perché quel giorno
oltre che un capitano ho perso un amico.
Ed era un amico vero, di quelli che non si trovano molto
spesso… da quanto ci conoscevamo? Dieci anni? Forse un
po’ di più… Sì, sicuramente
di più.
Piango. Non posso farci nulla, è più forte di me.
Penso ai suoi occhi, a quel corpo distrutto e pieno di vita, ed il
cuore mi si spezza.
E, Dio, fa
un male inimmaginabile!
Come spiegarlo? Yurij era la mia metà.
Non stavamo insieme, no… Figuriamoci. Ma definirci amici
sarebbe riduttivo, e nemmeno la definizione
“fratelli” è corretta.
Nell’intimità eravamo come amanti, ma senza
contatto fisico.
C’erano intesa, emozione, tremore, intensità,
delicatezza, ricerca dell’altro… Yurij era il
superamento dei miei limiti. Era un mio prolungamento.
E me l’hanno tranciato di netto, con solo cinque colpi.
Aveva un sorriso bellissimo… Così raro, e proprio
per questo così unico! I suoi occhi sorridevano con le
labbra, quando era sinceramente felice.
Ed allora l’azzurro ghiaccio diventava improvvisamente
scintillante, acqua pura di ruscello di montagna; due fossette si
formavano sulle guance, ed io mi rendevo conto di quanto fosse bello il mio caro
amico.
Spesso, nel silenzio della mia piccola stanza, avevo immaginato il suo
futuro: lo vedevo perfettamente, uomo snello e distinto, con una bella
moglie e dei bei bambini, un’impresa ben avviata ed una casa
accogliente, pronta ad ospitare vecchi amici come me.
E sorridevo beato, immaginando una cena intima, solo loro ed io,
ridendo di cuore per il ruttino del più piccolo della prole!
E vedevo quei bambini ridere, con le stesse fossette del padre sulle
guance, e gli stessi suoi occhi: vedevo quello sguardo innamorato in
ognuno di loro.
Sì, Yurij era innamorato: innamorato della vita. Follemente,
fino al fanatismo.
Ricordo quel freddo pomeriggio di novembre di tanti anni fa, quando il
presidente Daitenji venne a trovarci con i documenti che sancivano la
fine del dominio della Borg su di noi; ricordo lo stupore, il timore,
il precario equilibrio tra estasi e terrore.
Yurij aveva preso con mano tremante i fogli, e li aveva letti tutti
più volte e con lentezza, attento a non sfogliare le pagine
con troppa foga, forse preso da un timore divino: lui, ignorante e poco
istruito, che leggeva simili documenti!
E poi ricordo le sue lacrime: lacrime che erano sgorgate spontanee,
impetuose e naturali; si era coperto il viso con le mani, e tremava
tutto: non voleva che lo vedessimo in quelle condizioni, non gli
piaceva.
Si era scusato con il presidente –scusato di cosa, poi? Di
essere umano? Nessuno gli aveva mai detto che non era un difetto-,
balbettando l’unica spiegazione che gli era venuta in mente:
“Mi scusi, ma è stato un inferno…Ed
è finita, e siamo vivi!”
Poi si era alzato, e mi aveva abbracciato stretto stretto, ripetendolo
anche a me: “Siamo vivi!”
E quella consapevolezza, infine, aveva invaso il mio padiglione
auricolare, assaltato il mio cervello, raggiunto a piè
veloce le mie ghiandole lacrimali; così me ne accorsi anche
io: mi accorsi che avevo ancora le mie mani ed i miei piedi, che il mio
cuore batteva e che tramite i polmoni potevo ancora respirare; mi
accorsi di avere ancora tutta la pelle e di possedere gli stessi organi
di quando ero nato.
Mi accorsi che, in fondo, la mia mente era ancora mia, e
così le mie idee: in quell’istante mi accorsi di
essere Boris Huznestov.
Ed ero vivo.
Vivo…! Non so in quanti, effettivamente, capiscano la
potenza di tutto ciò.
Per noi essere vivi voleva dire avere un futuro, delle scelte, delle
possibilità.
E Yurij le ha sfruttate al meglio, le possibilità: ha creato
un’organizzazione florida e stabile, che nonostante tutto
è sopravvissuta ad ogni attacco.
Ovvio, ci sono stati momenti duri… Durissimi, quanto il
diamante.
Ma lui aveva sempre quella forza, quella grinta di trascinare con
sé tutta la baracca: un muro rotto e niente soldi? Che
problema c’era, poteva ricostruirlo lui. Con un po’
d’aiuto e tanto sudore.
I tubi dell’acqua arrugginiti? Avremmo sciolto la neve,
allora.
L’elettricità tagliata? Aveva giusto
un’amica che creava candele…
Yurij era il capitano, era NATO per essere comandante. Si capiva quando
lo si vedeva camminare, fiero e irraggiungibile.
Era piccolo, di corpo e d’altezza, e l’unica cosa
di lui che potesse incutere il minimo timore erano gli occhi: eppure
era una montagna.
Provava una rabbia indomabile verso tutti coloro che non comprendevano
il suo operato, e doveva stringere i pugni fino a farsi male quando si
trovava in tribunale davanti ad un mafioso conosciuto.
Una volta mi aveva sussurrato, stretto nel maglione logoro e sbiadito
dagli anni: “A volte mi alzo la mattina e sento
l’impulso di veder scorrere il loro sangue nelle
mie mani. Ed allora mi sveglio, torno in me e mi faccio paura, e prego
che il buon senso non mi abbandoni proprio ora. Boris, non permettermi
mai di cedere a simili istinti.”
Io gliel’avevo promesso solennemente … senza mai
rivelare, però, che erano istinti che io stesso soffocavo a
malapena.
Yurij non era, di suo, una persona violenta: non avrebbe mai torto un
capello a degli innocenti; ma la vita nel Monastero l’aveva
plagiato, e qualcosa in lui si era corrotto per sempre: era, ad
esempio, tranquillamente capace di stendere da solo quattro uomini per
volta, senza impiegare tutte le sue energie; anzi, capitava di rado che
s’impegnasse davvero negli scontri.
Mentre a noi ragazzi “normali” era stato insegnato
di usare il bey per vincere, a lui era stato insegnato di usare
Wolfborg per uccidere: per questo motivo, credo, Yurij mi aveva sempre
impedito di assistere ai suoi allenamenti.
Penso che, nella sua vita, il suo animo sia sempre stato dilaniato dal
conflitto tra la persona che era e la persona che avrebbe voluto
essere: si credeva cattivo, lui.
E forse lo era, quando c’era Vorkov di mezzo: forse lo era,
quando usciva dal Monastero con la pistola nella giacca.
Cattivo, lui…! Lui che si commuoveva quando riuscivamo a
salvare un bambino, o vedeva una donna incinta!
Yurij non era semplicemente un capitano: era un modello di vita.
Era una persona da comparare ai santi, ai profeti, ai martiri: era un
qualcuno di così unico e speciale, che tremo quando penso
che io, proprio io, gli sono stato amico.
Io, che sono una nullità, un infimo e banale mortale, sono
stato l’unica persona che si è avvicinata a quel
cuore così grande: che soggezione, che potenza!
Io…
Yurij aveva grande fiducia nelle mie capacità: credeva che
avrei fatto, un giorno, grandi cose. Come mi appare ridicolo tutto
ciò!
Come può un verme schifoso, come me, toccare le stelle come
lui?
Lui era nato per brillare… Io, semplicemente, per stare a
terra, come tutti gli altri.
Lo rivedo mentre cade in mezzo alla strada, ormai morto, e
l’unico pensiero che riesco a formulare è che non
doveva andare così; come poteva essere destino che morisse
lui? Perché non io?
Tra i due, io ero il meno utile all’umanità; io
non avrei portato la luce nel mondo, lui sì. Lui poteva
farcela.
Che senso ha la mia vita, senza di lui? Io ero la sua ombra!
Siamo cresciuti in simbiosi, dormendo nello stesso letto e vivendo
sempre circondati dalle stesse identiche mura: dov’era lui,
poco distante c’ero io; eravamo partners perfetti:
comprendevamo le reciproche intenzioni con un solo sguardo, sapevamo
accordarci senza parlare e, in più, le nostre forze si
equivalevano e completavano.
Non so dire quando fu che tutto cambiò: semplicemente, un
giorno Vorkov decise che io e lui eravamo troppo perfetti insieme, e
che questo ci dava troppa
forza; ci separò.
Diede a Yurij un nuovo compagno, Ivan, e mi lasciò indietro,
con Sergej.
Fu quello il periodo in cui mi resi conto della mia cecità:
per anni avevo visto solo Yurij, e Yurij, e Yurij; fu quello il periodo
in cui mi legai a Sergej, e la nostra amicizia era insolita e per
niente simile ad un’amicizia: io e lui ci siamo voluti bene
senza mai dircelo o farcelo notare.
D’altra parte ero geloso del mio capitano: non stare
più insieme danneggiava il mio stato d’animo; lo
vedevo mutare, diventare crudele e spietato, e non avevo la
possibilità di chiedergli il motivo del cambiamento.
Un giorno me lo spiegò, seppur di malavoglia: era stanco e
depresso, e cedette alle mie insistenti domande; mi disse:
“Dovevo stare al passo, senza stare a chiedermi se fosse
giusto o sbagliato quello che facevo. Boris’ka, non posso
dirti altro.”
E quando gli chiedevo cosa gli avessero fatto fare rispondeva
sorridendo, ma era un sorriso tirato: “Smetteresti di volermi
bene; preferisco che tu mi ricorda così come mi vedi ora,
così come pensi che io sia.”
Ho sempre immaginato il peggio, riguardo ciò che nascondeva:
purtroppo, ho l’impressione che quel peggio, nella
realtà, sia stato ben peggiore, o Yurij non me
l’avrebbe mai nascosto.
Quand’eravamo ragazzini al Monastero gli altri bambini lo
odiavano: lui era il braccio destro di Vorkov, e partecipava spesso
alle punizioni, in qualità di carnefice.
Gli altri lo vedevano come un traditore, un venduto al potere; nessuno
di loro sapeva che Yurij rischiava la vita ogni giorno, fuori e dentro
le mura; nessuno sapeva che si lavava le mani per mezz’ora,
dopo aver impugnato un’arma, o picchiato qualcuno.
Chi poteva saperlo? Il “capitano demonio”, come lo
chiamavano in molti, non parlava con nessuno.
Mi disse: “E’ più facile tirare avanti
quando non conosci i nomi di quei volti.”
Dicevano che era freddo, che era insensibile; dicevano che affidarsi a
lui era anche peggio che affidarsi a Vorkov.
Quanta rabbia provavo…! Non potevo biasimarli, certo, ma io
conoscevo il vero
Yurij Ivanov, io sapevo.
E la soddisfazione è stata tanta, quando si sono dovuti
tutti ricredere.
Perché, davvero, il mio caro amico non meritava altro che
stima; lui ha dato tutto se stesso per quei ragazzini che tanto lo
detestavano: è morto per loro.
Ed anche loro sono morti, ormai.
Una volta che Yurij aveva svelato tutta la verità sulla
Borg, su Vorkov e su Hiwatari, tutto ha preso una piega inaspettata.
Kei se ne andò quasi subito: ci aiutò per qualche
mese, poi prese un aereo e nessuno di noi lo vide o sentì
più.
In realtà questa sua fuga la comprendo: essere un Hiwatari
lo marchiava… Non so se a torto o meno.
Vorkov, non avendo più nulla da nascondere dietro sorrisetti
e belle facce, si diede alla malavita aperta: eravamo tutti testimoni,
e quindi eravamo tutti colpevoli della sua disfatta.
Noi salvammo quanti potemmo, ma tanti vennero uccisi.
Ancora mi chiedo perché io sia stato risparmiato: non ho mai
subito né attacchi né altro; e sinceramente non
lo capisco, perché io facevo parte dei Neoborg, ero
l’uomo più fidato di Yurij e…
… E comunque sono l’unico rimasto.
Di sicuro Vorkov si è divertito da pazzi a lasciarmi solo!
Sa bene che questa è la peggiore punizione.
Se Sergej fosse ancora vivo mi direbbe certamente qualcosa come:
“Non è colpa tua, tu non puoi farci
nulla.”
Ma come posso ignorare questo amaro destino?
Sergej è morto, Yurij è morto, Ivan, Andrej,
Daniel, Craig, Robin, Julian… sono tutti morti!
Ed ogni giorno mi ricordano che io, al contrario, sono vivo; e non
credo proprio di averne più diritto di loro.
Chi sono io per meritare di respirare ancora? La mia unica
utilità era quella di riempire spazio.
A quante persone sto rubando inutilmente aria con i miei polmoni? Non
cerco di annientarli con la nicotina solo perché
l’ho promesso ad una bambina.
La notte sogno i morti del mio passato: essi mi ghermiscono con le loro
manine putrefatte, e mi rinfacciano il cuore pulsante; di giorno vedo i
morti del mio futuro.
Non è facile sopportare tutto ciò, per un animo
solo; non è facile gestire un cimitero interno.
All’associazione adesso ospitiamo per lo più senza
tetto, orfani e sfrattati: ci rimbocchiamo le maniche, e cerchiamo di
aiutarli come possiamo; io sono stato eletto direttore con voto unanime.
“Tu sei il giusto erede di Yurij.”
“Yurij voleva così.”
“Possiamo riprenderci tutti insieme,
Boris’ka!”
…
Ed io ero l’unico a non crederci. Io non so cosa vedano in me
gli altri volontari, e non saprò mai cosa avesse visto in me
Yurij: tutti pensano che io possa essere l’uomo perfetto per
portare avanti la causa umanitaria che ci anima; dicono che ho la
giusta forza d’animo.
Lo dicono perché sono l’unico rimasto in vita, no?
Io sono l’unico che può ancora dire come fosse il
Monastero. Per questo dovrei essere forte, a loro parere.
Ma io sono un fallito: lo sono sempre stato, e lo sarò per
sempre; Vorkov questo lo sapeva.
Huznestov non è pericoloso, Huznestov non è
niente.
Huznestov è merda.
Non è necessario schiacciare un escremento: lo si
può tranquillamente lasciare dov’è;
male che vada puzzerà un poco.
Purtroppo i volontari contano su di me, e di conseguenza non posso fare
altro che fingere di sapere quel che faccio.
Ho provato in ogni modo a voltare pagina: mi sono buttato a capofitto
nel lavoro, ho accantonato il beyblade ed ho intrapreso una relazione
con una ragazza dolcissima che alla fine se n’è
andata, non potendo più sopportare i miei sbalzi
d’umore, le mie paure ed il mio mutismo.
Credo di non essere fatto per la felicità. Nessuno mi ha mai
insegnato a rendere bella ed utile la mia vita.
Yurij era dotato, ed ha imparato da sé: io sono tardo.
“Boris, sei una persona speciale. Grazie di tutto, ti voglio
bene.”
Queste sono le parole più romantiche che il mio capitano mi
abbia mai rivolto: me le disse al ritorno da un viaggio, subito dopo
avermi baciato sulle labbra – un saluto solito in Russia, in
generale, e tra di noi, in particolare.
Io non ho ancora visto in me nulla di speciale, e nemmeno capisco cosa
sia quel tutto.
Qui all’associazione c’è uno psicologo,
il cui compito è quello di ascoltare e confortare le persone
che ricoveriamo; mi ha raccontato tante storie, lui…!
Mi ha raccontato della madre alcolizzata che vuole smettere di bere per
poter crescere i propri figli; mi ha raccontato del ragazzino uscito
dal riformatorio, in cui era finito perché non riusciva a
sentirsi compreso, e dunque aveva commesso una pazzia per attirare
l’attenzione; mi ha raccontato di una bambina violentata per
anni dallo zio, troppo innamorato di lei.
E mi ha raccontato di persone depresse: persone con un passato
difficile, con un presente opprimente o con un futuro instabile;
persone sole, per orgoglio o per forza.
Poi mi ha sorriso, mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha dato il
suo biglietto da visita.
Sinceramente non ho capito cosa si aspetta che io faccia: vuole che mi
confidi con lui?
No, non ce la farei mai.
Da quando la Borg è fallita ho sempre pensato che io ce
l’avrei fatta da solo, che ne sarei uscito come una persona
nuova; ho sempre creduto di potermi ricreare da capo, rendendomi forte
e felice, e quando le cose non sono andate così il mondo mi
ha preso alla sprovvista.
Io non ero pronto a tasse, lavoro, soldi, contributi, banche, morti,
interviste, viaggi, ricordi.
E soprattutto non ero pronto ai sensi di colpa.
Io non voglio essere il
sopravvissuto: non sono così forte da poter
reggere tutte le loro vite troncate sulle mie spalle; perché
io so che ora è mio dovere vivere al posto loro.
Ma mi chiedo: cosa vuole dire, realmente, vivere al posto loro?
Cosa dovrei fare?
Forse ridere, gioire e proseguire allegro la mia esistenza?
Non diciamo cazzate: io non potrò mai più essere
così.
Al Monastero io ero perennemente in punizione, per un motivo o per
l’altro: pugno dopo pugno, calcio dopo calcio, sputo dopo
sputo, sono stato forgiato; mi hanno rotto il naso e le braccia; mi
hanno causato emorragie e lividi; più volte ho subito la
fame (ed avrei mangiato anche la mia stessa carne, se Yurij non me
l’avesse impedito!).
No, io non sarò mai più felice.
Sono solo ora; tutti coloro che amavo se ne sono andati,
così come se ne sono andati coloro che ho odiato.
Spesso mi taglio i polsi: ma non fa male come spero, e mi delude.
Ci sono state volte in cui ho pensato al suicidio, ma il corpo di
Sergej penzolava ancora davanti ai miei occhi, e vi ho presto
rinunciato.
Mi è capitato qualche tempo fa di conoscere una signora
molto anziana, malata: questa donna si rifiutava – e si
rifiuta - categoricamente di morire, diceva con spavalderia di essere
ancora “troppo giovane”.
I dottori ed i volontari la ritennero matta.
Diedero a me il delicato compito di spiegarle che il suo corpo era
troppo debole, e che doveva accettare la realtà; il compito
lo diedero a me perché ero l’unico con cui lei
parlasse.
La donna aveva occhi azzurrissimi, così simili a quelli del
mio amico perduto che, la prima volta che li vidi, mi venne da
piangere; fissandomi con quei suoi occhi invernali mi disse, con voce
ferma: “Prima di morire, mio marito ha scommesso con me che
non gli sarei sopravvissuta a lungo.”
Continuò: “L’anno prossimo
festeggerò trent’anni di beata
solitudine.”
La sua voce si velò, ma lei non pianse: era una donna forte.
Sapevamo entrambi che non si trattava di vincere la scommessa: era un
atto d’amore, di puro e fedele amore.
Suo marito aveva scommesso perché conosceva il carattere di
lei, che pur di vincere avrebbe superato il dolore della perdita; suo
marito, semplicemente, desiderava con tutta l’anima che lei
vivesse ancora.
Lei mi disse: “Quando si è giovani non si pensa
mai di poter morire. Ed io sono giovane.”
Cercava di convincersene.
Io ho pensato spesso alla mia morte, sia da bambino che adesso. Quando
mi sveglio esco sul balcone, guardo il giardino - distante da me ben
cinque piani - e penso che buttandomi risolverei tutto.
Ma poi mi viene in mente Yurij: Yurij che è tanto simile al
marito di quella signora molto anziana.
Anche lui aveva altri piani per me; lui mi voleva vivo.
Ed allora respiro a fondo, rientro in camera, mi armo di Prozac
… e ricomincio la giornata.
Per chi
è sul baratro però
Guarda
in basso e dice no
Ce
l’hai un attimo per me?
Per
chi non usa la forza ma usa il dialogo
Per
chi non si arrende all’ennesimo ostacolo
Per
quelli che sono vivi per un miracolo
Per
te se come me vivi per un miracolo
Guarda
giù dai speranza ai sognatori
E la
forza per costruire giorni migliori
Per
chiunque sia tagliato fuori
E
guarda il cielo come me
Fine.
Bene…
Non c’è molto da dire.
È un tema trito e ritrito, ma sentivo di doverlo esprimere
anche io.
Spero che la storia vi sia in qualche modo piaciuta, o che almeno vi
abbia suscitato una qualche emozione.
Ah, il Prozac è un antidepressivo largamente diffuso in
America e Italia; non so in Russia cosa sia diffuso, ma più
che altro citare il medicinale per nome ha un valore simbolico.
Volevo soltanto dare un certo effetto al finale, tutto qui.
Ringrazio Iria
per aver letto in anteprima, e tutti voi che leggerete e recensirete.
La canzone che dà il titolo alla storia e che, alla fine, la
conclude, è “Vivi per un miracolo” dei
Gemelli Diversi; nel pezzo che cito ho tagliato qualche frase, ma voi
me lo perdonate, no? ;)
Un bacio a tutti voi
Sybelle
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