Alex aveva
18 anni e viveva ad Amburgo da qualche mese. Aveva dovuto trasferirsi
per via
dell’ultimo volere della madre, che le aveva chiesto
esplicitamente di andare
via da Berlino.
Alex era tedesca.
Era una ragazza. Ed era sola.
Il padre
aveva abbandonato lei e la madre quando lei era ancora una bambina. E
poi
Frankie, la madre, si era ammalata ed era morta nel giro di qualche
mese,
obbligando la figlia a trasferirsi lontano da quella città
che non gli aveva
portato nulla di buono.
Alex era
taciturna. Non aveva amici, né a Berlino tantomeno
là ad Amburgo.
Restava
sempre sulle sue, aveva imparato a tornare a casa e a fare i compiti.
Si era
innamorata, quello sì.
Ma nessuno
l’aveva mai notata davvero.
Forse
perché spesso la si scambiava per una persona che non era.
Alex
vestiva in modo singolare. Era provvista di felpe oversize e di jeans
alquanto
larghi per la sua corporatura mingherlina.
Aveva i
capelli lunghi, ma li odiava. Erano così uguali a quelli
della madre che le
portavano dietro troppi ricordi. E facevano tutti male.
Per
esempio quando lei accarezzava i capelli alla madre. O quando, una
volta
arrivata a casa dopo una lite furibonda con qualche bullo di scuola, la
madre
era solita sfilarle la cuffietta o un qualche berretto per vederle la
fluente
chioma castana ricaderle sulle spalle.
Ad Alex
faceva decisamente male ricordare tutto questo. Sua madre era stata
l’unica
persona che avesse mai amato. L’unica di cui si fosse mai
fidata e l’unica che
non l’aveva mai abbandonata.
Era una
sfigata, continuava a ripeterselo sul treno che la portava a scuola.
La scuola
che odiava con tutto il cuore. Era quella il suo maggior problema.
Odiava le
materie, odiava stare tra quelle pareti, odiava dover frequentare per
forza.
Odiava
doverci andare ogni Lunedì mattina dopo che tornava
distrutta dal lavoro del
weekend e odiava ancora di più la gente che c’era.
Una
persecuzione continua, erano i compagni che la ragazza continuava a
trovarsi.
Tutti la scambiavano per un ragazzo. E mai nessuno si accorgeva della
ragazza
che in realtà si nascondeva sotto quegli abiti.
Anche quel
giorno portava i capelli sotto una cuffietta in lana, vista la
temperatura
tremendamente fredda di Ottobre.
Il treno
si fermò e poco dopo riprese il suo tragitto. Alex si
alzò aumentando il volume
sul suo I-pod e si avvicinò alle portine, mettendosi in
spalla lo zaino dentro
la quale cera qualche libro e due quaderni.
Il treno
si fermò, le portine si aprirono a lei scese.
Il freddo
tedesco di Amburgo la costrinse a stringere ulteriormente la sciarpa al
collo e
si coprì le mani con le maniche della felpa nera che
indossava.
L’edificio
era gelido. Il riscaldamento doveva essersi rotto di nuovo e tutti si
stavano
ghiacciando.
Ma se
c’era qualcosa che li faceva immobilizzare ulteriormente era
il passaggio di
quel teppista. Lui.
Quel Tom
Kaulitz. Era un esemplare davvero unico. Non girava mai solo, ovvio. Ma
dominava su tutti, professori compresi.
Nessuno
aveva mai capito come faceva a divertirsi in quel modo, ma tutti gli
andavano
dietro, tutti lo adoravano, tutti lo guardavano e tutti lo temevano.
Tutto in
contemporanea.
Lui
osservava in silenzio, non agiva mai d’impulso, non era nel
suo carattere. Era
taciturno, parlava solo se interpellato. E, soprattutto, solo se voleva.
Tom
Kaulitz era il sogno proibito di centinaia di piccole studentesse in
quella
scuola. Certo, era un bel ragazzo. Come biasimarle?
Era ben
piazzato, alto un metro e novantatre, aveva lunghi cornrows neri che
gli
ricadevano sulle spalle, vestiva sempre largo, comodo, indossava sempre
scarpe
di marca, orologi lussuosi, occhiali da sole anche se non servivano,
arrivava
sempre in macchina, sulla sua Audi A1 nera e, la cosa che mandava in
tilt
tutte, erano quelle labbra carnose decorate da un piercing sulla
sinistra del
labbro inferiore che brillava ogni volta che un minuscolo raggio di
sole
colpiva il viso di quel bullo.
Tom
Kaulitz era un bullo che si divertiva a picchiare chiunque gli
capitasse a
tiro. Non aveva mai una vittima fissa, se la prendeva solo ed
esclusivamente
con i maschi. Ovviamente.
Con i
secchioni, con chi gli stava sul cazzo e con chi riteneva meritasse una
lezione.
Sì,
insomma. Tom Kaulitz era davvero un figlio di puttana.
Era
cresciuto viziato, qualsiasi cosa volesse la otteneva.
Voleva una
ragazza? Era sua. Senza troppi preamboli.
Voleva
quella macchina? Era sua. Il giorno dopo stesso.
Voleva
soldi? Erano suoi Bastava prelevarli dal conto in banca di mamma e
papà.
Voleva la
fama e il rispetto? Erano entrambi suoi. Bastava fare ingresso a scuola.
Tom
Kaulitz era il classico diciannovenne che voleva sempre più.
Pretendeva.
Ogni passo
gli conferiva un briciolo di sicurezza in più, ma non che ne
avesse bisogno
visto che il suo ego era abbastanza grande da procurargliene a
sufficienza.
Gli
sguardi erano tutti puntati su di lui. E gli piaceva. Eccome se gli
piaceva!
« Ciao
Tom. » disse qualcuno che lui ignorò.
Si
avvicinò tranquillamente al suo armadietto e lo
aprì, buttandoci dentro qualche
libro e prendendone altri.
Quando si
voltò, lo vide.
Restò a
fissarlo qualche istante, lo sguardo che bruciava.
Quel
ragazzino gli dava sui nervi ogni giorno di più. Era qualche
mese che si
tratteneva dal pestarlo a sangue.
Odiava il
suo portamento, come camminava. Teneva sempre lo sguardo basso e
tentava di
nascondersi sotto quella cuffietta solitamente nera. Ma non ci
riusciva. Lui lo
vedeva sempre, cercava di incrociare il suo sguardo, di fargli capire
che
dovevano starsi alla larga altrimenti sarebbe finita tremendamente male.
Ma non ci
riusciva, perché quel ragazzetto non gli prestava attenzione
come il resto
della scuola.
Ma quel
giorno, lo aveva davvero fatto incazzare. E quando Tom si incazzava,
non andava
bene. Per nessuno.
Perché
tutto questo incazzo?
Perché
quello smidollato indossava la stessa felpa di Tom. E nessuno, nessuno, poteva permettersi di fare una
cosa del genere.
Si mise
bene la borsa in spalla e si avvicinò al malcapitato, sotto
gli sguardi
interessati di qualche ragazza che se lo spogliava con gli occhi.
E poi, gli
si parò davanti.
L’armadietto
di Alex era un perfetto casino. C’erano pacchetti di
sigarette vuoti sparsi un
po’ dovunque, libri e quaderni con qualche appunto volante
qua e là. Foto di
Jay-Z, Young Jeezy, Samy Deluxe, Eminem e altri artisti erano appese
allo
sportellino. Fece in tempo a chiuderlo, quando una figura le fece
ombra. Si
voltò lentamente e vide un grosso ragazzo davanti ai suoi
occhi. Sapeva chi
era. E sapeva anche che la sua presenza non voleva dire nulla di buono.
Poi notò
la felpa che indossava; era identica a quella che indossava lei.
Sollevò un
sopracciglio e tornò a fissare il ragazzo. Il Kaulitz.
Lui non
disse niente, si limitò a prenderla per la felpa e a
spiattellarla contro gli
armadietti, facendole cadere i libri.
« Ci
vediamo all’uscita. » sillabò quello,
avvicinando il suo viso.
Poi mollò
la presa e i piedi di Alex poterono toccare perfettamente il pavimento.
Lo vide
allontanarsi mentre gli altri studenti facevano finta di niente, e si
rimise
bene la felpa.
Quello era
pazzo. Senza alcun dubbio. Che diamine voleva da lei?! Assurdo!
Figurarsi
se si sarebbe fatta trovare davanti a lui. Per fare cosa poi? Di certo
non
parlare.
Si diresse
verso la sua classe con uno sbuffo, mentre si sentiva decine di paia
d’occhi
addosso.
Odiava
essere fissata. Somigliava ad un maschio e allora? Era il suo modo di
comportarsi, era il suo modo di vestire, era la sua vita e ci faceva
quel cazzo
che le pareva. Nessuno sembrò mai domandarsi se fosse un
maschio o una femmina;
mascherava tutto tremendamente bene.
Quando
arrivò in classe, nessuno la salutò. Nessuno le
chiese come stava. Nessuno
sapeva la sua storia, dopotutto. E iniziò a pensare che pure
i compagni
l’avessero scambiata per un maschio. D’altronde,
non c’era mai molto dialogo
fra loro. Anzi non ce n’era proprio per niente!
Perché sprecarsi a parlare con
gente di quel livello?
Berlino le
aveva portato via la madre, era vero. Ma Amburgo cosa le stava
offrendo? Un
emerito cazzo.
Si
sbatté
la porta alle spalle senza preoccuparsi di aver fatto trasalire mezza
classe e
si diresse a passo sicuro verso l’uscita per fumarsi una
delle sue
trecentocinquanta sigarette giornaliere.
Ma poi la
sua attenzione venne attirata da qualcosa di più allettante
della nicotina che
saliva fino al suo cervello, mandandolo in tilt.
Qualcuno.
Quello
che
lui definiva il mocciosetto che si vestiva come lui, in
realtà non era altro
che Alex. Aveva deciso di farsi un giro nei corridoi perché
la lezione di
matematica aveva preso una piega troppo noiosa e forse contare le
mattonelle
giallastra nel pavimento era più divertente.
Tom si
rimise in una delle enormi tasche dei suoi jeans il pacchetto di
sigarette e
l’accendino e decise di dare a quel fannullone la lezione che
da tempo aveva
desiderato affibbiargli.
Alex, dal
canto suo, ignorava completamente anche solo la probabilità
che qualcuno - alias
il figone di cui tutti avevano paura ma che lei riteneva uno sfigato di
primo
livello - la stesse seguendo.
Svoltò
l’angolo e sentì un rumore muto alle sue spalle.
Si voltò ma non vide nessuno.
Poi, però,
vide un’ombra allungarsi sopra la sua e quando si
girò di nuovo, lo vide.
« Chi si
vede. » esclamò Tom a denti stretti, privo di
espressione.
Alex fece
un passo indietro e quello non si mosse.
« Cosa
vuoi?! » lo rimbeccò.
« Solo
divertirmi. »
Si ritrovò
con la spalle attaccate al muro e un pugno le arrivò dritto
allo stomaco,
facendola piegare in due. Scivolò lungo la parete ruvida e
biancastra del
corridoio, gemendo silenziosamente.
Il ragazzo
la tirò su per le braccia facendo finta di non sentire i
suoi mugolii di dolore
e le sferrò un secondo colpo, affondandolo con decisione
sulla felpa.
« Forse la
smetterai di darmi fastidio. » mormorò quasi in un
ringhio.
Alex si
accasciò a terra stringendosi così tanto la
pancia da poter sentire la forma
dell’intestino mutarsi.
Come
ciliegina sulla torta, Tom si concesse anche uno sputo, ma Alex era
troppo
concentrata a trattenere le urla di dolore per badarci.
Lo vide
solo allontanarsi, tirando di nuovo fuori il suo pacchetto di sigarette
e
accendendosene una ancor prima di essere fuori.
Quel ragazzo
doveva assolutamente essere pazzo. L’aveva aggredita per una
felpa! Ma come
diavolo si permetteva! Poi si ricordò di una cosa:
somigliava ad un maschio.
Non aveva
mai indugiato su quello che le ragazze avrebbero
potuto pensare su di lei. E non
l’aveva mai fatto appunto perché era una lei. Ma
in quel momento si chiese che
cazzo avesse fatto di male per avere tutto quello. Era la goccia che
faceva
traboccare il vaso, ma si morsicò un labbro infierendosi
ulteriore dolore e
sollevò lo sguardo, ricacciando le lacrime che non aveva
pianto per ben 18
anni.
|