Doesn't it mean ‘I love you’?
Genere: Oneshot — doveva essere una drabble nonsense, ma lasciaaaaaamo perdere D:
Personaggi: Antonio Fernandez
Carriedo, Francis Bonnefoy, Gilbert Beilshmidt —no, non lo
scriverò mai correttamente D:—, Helizaveta Hédevary
—come prima ._.''—, Arthur Kirkland, Lovino Vargas,
Feliciano Vargas, Germania Magna.
Pairing: SpaMano, FrUk, PrUn, Bad Friends Trio [????]
Rating: Giallo? ò_ò ma se c'è Romano, è ovvio che VERDE non può essere. Sboccato.
Note: 1. le scritte in corsivo indicano un periodo passato rispetto alla narrazione corrente.
2. *= © della DonnaH FrancesaH, quindi siete avvisati D:<
3. Sono innamorata di quella commedia —ma del drammaturgo e basta, direi.
4. AWWWWWN, vi amo, ragazze <3 [sì, parlo con voi, AlleateH sbandate]
Doesn't it mean ‘I love you’?
Raschiano la gola, graffiano pur di restare covate mute dalla rabbia immotivata, le parole della voce lontana.
Un cuore stracciato è probabilmente la pestilenza peggiore che l'umanità abbia mai affrontato, si ripeteva.
Si sfiorò le labbra con il filtro della sigaretta, aspirando
altro veleno tanto benefico, se paragonato alla situazione attuale.
Glielo avrà ripetuto qualche centinaia di volte, negli anni, di smetterla con quella pianta che aveva trovato nelle sue scampagnate.
Storce il naso, spegnendola a metà, passandosi insistentemente
la mano destra contro l'orecchio, quasi a cancellare il ricordo del
suono della sua voce, conscio dell'insuccesso su tutta la linea.
« È... È meglio che vada. »
« Non è normale. » per quanto flebile, la voce
dell'amico traboccava di preoccupazione, nonostante avesse ripetuto
quelle parole svariate volte, incrociando ogni volta lo sguardo
ugualmente crucciato dell'altro.
« Non possiamo fare altro. » solito problema, solita risposta.
Una sottile, crudele maledizione. Leggera quanto un filo, si arricciava
attorno alle loro vite, unite, a renderle ancora più simili.
Per loro stessi, non potevano che contare che l'uno sull'altro.
Quando se n'era andata lei.
Quando l'aveva allontanato lui.
Quando era sbiancato l'ultimo.
Covavano, curandosi a modo loro, il dolore, imbevendolo in broccali
enormi, soffocandolo in flute eleganti, tagliandolo con la frutta, con
fare meccanico, controllato.
Illudendosi di poterlo dosare a loro piacimento, se proprio non potevano fuggirne.
Non ne parlavano mai, si conoscevano fin troppo bene.
Due, tre parole.
Ed inevitabilmente inondava le loro vite, attanagliandoli con arigli ricurvi e spietati.
Ma per quanto gli altri potessero spaventarsi a quelle parole
goffamente balbettate, di chi è troppo orgoglioso per ammetterle
anche a sé stesso, suadentemente mormorate, per qualcuno a cui
si regalerebbe il mondo, soffocate, di chi teme di star mettendo in
pericolo il proprio universo delicato, loro non avevano la minima
intenzione di lasciarne andare nemmeno uno.
A volte veniva da pensare che fossero malati, osservando i gesti e gli
sguardi che avevano l'uno nei confronti degli altri, ignorando
palesemente di trovarsi di fronte all'unica possibile medicina che
potesse curare ognuno dei tre.
Lo guardò sciogliere le gambe accavallate, sospingendosi con le
mani sui braccioli della poltrona, alzandosi e prendendo la giacca,
mugugnando un saluto sommesso prima di uscire, la porta quasi socchiusa
per la mancanza di forza nei movimenti.
Lui era stato il primo.
Perfetti, osavano definirli i più. O divertenti.
Perché, era innegabile, vedere finalmente qualcuno riuscire a
tener testa a quella capoccia montata e dura del ragazzo ce ne voleva,
era una rarità. Eppure lei vi era riuscita fin dal primo
istante, schiaffeggiandogli platealmente quella guancia tanto
irriverente da permettere alla mano di andare a saggiarle il
fondoschiena in piena metropolitana.
Avevano passato l'intero viaggio a squadrarsi, lei offesa, lui
infuriato ed impegnato a massaggiarsi la guancia, imbarazzato, privo di
quel ghigno spavaldo eternamente imperante sulle labbra sottili.
La prima sera era rientrato pestando i piedi per terra, inveendo contro
il genere femminile tutto, tra le occhiate divertite dei coinquilini,
lanciando la giacca di pelle in faccia al moro ad una delle sue solite
battute.
La seconda mugugnava, la terza borbottava, era sempre lì, a
“ quella cazzo di fermata, non può prendersi un
fottutissimo taxi?! ”.
Salivano e scendevano assieme, si scambiavano occhiate burbere, riscontrando quanto entrambi si studiassero fin troppo.
« Smettila di brontolare ed invitala ad uscire, razza di orso bianco. » se n'era uscito il biondo, la dodicesima sera, all'ennesimo, rumoroso rientro dell'amico.
Lei lo aveva fulminato nel vederlo avvicinarlesi, prima di negargli la
passeggiata nel parco offertale, rispondendo a tono ai borbottii
contrariati del ragazzo dalla pronuncia secca e le vocali soffocate.
« Che ne pensi? »
girava svogliatamente il cucchiaio nella tazzina da caffé,
mentre l'altro sfogliava un libro universitario, lasciandosi
però distrarre dal latino, sospirando e sedendosi, abbassando i
piedi dai cuscini morbidi del divano scuro e levandosi gli occhiali,
rubando la tazza al compare, bevendo un sorso del liquido che, in
quello stato, veniva definita caffeina. A dire di tutti e tre, doveva
essere acqua sporca ed allungata, per di più.
« Che è completamente cotto. »
replicò poi semplicemente, ammiccando all'amico, il quale
sogghignava divertito, anche se indispettito dal furto, come se il
caffé non fosse già abbastanza poco, in quella brodaglia.
« Grazie, Señor Ovvietà. »
Camminava rapido, Central Park non era poi così distante dal
loro appartamento, ed il freddo di febbraio penetrava nelle ossa quanto
più gli strati di lana gli concedessero, ma a lui urtava poco,
dato il gelo al quale era stato abituato da piccolo.
Si sedette alla panchina. Non ad una panchina, a quella poco distante
dall'ampio lago, ombreggiata dalle fitte fronde delle querce secolari,
alzando il capo al cielo, le braccia abbandonate disordinatamente sulle
ginocchia, prima di serrare la mascella ed affondare le dita guantate
nei capelli nivei e sottili, maledicendo qualsiasi cosa gliela
riportasse alla memoria.
« I miei ricordi sono troppo
fighi per permettere di ricordare qualcosa di insignificante,
perché mai dovrei aver tenuto a mente il tuo nome? È
ridicolo! Da dove diavolo vieni? »
Passavano impietosi i mesi, lenti e scanditi dalle apparenze e dai
tentativi riusciti o quasi di trovare pace nella nicchia scavata a mani
nude da tutti e tre, con disperazione e buona lena.
Eppure gli rimbombava in mente come il ronzio delle zanzare in una
baracca vicino alle paludi. Costante, dal tono irritante ed offeso.
Si alzò a sua volta, sospirando e lanciando il volume di
letteratura teatrale che teneva in mano sul divano, prendendo tra le
labbra il nastro che teneva legato al polso, sciogliendone il glabro
fiocco e portandosi le mani alla nuca, prima di legare i capelli
“ troppo lunghi, da lontano sembri una ragazza, ti rendi conto?
” in una soffocante coda stretta, quasi cercando in quel leggero
e trascurabile fastidio fisico una valida alternativa per i propri
pensieri brulicanti di offese in una lingua troppo morbida per
ritenerle davvero tali.
Stiracchiandosi svogliatamente, afferrò in malo modo gli
occhiali sottili riposti sul tavolino di vetro ed acciaio, prima di
lasciarsi cadere elegantemente sul sofà, riprendendo a sfogliare
il tomo, dato lo stagliarsi inquietante dell'ennesimo esame da passare
con voti eccellenti.
« Trovo che Shakespeare fosse
una delle persone più tristi sulla faccia della terra. E
probabilmente lo è tutt'ora. » ottimo modo per
iniziare a tessere un legame duraturo, davvero. Per di più in un
luogo dedito al silenzio ed all'apprendimento incondizionato basato
sulle teorie dei grandi filosofi e storici.
Il ragazzo compostamente e rigidamente seduto dall'altro lato del
tavolo l'aveva palesemente ignorato, continuando a leggere l'Amleto,
non dandogli peso nemmeno quando l'altro decise che di non
accontentarsi del mutismo e di sederglisi di fronte, osservando gli
occhi verdi di questi scorrere lenti e concentrati sulle parole scritte
dal famoso drammaturgo secoli addietro.
Erano rimasti così per parecchi minuti, prima che vedesse appena
le folte sopracciglia bionde del lettore avvicinarsi tra loro e creare
una sottile ruga di espressione tra di esse, sulla carnagione chiara.
« Ne ha ancora per molto? »
domandò, senza alzare lo sguardo dalle pagine ingiallite dal
tempo e leggermente consunte ai bordi per l'abuso mancante della
delicatezza necessaria da parte dei frequentatori della biblioteca.
Aveva una dizione decisamente meno strascicata della media generale dei
soggetti che si potevano —e non si volevano, generalmente—
incontrare in quella metropoli gremita di vite indifferenti l'una
all'altra, più controllata e dosata. Nemmeno stesse cucinando,
invece di parlare.
Stavolta fu il suo turno di rimanere silente, limitandosi ad incrociare
le mani, appoggiando i gomiti al tavolo di legno scuro, per poi posare
su di esse il mento coperto da una barbetta leggera e curata, simile a
quella che ci si aspetterebbe più da un divo del cinema che da
uno studente universitario.
« Potrei denunciarla. »
continuò imperterrito il lettore, prima di alzare gli occhi,
intrisi di fastidio ed irritazione, sullo sguardo beffardo del
molestatore della sua tranquillità, aggrottando ancor più
la fronte, profondamente indispettito.
« Fuggi quando vuoi, e la
storia sarà invertita: Apollo scappa e Dafne lo rincorre; la
colomba insegue il grifone; la mite cerva corre ad afferrare la tigre.
Vana corsa, quando la vigliaccheria ci insegue e la prodezza fugge.
» recitò per ripicca l'apparente prossimo a
comparire in una segnalazione alla polizia locale, compiacendosi non
dell'espressione quasi orripilata sul bel viso dell'altro, quanto
più del fatto che questi chiuse il volume, mugugnando un verso
stizzito ed alzandosi. Lui chiuse gli occhi, ampliando il ghigno sul
proprio viso.
« Scena I, Atto II, Sogno D'Una Notte Di Mezza Estate. »
continuò, prima di schiudere le palebre, incrociando lo sguardo
basito della controparte, schioccando la lingua al palato con fare
malizioso. « William Shakespeare. ».
Romantico, non c'è che dire.
« Sei il solito pagliaccio, Kumpan. »
aveva scherzato l'albino, dopo avergli dato una sonora pacca sulla
spalla, provocando il solito sbuffo, non erano mai stati di suo
gradimento quegli atteggiamenti da scaricatore di porto, definizione a
suo dire, al contrario di entrambi i due soggetti che si ritrovava nel
loft.
Non avrebbe mai creduto che uno con le origini del suddetto paccatore
avesse potuto essere così rumorosamente caloroso, nessuna
sorpresa, invece, per l'altro esemplare di sesso maschile che
mugugnava, le rare volte che lo faceva, contro le temperature troppo
rigide fin dai mesi autunnali.
Indurì l'espressione solitamente gentile, lasciando scivolare il
braccio che stringeva il libro lungo la superficie morbida del mobile,
sospirando sommessamente ed allacciando la mancina al gomito destro,
nascondendovici poi il volto. Non passava un test da quasi nove mesi,
aveva smesso anche di presentarsi in sede, se non per seguire qualche
sporadica lezione, ma lasciava l'aula ben prima della metà della
lezione tenuta ogni volta.
Se non fosse stato per l'amico mediterraneo, ora sarebbe ancora a
scarabocchiare di mine attorno alla raffigurazione di Westminster
Palace sul libro di storia della letteratura. Non voleva perdere l'anno
di studio, ma se ogni volta la mente lo riportava a quel fastidioso
scrittore inglese la cosa diveniva un tantino ardua.
« Avanti, solo un caffé. »
lo aveva ritrovato alla biblioteca, due giorni dopo. Dannazione, era un
vero topo mangia libri, per quanto carino. E soprattutto non era rozzo
quanto il novanta per cento delle persone che cozzavano le spalle
contro le tue, nonostante l'ampiezza dei marciapiedi del centro
nevralgico dell'ambizione di metà degli europei.
Il sogno americano. Non ci aveva mai creduto. New York non ha storia,
non ha arte, rispetto al Vecchio Continente. Paragonata a Vienna,
Barcellona, Parigi, Londra, Firenze, Venezia, Roma, Napoli, Catania,
Copenaghen, Amsterdam, Atene, Olympia, Berlino, Oslo, periva
miseramente. Era solo miele per giovani mosche desiderose di
calarsi nei panni dei futili divi che l'America offriva loro, ritenendo
il paradiso entrare a Starbuck's e prendersi un caffé in quei
contenitori enormi che si vedevano nei telefilm.
Faceva schifo, quel caffé. Deludente quanto la città, per
chi vi si recava pieno di aspettative. Lui non era venuto per il
liquido giallognolo, era lì per studiare.
Ed in quel momento era intenzionato ad applicarsi seriamente a quel logaritmo dal fondoschiena niente male.
« Non bevo caffé. »
replicò stizzito il ragazzo dalla zazzera bionda, quasi sperasse
che bastassero quelle poche parole a scacciare il pedinatore.
« Allora del tea, inglesino. »
concluse il più alto, prendendogli il volume di mano e
stringendo le dita attorno al polso sottile che sbucava di pochissimo
dalla camicia color cachi —che gusti orribili—,
accompagnandolo dolcemente all'uscita, registrando il tomo alla
segreteria, entrando finalmente in possesso del nominativo del soggetto
che scalpitava e blaterava di buone maniere.
Uscito dalla biblioteca rigirò la copertina, prima di sorridere lieve, voltandosi ad Arthur.
« A Midsummer Night's Dream. »
Grugnì infastidito, verso assai raramente associato alla sua
figura, lasciando cadere il libro a terra, ignorando il suono secco
quanto ovattato del contatto della copertina di cuoio contro il tappeto
scuro, affondando ancor più il viso nel riquadro formato dalle
proprie braccia, maledicendo a mezza voce qualunque inglese avesse mai
preso tra le dita un qualsivoglia mezzo dalla finalità di
imprimere su carta qualcosa, mordendosi il labbro inferiore, al ricordo
improvviso di sapori fin troppo rievocanti foglie in infusione.
E lui era ancora a quella finestra. Dava sull'entrata all'edificio, uno
dei pochi che avessero almeno cento metri tra il cancello e l'entrata
di ciottolato circondato da verde che non fosse sintetico, era enorme.
Se avesse alzato gli occhi avrebbe potuto vedere tutto le cime di tutto
il quartiere. Ma lui non voleva farlo, non gli interessavano
minimamente gli altri edifici, dannazione.
Aveva visto uscire l'amico dai capelli chiari, conscio che avrebbe
preso la direzione del parco più grande della città ancor
prima di vederlo aprire il cancello, regalandogli lo sguardo più
comprensivo mai letto nei suoi occhi verdi tanto profondi quando vacui,
al momento, nascosti dalle ciglia scure, puntati su quel maledetto
varco di metallo dipinto da tre mani di vernice nera, che si chiudeva
correttamente solo con tre mandate ed era sotto costante osservazione
della guardia che stava nella postazione alla destra della porta
principale, una donna dai capelli biondi e corti, incredibilmente
gentile, per quanto timorosa.
“ Apriti ”, imperava, mentalmente, con tutte le sue forze,
stringendo i denti in una pretesa quasi dolorosa, il posacenere sul
tavolino accanto al serramento, sul quale passava oramai le giornate,
seduto in una posa disordinata, appoggiato contro la parete bianca e la
tenda vermiglia.
« Aprilo. »
Il più piccolo di loro lavorava per una galleria d'Arte. ‘ Piccolo ’,
l'avevano etichettato a quel modo per una pura questione di date di
nascita, oltre che per prendere in giro il suo ego smisurato, lui,
povero nato a Dicembre. Lui si era fortunatamente guadagnato un
rispettoso secondo posto, ritrovandosi ad amare quanto mai la prima
metà di Giugno, mentre il biondo si ritrovava ad essere
etichettato come ‘ Vecchiardo ’ il più delle volte,
nato a metà Maggio com'era.
Difficile a dirsi, dato il suo temperamento e le apparenze, ma era il
più giovane impiegato del MoMA, Museum of Modern Art, come
critico d'arte, nonostante si nascondesse dietro falso nomignolo quale
Great Preußen. No, non era normale, ma quale artista,
fondamentalmente, lo è mai stato?
Durante una delle prime settimane di lavoro, telefonò a casa in
preda al nervosismo, urlandogli di portare in ufficio lo scatolone
troneggiante sul letto di camera sua, bofonchiando poi contro distrazioni di
ovvia natura, dai fianchi morbidi ed i capelli lunghi. In poche parole,
si era scordato nell'appartamento l'intero bagaglio di referenze che
gli erano state richieste dal Grande Capo, una delle poche persone
verso il quale l'aveva mai visto nutrire un rispetto definibile come
tale.
Sospirò, riattaccando ed andando a prendere il contenitore
ermeticamente chiuso, prendendolo sottobraccio e mandando un sms dal
Samsung rosso fino a quello dell'amico occupato in Università,
informandolo dell'uscita fuori programma, in caso non l'avesse trovato
a casa al suo ritorno. Il traffico di Manhattan era quanto più
di vicino ai gironi luciferini la mente umana potesse mai partorire in
tempi moderni.
Pagò il taxi in fretta e furia, avendo ignorato allegramente
tutti gli squilli che gli erano arrivati durante il tragitto, entrando
nel museo e riscontrando che mai, in vita sua, avrebbe pensato di
sentirsi tanto fuori luogo, con la maglia a mezze maniche della sua
Nazionale ed i jeans neri strappati.
« Lei sarebbe? » e, ovviamente, i tizi in giacca e cravatta che possono fissarti in situazioni simili non sono mai semplici visitatori.
Sussultò, balbettando delle giustificazioni poco credibili,
prima di sorridere allegramente e mostrare il nome dell'amico scritto a
lettere cubitali sulla scatola, al che l'altro, un uomo sulla
quarantina dai capelli biondi lunghi e visibilmente curati, oltre che
dal viso dall'espressione truce armato di occhiali da vista, il quale
annuì appena, voltandosi ed incamminandosi verso una rampa di
scale eleganti e candide, come il resto della struttura, dopotutto.
Ci mise qualche secondo per capire di doverlo seguire, sospirando e
salendo rapido i gradini, prima di vedere altre scale e mugugnare
contrariato, arrivando infine ai benedettissimi uffici del Museo,
trovandovi un tedesco piuttosto agitato che gli scippò
praticamente il contenitore dalle mani, lamentandosi del ritardo. Non
lo ascoltò a lungo, portandosi la mano alla fronte, l'indice ed
il medio uniti, estranei al resto del pugnetto divertito, sorridendogli
e facendo dietro front, scendendo quasi di corsa i gradini,
ritrovandosi ad urlare dal dolore, oltre che dalla sorpresa.
Caldo. Caldocaldocaldo, sentiva il liquido apliarsi sulla maglia rossa
ed oro di David Villa come una chiazza d'olio pestilenziale, abbassando
lo sguardo e ritrovandosi i vestiti per metà di un colorito
marrone poco rassicurante, condito da non pochi improperi in una lingue
che di americanaccio aveva esclusivamente le lettere, pure disposte in
ordine sbagliato.
Si rialzò, storcendo il naso e guardandosi la maglia, prima di
alzare il viso, infastidito dal continuo vaneggiare di un ragazzo
decisamente furente, a giudicare dal rossore sul viso e
dall'espressione congestionata in una smorfia di rabbia.
Teneva in mano uno di quei contenitori per più bicchieroni di
caffé e similari tipici, agitandolo come se fosse un'arma.
« ¡Calmados! » sbottò, afferrando la misera
minaccia di cartone ruvido traforato, osservandolo continuare a
mugugnare, prima di sospirare, provando a scusarsi, con il risultato di
essere, se possibile, apostrofato ancora di più, prima di
vederlo voltarsi e camminare a grandi falcate verso l'uscita.
Non seppe spiegare perché lo fece, cosa diavolo gli fosse
passato per la mente in quel momento, fatto sta che sospirò
nuovamente, seguendolo di corsa, tralasciando le occhiatacce degli
acculturati d'alto borgo che erano in sede per osservare in
contemplativo silenzio l'arte degli autori più recenti.
Quanto posò la mano sulla spalla del ragazzo ringraziò i
propri riflessi per essere riuscito ad evitare il cazzotto che gli
sfiorò l'orecchio sinistro.
« Senti, mi dispiace, va bene? » rantolò, prima di
ritrovarsi fulminato dagli occhi scuri del più basso e
boccheggiare per qualche istante.
« Mi dispiace un cazzo, brutto coglione! Guarda dove metti i
piedi, se vuoi correre come se ti avessero dato fuoco al culo! »
replicò aspro il ragazzo del caffé, riprendendosi il
portabicchieri ed incamminandosi nuovamente, prontamente seguito dallo
spagnolo, ovviamente.
« Io sono » « Se le
prossime parole che usciranno da quel cesso non saranno ‘un
cretino’ o ‘deficitato mentalmente’, non
m'interessano. » lo interruppe, attraversando la strada.
« Ehiehiehi, che caratterino! » commentò divertito il povero imbrattato, appioppandosi un ulteriore impropero del ragazzo dai capelli lisci e castani.
Impavido, lo seguì fino ad un locale poco lontano dall'edificio
del museo, osservandolo parlare nella stessa lingua di prima con un suo
coetaneo che poteva benissimo definirsi suo gemello, il quale lo
guardò preoccupato, soffermandosi sull'ampia chiazza di caffeina
sugli indumenti.
« Cos'è successo? »
squittì, rischiando di trapanargli i timpani, ricevendo in
risposta urla dalla stanza dietro il bancone, ove il venticinquenne
poteva unicamente scorgere altre scale, cosa che gli fece quasi venire
un conato di vomito.
Il portavoce di un roditore lo fece sedere, scusandosi all'incirca una
quindicina di volte, su una delle poltroncine del bar, prima di essere
interrotto dal chiarificarsi della voce dell'ipotetico fratello, ancora
nervoso.
« Siete italiani? » domandò, lanciando uno sguardo alle bandiere ed alle fotografie appese alle pareti.
« No, indiani. Che cazzo di domande fai? »
nemmeno a dirlo, lo strano ciuffo ricurvo che aveva notato poco prima
spuntare dalla frangia dell'infamatore fece la sua apparizione sulla
soglia della stanza delle scale, offuscato da qualcosa che intuì
essere stoffa, data la leggerezza con la quale gliela lanciò in
faccia, anche se temette ci fosse nascosto un mattone, considerando
l'astio.
« Cos... » « Cambiati, sembri uno di quei ridicoli quadri appesi in quel buco di fighetti. » lo interruppe nuovamente, mentre il surrogato di pulcino di suo fratello andava a fare altri caffé, sospirando.
Sorrise appena, iniziando a sfilarsi la maglia macchiata, prima di
sentire la presa sui polsi, ritrovandosi il viso del ragazzo a poca
distanza dal suo.
« Non qui, cretino! » lo
rimbeccò, costringendolo ad alzarsi e trascinandolo nella stanza
dove era scomparso prima, indicandogli le scale. Lo sapeva. Lo sapeva
fin da quando le aveva viste, porca la miseria.
Si ritrovò in un salotto dall'atmosfera calda, con finestre che
davano direttamente sulle sporadiche apparizioni di verde che poteva
offrire la Grande Mela, altri quadri e fotografie appese alle pareti
raffiguravano innumerevoli panorami tipici del mediterraneo e della
penisola che vi troneggiava, oltre che delle sue isole assolate.
« Vedi di muovere il culo. »
si sentì richiamare, evitando accuratamente di introdurre un
discorso riguardante il fondoschiena sodo —sì, aveva
occhio, d'accordo?— dell'italiano, levandosi finalmente la maglia
ed appoggiandola al tavolino di legno e con una spessa lastra di vetro
davanti al divano.
« Non sei americano. »
commentò il ragazzo dal cucinino nel quale era scomparso,
probabilmente per ripulirsi a sua volta le braccia, il solito tono
sprezzante.
« Vengo da Barcellona. »
spiegò lui, sbottonandosi i pantaloni e lasciandoli accanto alla
maglia, prima di avvicinarsi a quelli puliti, sgranando gli occhi.
D'accordo che la fisionomia dei due italiani era longilinea e sottile,
ma come poteva pensare che lui potesse starci, lì dentro?
« Spagnolo, che schif... »
tentò di concludere l'altro, mentre le parole gli morivano in
gola, alla vista del ragazzo che se ne fregava allegramente del
concetto di ‘pudico’, abituato a vivere con altri due
ragazzi, entrato pacificamente in cucina in mutande.
« E-ESCIIMMEDIATAMENTE! » gli urlò contro, impedendogli di chiedergli se avesse dei vestiti di almeno una taglia in più.
« Ciccione lardoso del cazzo. »
commentò poi, ancora rosso in viso, mentre attraversava rapido
il salotto, dopo averlo costretto a rimettersi per lo meno i pantaloni,
entrando in una stanza ancora più rischiarata del salotto,
aprendo un armadio, rivolgendogli uno sguardo stizzito nel ritrovarlo
sulla porta, intento ad osservare la stanza da letto.
« Non sono grasso. » ribattè, ritrovandosi come risposta una più che rispettabile e matura linguaccia.
« Ciccione lardoso, è diverso. »
concluse l'altro, senza andare a sottilizzare su addominali e similari
che lo spagnolo evitava accuratamente di nascondere, prendendo poi una
camicia e dei jeans abbastanza larghi da non strapparglisi addosso o
soffocarlo, chiudendo le ante e sbattendoglieli al petto abbronzato,
senza degnarlo di uno sguardo.
« Sbrigati. » mugugnò, allontanadosi poi.
« Antoine*, ti davamo per disperso! »
la voce chiara e la pronuncia morbida dell'amico lo accolsero
nell'appartamento, oramai a pomeriggio inoltrato, alla quale rispose
con un sospiro piuttosto pesante, chiudendosi la porta alle spalle.
« Sei andato ad una sfilata? »
domandò poi il francese, osservando i vestiti del ritardatario,
il quale accennò ad una risatina nervosa, prima di lasciarsi
cadere scompostamente sul divano.
« Perché non rispondevi al cellulare? »
chiese poi l'albino, sbucando dalle scale a chiocciola che separavano
la zona giorno da quella notte, facendogli sgranare gli occhi e
schiaffeggiarsi la fronte.
« Che c'entra l'autolesionismo con la mia domanda? »
Nemmeno a dirlo, aveva scordato il cellulare a casa dell'italiano.
Chiamò una decina di volte, prima che la voce mansueta del
fratello del ragazzo dal fondos... insomma, lui, rispondesse.
Gli diede l'indirizzo, dato che di uscire di casa non se ne parlava,
dato che aspettava il meccanico per il forno. La sera prima aveva
cucinato il tedesco.
Si sorprese quando, dalla finestra della sua stanza, vide svoltare
l'angolo il ciuffo scorbutico, scendendo le scale per arrivare al
salotto, certo che la guardia l'avrebbe lasciato passare. Anzi, gli
avrebbe anche dato il numero del pianerottolo.
Il campanello suonò dopo poco, infatti. Insistentemente, tra l'altro.
Aprì la porta e si ritrovò nuovamente la vista offuscata
dalla stoffa, levandosi poi la maglia del suo calciatore preferito dal
naso, pervaso da tutt'altro odore che caffé, osservando il viso
imbarazzato dell'italiano, mentre questi bofonchiava riguardo lavatrici
ed altro.
Non riuscì nemmeno a finire la frase, tanto velocemente si era chinato a baciarlo.
Si passò una mano sul viso, accendendosi l'ennesima sigaretta,
chiudendo gli occhi ed appoggiando il capo alla parete fredda. Odiava
quella città.
La odiavano tutti e tre.
Francis ci avrebbe messo due secondi per trovare un'altra
Università che lo accogliesse, il tritarifiuti annoverava
lettere anche da Brown, Harvard e Chicago. Le uniche superstiti
venivano da Oxford e Cambridge, inutile sindacarvici; Gilbert sarebbe
stato accolto a braccia aperte anche dal Louvre, in quel momento, e lui
poteva tranquillamente trovare posto in conservatori lontani da
quell'inferno di metallo.
Ma non volevano.
Sottile, crudele maledizione.
Due, tre parole, borbottae, mormorate, soffocate, e la fuga iniziava.
Ich liebe dich.
Je t'aime.
Te amo.
« Spegnila »
Alzò lo sguardo dalle pagine dall'odore di nuovo che queste
trattengono fino ad una decina di mesi dopo l'aquisto di un volume,
incrociando lo sguardo irritato e profondo di un ragazzo che non doveva
avere più di vent'anni, continuando ad aspirare dal filtro,
prima di vedersi spezzare la sigaretta sotto il naso.
« Ehi, razza di maleducato, chi ti credi di essere? »
domanda, alzandosi dalla panchina e guardando male l'altro, avvolto in
un giaccone troppo grande per lui.
« Tu vieni in un cazzo di parco per respirare della fottutissima
aria pulita o cosa, coglione inglese? » lo rimbecca questi,
fulminandolo quasi.
« Io vengo per avere un pò di silenzio. »
s'intromise un'altra voce, mentre una ragazza sui ventitrè anni
si avvicinava ai due, passandosi poi una mano tra i capelli lunghi.
« E per pensare. » concluse il primo, chiudendo il libro
nello stesso modo con il quale il nodo occludeva la bocca dello stomaco
di tutto il terzetto.
I love you.
Szeretlek.
Ti amo.
Ma ho paura.
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Se indovinate chi cacchio sia il capo di Gil vi stimo ;D
Sì, amo Villa. Ed ho anche la sua maglia.
Mi fa schifo il caffé americano, ma penso si sia capito.
...
E manco la città mi attira poi molto X°3
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