voglia di cozze
Saranno almeno 10 minuti che
continuo a rigirarmi nel letto, cosa che ormai, date le mie condizioni, è
diventata un’impresa. Mi decido a premere il pulsantino sulla sveglia che mi
abbaglia con una luce azzurrognola segnalandomi che al momento sono le 3.26 del
mattino.
"Cristo d’un Dio…"
Sì, lo so, non va bene imprecare.
Mia zia continua a dire che se non la smetterò a breve mi uscirà un bambino
blasfemo. Ma tanto lei non mi sente.
Ah, non l’avevo detto? Mi chiamo
Ivy, ho vent’anni e sono incinta. E in questo preciso istante, alle 3.26 del
mattino, mi sono svegliata perché ho voglia di cozze. E comincio a domandarmi
cosa ho fatto di male nella vita per meritarmi questo tipo di voglie fuori da
ogni schema logico: insomma, ho sempre sentito parlare di fragole, ciliegie,
cioccolato e simili, ma non ho mai sentito nessuno a cui sia venuta voglia di
impepata di cozze. Forse è capitato che qualcuno qualche volta abbia avuto voglia di
peperoni, ma decisamente le cozze superano qualsiasi cosa.
Ora, la prassi direbbe che io
dovrei svegliare il mio compagno, nonché futuro padre del pargolo che or ora mi
impedisce di vedermi i piedi come qualsiasi persona normale (e sarebbe una gran
cosa riuscire a vederli, perché mi fanno un male cane per la maggior parte
della giornata) a causa delle dimensioni stratosferiche della mia pancia che
dubitavo potesse umanamente raggiungere: non posso fare nemmeno questo. Colui
che ha avuto la (s)fortuna di riprodursi mediante me, in questo momento sarà in
giro per il mondo a spargere ulteriormente il proprio seme. Spero vivamente che
tutte quelle che cadranno e sono cadute ai suoi piedi siano un attimo più
attente di me. Non perché non voglia il bambino…certo, non era in cima alla mia
lista delle cose da fare, ma insomma alla prima ecografia non sono più riuscita
più a considerare altre soluzioni oltre a tenerlo. Mentre lui, l’amicone,
appena ha ricevuto la notizia, ha pensato bene di essere troppo giovane e di
volere ancora la sua libertà, che un figlio l’avrebbe castrato e bla, bla, bla…
Sinceramente penso che il bambino non lo castrerebbe (spero che venga a
conoscenza delle torture medievali abbastanza tardi), ma io ne sarei certo in
grado e credo che un buon numero di gentili donzelle, gravide e non, mi
darebbero volentieri una mano.
Ma sto divagando. Il punto è che
è notte fonda e ho voglia di cozze. Se abitassi in un paese di mare potrei
andare al porto e attendere i pescatori, vista l’ora. Visto però il caso che
abito in un una città dove il mare non si vede nemmeno dal punto più alto e che
il pesce definito “fresco” è crepato da almeno tre giorni (e non ci si chiede
con quali metodi viene conservato per non soffrire ulteriormente) non credo sia
un’idea attuabile. L’unica cosa che riesco a pensare è che vorrei dormire fino
a domani mattina con buona pace di tutti e sto per tentare anche di farlo, ma
nella mia mente si fa spazio lentamente una domanda: come sarà una voglia di
cozza?
Rimango attonita per qualche
secondo poi accendo la luce e schizzo in bagno inorridita. Ora, parliamone un
attimo: non so come potrebbe essere fatta una voglia di cozza, ma sono sicura
che non voglio che il mio bambino nasca con una chiazza nerastra che gli copre
metà faccia. Quindi dimentico momentaneamente il mal di schiena e le mie gambe
gonfie che protestano decisamente e comincio a cercare qualche vestito. Infilo
un tuta premaman di un colore che in condizioni normali aborrirei e prendo la
borsa.
È una fortuna che non ci sia
ancora freddo perché mi sono dimenticata di nuovo di prendere il cappotto.
Ragioniamo: di prendere la
macchina non se ne parla. L’unica soluzione è andare a piedi verso il centro e
sperare di trovare un supermercato aperto 24 ore su 24. Quindi mi avvio piano
sul marciapiedi alla velocità che il pancione può permettere.
Cammino per dieci minuti buoni
imprecando contro tutti i supermercati chiusi che ho trovato, rendendomi conto
perfettamente del fatto che in effetti sono io, qui, ad essere in torto e che
loro non possono certo pensare a tutte le donne incinte che alle tre del
mattino vagano per la città a cercare cozze. Anche perché, penso, non credo che
ce ne siano molte. E grazie a Dio!
Un clacson.
<< Hey, Ivy! >>
Non ci credo. Non. Ci. Credo. Il
mio migliore amico con la macchina. Io amo quest’uomo! So che alla prima
battuta scema che farà cambierò idea, ma, ora come ora, mi sembra del tutto
simile ad un’apparizione celeste.
"Mark! Non sai quanto sono
felice di vederti!"
<< Anche io! – dice
sporgendosi dal finestrino – Ma che diavolo ci fai in giro a quest’ora nelle
tue condizioni? Devi riposare! >>
<< Cerco un supermercato
aperto. >>
Se avessi la digitale non
esiterei a immortalarlo ora, la sua faccia meriterebbe di rimanere negli
annuari per secoli.
<< Perché? >>
<< Sai se ce n’è
uno? >>
<< Sì, ma… >>
Ok, non lo amo già più.
<< Senti, portamici, ti spiego
mentre andiamo. >>
Mi fa cenno da salire.
<< Grazie. Non ti so
quantificare la gratitudine dei miei piedi. >>
<< Allora, mi dici che ci
fai in giro da sola alle tre del mattino? >>
Ingrana la prima e riparte. Non
faccio molto caso al percorso, l’importante è che arriviamo a destinazione.
<< Mi sono svegliata perché
avevo voglia di cozze… >>
Probabile che sia arrossita fino
alla punta dei capelli. Ci conosciamo da anni, così tanti che so per certo che
lui di tutto ciò che ruota intorno all’universo femminile – quali mestruazioni,
gravidanza, ceretta e chi più ne ha più
ne metta – non capisce un emerito cavolo e sicuramente ora mi darà della
cretina. Infatti scoppia in una risata incontrollata.
Sono quasi due minuti che ride e
comincio a temere per la nostra incolumità perché vedo che i suoi occhi si sono
fatti lucidi e non so con quanta chiarezza veda la strada. L’unica cosa
positiva di questo orario antelucano per cercare delle cozze è che non c’è un
cane per strada ed ergo nessuna vittima di questo essere che ormai sembra più
simile ad una scimmia urlatrice che al mio migliore amico. Quasi quasi era
meglio andare a piedi, dolori vari a parte.
<< E tu che diamine ci fai
in giro a quest’ora? >>
Smette di ridere: forse c’è
ancora qualche speranza di arrivare vivi (o quanto meno vegetanti) da qualche
parte.
<< Sono sceso dall’aereo
un’ora fa. Abbiamo una pausa di una settimana dal tour. >>
<< Ah, e come stanno andando
i concerti? >>
<< Bene. >>
È diventato serio di colpo e la
sua consueta logorrea è scomparsa: sa che parlando dei concerti parleremo della
band e quindi dell’ipotetico padre di mio figlio, visto che suona con lui. E
non vuole che ne parliamo perché pensa che io ci stia ancora male. Che dolce!
<< Guarda che puoi anche
parlarne, non c’è problema! >>
<< Ma…io pensavo…pensavo che
non volessi neanche sentire parlare di Caleb. >>
Nota informativa: Caleb è lui.
<< Ma figurati! La fase appena-lo-sento-nominare-divento-una-furia
è finita. Anche perché rischiavo di sputare un bambino isterico. >>
concludo serafica.
<< Il ché, conoscendoti –
occhiata in tralice carica di significato – è già abbastanza probabile >>.
Lo guardo allibita spalancando la
bocca:
<< Certo che sei proprio uno
str****! >>
E non riesco a trattenermi dal
dargli uno schiaffo sul braccio.
<< Ehi, non bisogna
disturbare il conducente! >>
<< Non siamo su un autobus.
E comunque ho tutto il diritto di farlo se il conducente mi offende! >>
<< Non ti ho offesa. Ho solo
detto la verità! >>.
Fingo di essermi arrabbiata e
taccio per il resto del tragitto mentre lui sogghigna sotto i baffi. Lo sapevo
che sarebbe andata a finire così, succede ogni volta.
<< Siamo arrivati, sweetie. >>.
Scendo sbattendo la portiera con
tutta la forza che ho in corpo (cioè pochissima).
<< Sei fortunato che la mia
vita dipende da questo supermercato, altrimenti ti avrei ucciso prima! >>
Ride di nuovo sguaiatamente
mentre entriamo. Io corro come una fucilata verso il banco frigo e agguanto una
confezione di cozze surgelate.
<< Bene, ora siamo salvi
dall’apocalisse. Andiamo alla cassa. >>
Detto questo parto alla massima
velocità tirandolo per la manica, sperando di riuscire a tornare a dormire nel
minor tempo possibile.
<< Ehi! Aspetta un
secondo! >>
Mi fermo di botto e alzo gli
occhi al cielo.
<< Che c’è adesso? >>
Ho quasi ringhiato…mi sa che
aveva ragione lui riguardo all’isteria e compagnia bella.
<< Ma non è
che…insomma…cioè… >>
Sbatto un piede per terra facendo
più danni a me stessa che altro.
<< Dannazione, mi vuoi dire
che problema c’è? >>
Dall’alto del suo metro e ottanta
sembra rimpicciolirsi. E chi ha detto che il matriarcato è morto?
<< E se ti venisse voglia di
qualcos’altro? Voglio dire, ora sono le cozze..ma se tra due ore ti svegli e ti
viene voglia, che so, di pasta col pesto? >>
Non ricordavo male: lui non è
assolutamente avvezzo alle donne incinte con le voglie. Anzi, non è avvezzo
alle donne incinte. Va bene, non è avvezzo alle donne in generale.
<< Mark, io non posso sapere
di cosa avrò voglia in futuro. Effettivamente non posso nemmeno sapere se avrò
ancora voglie universalmente parlando. Non posso comprare la roba a
casaccio! >>
<< Prendi l’essenziale
allora. >> aggiunge con una nota di ovvietà nella voce.
Alzo un sopracciglio mentre il
mio piede continua a battere sul pavimento ad un ritmo sempre più frenetico.
<< E non credi che potrei
comprarlo domani, l’essenziale? >>
<< E se ti viene voglia di
panna e fragole tra un’ora? Dovremmo tornare qui a comprarle di nuovo! >>
Decido di non opporre resistenza
e di tralasciare quella prima persona plurale che ha usato segno che per la
preoccupazione resterà con me almeno fino alla fine dell’impepata di cozze: la
constatazione che probabilmente non riuscirò a tornare a dormire troppo in
fretta arriva fulminea e decisamente irritante. Ma vederlo impazzire per le
corsie del supermercato che lancia nel carrello qualsiasi genere è una scena
che non vorrei perdermi nemmeno se fossi sul letto di morte.
Spero solo che paghi tutto lui.
Finita la spesa (che
fortunatamente ha fornito Mark) che avrebbe sfamato senza troppi problemi
l’intera popolazione della Danimarca, Mark mi riporta a casa premurandosi di
fornirmi una brochure verbale di raccomandazioni sulla gravidanza totalmente
fuori da ogni schema e logica, tipo “lavarsi i denti con dentifrici alla
fragola”, “non vestirsi troppo di nero perché altrimenti il bambino ne risente”
e, dulcis in fundo, “non mangiare
cibi che iniziano per M”.
<< Senti, ma con cosa ha
tagliato la roba il tuo spacciatore di fiducia questo giro? >>
Lui mi guarda inorridendo.
<< Ivy! Io non mi drogo e lo
sai! >>
Mi dipingo un’espressione
scettica, studiata per l’occasione, sul volto:
<< Per infilare in un
discorso unico una serie di stupidaggini di tale portata e insensatezza devi
aver preso qualcosa di veramente forte. Fidati, vanno al di là di qualsiasi
idiozia tu abbia mai detto. >>
<< Non le ho inventate, le
ho lette. >> aggiunse lui con gravità.
Chiesi dove con una certa
curiosità.
<< I n un forum sulla
gravidanza. Delle donne incinte si scambiavano consigli. >>
<< devono essere state
ingravidate da un alieno…io queste cose non le ho mai sentite!! >>
Esclamo al colmo dello stupore
mentre parcheggiamo sotto casa mia e cerco le chiavi.
<< Sei stato carino comunque
a preoccuparti per me. >>
Dico aprendo la porta evitando di
guardarlo. Non siamo troppo abituati ai discorsi seri, noi due. Nonostante stia
fissando con intensità inaudita il pomello scrostato della porta d’entrata
riesco comunque a scorgere che sta arrossendo. Non riesco a trattenere un
sorriso.
<< Allora – dico aprendo
finalmente il dannato uscio – ce la facciamo quest’impepata di cozze? >>
E appena vedo il suo sorriso
aprirsi, perché ora ho alzato lo sguardo, comincio a sentire un certo calore in
me e penso che questo momento, passato con il mio amico di sempre che ha
accettato con me le cose brutte e le cose belle di questa avventura, sia bellissimo.
Penso che sia il migliore momento
al mondo.
Questi colpi alla porta si
ripetono già da un po’, ma non riesco a quantificare dopo quanto sento alzarsi
dal materasso la persona al mio fianco per andare ad aprire, svegliandomi così
definitivamente. Davanti a me vedo un comodino non mio, di una stanza non mia,
in cui riesco a riconoscere solo la mia valigia verde, buttata in un angolo.
Ad un tratto, capisco.
<< Diamine Caleb, il
soundcheck inizia tra 20 minuti e tu non ti sei ancora degnato di scendere, ho
dovuto inventare delle balle astrali per coprirti! >>
<< Ehi, amico, non ti
scaldare, ho fatto le ore piccole! Adesso mi sistemo e scendo! >>
Risponde serafico a Mark, che sta
sulla porta decisamente spazientito.
Io mi sollevo a sedere solo dopo
aver sentito la porta del bagno richiudersi alle sue spalle. Non so dove sia
stato Caleb stanotte, io mi sono addormentata nella speranza che tornasse.
Speranza decisamente vana.
Mi massaggio le tempie cercando
di mettere in ordine tutti i pensieri ma tutto ciò che riesco a ricavarne è una
sensazione di estremo disagio. Tutto mi pare d’un tratto fuori posto, io, la
mia valigia, quell’hotel… io non dovrei essere qui. Gli occhi mi pizzicano
terribilmente, mentre sprofondo in una tristezza infinita.
Mark si siede sul letto. Decido
di ricambiare il suo sguardo con gli occhi già umidi di lacrime.
<< L’hai sognato di nuovo,
vero? >> chiede.
<< Sì… >>
E piango.
In questa realtà il mio bambino
non nascerà mai, perché ho deciso di abortire una settimana dopo aver scoperto
la mia gravidanza. Al contrario di ciò che tutti dicono, sì, è stata una scelta
facile. Perché è semplice dirsi di essere troppo giovani per avere figli e di
non poterli mantenere e di non essere in grado di fare i genitori. Ho scelto la
via più facile, e nessuno, come avevo chiesto, mi sta rimproverando per quello
che ho fatto, perché la scelta è stata mia e basta. So già che la mia
coscienza, però, mi mostrerà ogni notte le vie del sentiero tortuoso, quello
più accidentato che io ho deciso di non seguire.
Quando ho scelto di abortire,
l’ho fatto per paura della vita che avrei potuto perdere.
Ora, però, vedo solo fantasmi. I
fantasmi della vita che non potrò mai avere.
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