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Phoenix
The
Last Song I'm Wasting On You - Evanescence
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[Ray.]
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Ingrano
la marcia, sentendo il
cambio maledire il momento in cui sono salita in macchina. Accelero
bruscamente, il motore ruggisce in risposta al mio gesto violento,
rabbioso.
Quarta.
Cento chilometri orari.
Sale
di giri, il motore. Ringhia,
ruggisce, vibra nel mio petto e nel mio corpo tentando di ridare vita a
quel
cuore oramai in pezzi. Inutile, anche solo provarci.
Quinta.
Centocinquanta chilometri orari.
La
macchina ruggisce, strepita,
protesta; ma non m’interessa, voglio solo che il rombo del
motore copra l’urlo
disperato che echeggia nel mio petto, voglio solo che la strada sfocata
che
sfreccia intorno a me cancelli le immagini che continuo a vedere di
fronte al
mio viso.
Ho
davanti solo il volto di Ben.
Il suo sorriso, i suoi occhi che brillano di una luce che ho
arrogantemente,
scioccamente, ingenuamente pensato
che potesse rivolgere soltanto a me.
Ho
davanti solo questo. Le
fossette che si aprono lievi sulle sue guance quando sorride, una sua
smorfia
palesemente divertita, una linguaccia fatta alla fotocamera.
Un
bicchiere fra le mani, un
amico accanto.
E
dita eleganti, smaltate di
nero, posate sulla sua coscia. Dita che non sono mie. Una mano che non
è la
mia. Un corpo che non è il mio, accanto a lui. Lunghi
capelli biondi, ricci,
occhi dorati, espressione vacua, vuota.
Almeno
questo. Pensavo di avere
qualcosa, in più di quelle creature infime come
lei…
Ho
davanti soltanto Tamsin
Egerton, ed il fiotto d’odio che sento invadermi la bocca
rischia di provocarmi
un conato di vomito, di rabbia, di dolore. Quel dolore che sento
contrarsi nel
mio stomaco, nel mio petto, quella morsa che si serra ghiacciata sul
mio cuore
infranto, ghermendola, come artigli di rapace.
Lei,
accanto a lui.
Lei,
che ride con lui.
Lei,
che lo accarezza, che lo
guarda, che si fa guardare.
Lei,
vicina a lui.
Loro, che ballano, troppo vicini, troppo
intimi.
Ed
un ennesimo CRACK che risuona
nel mio petto silenzioso.
L’acceleratore vibra sotto il mio piede,
la frizione si alza e si
abbassa frenetica, il freno e lo sterzo sembrano intuire la mia furia;
assecondano i miei movimenti, mentre il vento fischia rabbioso dai
finestrini
aperti, dando voce al mio dolore.
Mi
ha tradita.
Ben.
Mi ha tradita.
Che
stupida.
Che
stupida, che sono…mi sono
lasciata illudere.
Ho
lasciato che facesse breccia
nel mio bozzolo di ghiaccio e cinismo. Ho lasciato che le mie difese si
abbassassero di fronte a quello sguardo, a quegli occhi neri che sento
ancora
pizzicare la mia nuca.
Per
cosa?
Mi
sono abbandonata ai suoi baci,
alle sue carezze, alla sua voce; ho lasciato che mi riempisse, che
diventasse
indispensabile per la mia anima che già si dibatte in una
terribile astinenza
che minaccia di lasciarmi vuota, spenta, priva di vita.
Per cosa?
Mi
sono illusa.
Mi.
Sono. Illusa!
Perché
non ne avevo abbastanza,
vero? Perché non ne ho passate abbastanza! Perché
non ho ancora imparato la
lezione! No, invece di restare nel mio ghiaccio, nella mia solitudine,
ho
preferito rischiare! Mai, mai
innamorarsi, è soltanto una fregatura!
E
io? Io cos’ho fatto, invece?
La strada scorre, sotto ai miei occhi, senza che io
possa davvero
vederla. È appannata, dietro gli occhiali da sole le mie
iridi sono velate di
lacrime. Dietro quelle lenti che
proteggono il mio dolore dal resto del mondo, piango.
Gli
ho concesso qualsiasi cosa.
Gli ho dato tutto. La mia anima, gliel’ho data. Il mio amore,
il mio corpo, il
mio respiro. Gli ho dato tutta me stessa, ogni sorriso, ogni lacrima,
ogni
sguardo pieno d’amore, io l’ho
donato a
lui. Per lui mi sono messa in gioco…per lui ho
cercato la voglia di vivere,
di combattere.
E
lui?
Lui
ha distrutto tutto.
E
io?
Io,
adesso, non sono niente.
L’unica
cosa che mi è rimasta è
l’ombra di un cuore; spezzato, frantumato, ridotto in
briciole.
Ho
dinanzi agli occhi della mente
il suo sguardo, quando gli ho soltanto chiesto perché.
Ho
ancora nel petto il suo
silenzio; un silenzio che mi ha assordata, un silenzio che ha scavato
rabbiosamente una voragine dentro di me. Una voragine che ha distrutto
tutto,
lasciando di me soltanto un patetico, fragile involucro vuoto. Spezzato.
E
ho ceduto.
Io,
Ray, ho ceduto. Me ne sono
andata.
Ignoro il limite. Non c’è un
limite al dolore che sto provando. Non c’è
un freno alla sofferenza che mi sta dilaniando dentro. Non
c’è nessun limite.
Sento
ancora la pelle bruciare,
là dove le sue mani sapevano accarezzarmi. Sento ancora la
gola ardere, sotto
le sue labbra che rapivano ogni anelito, ogni battito, ogni sospiro.
Lo
sento ancora, lo sento ancora
dentro di me.
Che
sciocca.
Non
esiste l’amore, Ray. Tu,
proprio tu, avresti dovuto capirlo tanto tempo fa.
Will.
Il
nome del mio migliore amico
risuona violentemente nel silenzio del mio corpo distrutto, spossato.
Stanco.
Angel.
Il
visetto dolce della mia
migliore amica fa capolino fra quelle maledette immagini, fra
l’odio, fra la
rabbia, fra il terribile vuoto – là, dove fino a
poche, stupide ore fa c’era
Ben.
Non
smetto di guardare la strada.
Il mio istinto è saldo, i miei sensi sono
all’erta; eppure, vorrei soltanto
morire, adesso. Ma me lo impedisco; non posso farlo,
c’è ancora qualcuno.
Qualcuno, che soffrirebbe nel vedermi andare via.
Non
come Ben.
Non
come ha fatto lui.
Lui,
che mi ha lasciata andare
via. Lui, a cui forse, dopotutto, non importa così tanto.
Ho
le guance rigate di lacrime;
scendono fin sulla gola, sul petto, cercando di lenire le bruciature
che il suo
tanto effimero – falso,
sciocca ingenua – amore
ha lasciato su di me.
Tremando,
riesco a trovare senza
guardare il telefonino, l’auricolare che porto con dita
tremanti all’orecchio.
Due tasti, un numero in memoria rapida; il numero di William.
Uno squillo.
Rispondimi,
Will. Ho bisogno di
te. Ho bisogno di voi. Vi prego…
Due squilli. Tre squilli.
Rallento
un poco, quando vedo una
macchina, nella corsia opposta alla mia, supera un camion che la
rallenta e si
ritrova in senso opposto, proprio di fronte a me.
Quattro squilli. Cinque squilli.
Ci
sono due ragazzi, lì dentro.
Sento la musica house arrivare fino a me, li vedo ridere fra loro, li
vedo
mimare un brindisi con due bottiglie di birra.
Sei squilli.
C’è
qualcosa che non va.
Sette squilli.
Non
possono rientrare. Davanti al
camion, altre due auto. Non c’è spazio.
Otto squilli.
Vedo
me stessa serrare la mano
sul cambio; sento il motore ruggire di dolore quando ingrano
violentemente la
prima, i giri che aumentano fino a superare la soglia critica.
Nove.
Mi
vedo tirare il freno a mano,
mi vedo sterzare con violenza verso destra. Da lontano, da fuori, come
se non
appartenessi più a quel fascio di nervi che è il
mio corpo.
Vedo
la mia macchina girare su sé
stessa, le gomme che stridono sull’asfalto, il fumo che si
alza minaccioso dal
cofano e dagli pneumatici. Vedo i due ragazzi urlare, terrorizzati,
provare a
frenare.
Dieci.
Ben.
-Pronto,
Ray?- Will, Angel.
-Will,
Angie…vi voglio bene.-
CRASH.
.
.
[Will.]
La
linea cade esattamente un
istante dopo lo schianto.
Uno
schianto. Il rumore dei freni
che stridevano.
Ray…
Angel
mi sta guardando, allibita,
gli occhioni sgranati, più pallida di quanto non
l’abbia mai vista. Ed anch’io
sento il colore scivolare via dal mio viso, mentre il cuore sembra non
voler
accettare, il cuore accelera bruscamente per fuggire dalla brutta,
brutta
ipotesi che si sta formando nella mia mente.
Ray.
È
uno scherzo.
Non
può esserle successo
qualcosa.
Non
a Ray, non alla mia amica.
A
lei non succede mai nulla di
grave, lei riesce a salvarsi sempre, lei non…
È
automaticamente, che compongo
rapido il suo numero.
L’utente da lei chiamato non è
al momento raggiungibile. La preghiamo
di riprovare più tardi, grazie.
Forse
è solo caduta la linea.
Forse ha solo il cellulare scarico. Forse era solo il suono di un
piatto che si
rompeva.
Passano
lunghi minuti di
silenzio, mentre guardo il telefonino spento, mentre cerco di capire.
Sento la
lancetta dell’orologio ticchettare.
Angel,
accanto a me, è
silenziosa; istintivamente, cerco la sua mano, le sue dita minute ed
eleganti.
È
calda, Angel, è qui. È qui con
me.
Solo
la sua presenza riesce a
rischiarare la confusione che ho in testa. Solo sfiorandola, riesco a
recuperare un barlume di lucidità.
La
strada che porta a casa di Ray
e Ben, da qui, è una soltanto. Forse Ray stava – sta – venendo qui. Forse se
andiamo adesso, la troviamo. Forse…
Qualcosa,
dopo dieci minuti di
totale shock, scatta.
Angel
si sta già vestendo, in
fretta e furia. Io non me ne accorgo, non mi rendo conto di quello che
sto
facendo; sono già nell’ingresso, la sto
già aspettando in macchina, mentre
febbrilmente continuo a tentare di chiamare Ray.
-Will,
andiamo!- Angie, la mia
Angie, si fionda accanto a me, allacciando la cintura in fretta, la
paura
scritta sul viso.
Accelero
con violenza, partendo
forse anche troppo velocemente. Ma non può essere successo
nulla, mi dico. Ray
sta bene. Ray sta bene, Ray è forte, Ray se la cava sempre.
-Chiama
Ben.- sussurro, posando
il telefono fra le dita sottili della mia Angel. E lei annuisce,
componendo
immediatamente il numero del nostro amico, tremando mentre aspetta che
lui
risponda.
-Ben?-
trema, lo sento. Ha paura.
-Ben, dove sei? D-Dov’è Ray?- la sento chiedere,
appena balbettante. Qualche
attimo, qualche secondo di risposta, e vedo il suo volto incupirsi.
-Angie…-
la chiamo, piano,
tentando di non lasciarmi prendere dal panico. Panico che aumenta,
quando
un’ambulanza a sirene spiegate supera la nostra auto,
dirigendosi nella nostra
stessa direzione.
-Come,
è andata via?- accelero,
mentre sento la voce di Ben incespicare di
là dal telefono, lo sento tremare, lo
sento…piangere? Sta piangendo? Sa
qualcosa che non sappiamo, sa se…
Ray…
-Ben,
Ben calmati, devo sapere
dov’è andata!- anch’io riesco a sentire
le parole balbettate del mio amico.
-N-non lo so…penso stesse venendo da voi,
io…- la voce di Ben, il
respiro affannato di Angie, il rombo del motore sportivo nel cofano. Si
spegne
tutto. Clic.
Tutto
diventa improvvisamente
silenzioso, quando vedo l’ambulanza fermarsi quasi sgommando
vicino a un
qualcosa che si può definire come disastro.
Ci
sono due macchine incidentate,
in mezzo alla strada che la polizia, già accorsa, sta
chiudendo.
Una
delle due macchine è bianca;
potrebbe somigliare ad un’Audi, se non fosse per
l’intero muso piantato nel
fianco della seconda auto. Una seconda auto che invece è
verde, verde cupo; una
BMW Coupé, completamente distrutta. Il pilota ha cercato di
spostare l’impatto
sul lato sinistro, girando la macchina; e l’Audi gli
è entrata completamente nell’abitacolo,
rendendo la bella auto soltanto un ammasso di ferraglia e sedili
squarciati.
È
bella, quella macchina.
Piace
tanto anche a Ray.
E
infatti, quando ha trascinato
tutti e tre al concessionario – felicissima,
perché finalmente ha potuto
comprare la sua prima macchina veramente nuova –, ha scelto
esattamente quella.
La
stessa macchina che adesso è
ridotta ad un ammasso di rottami.
Ci
sono due corpi, stesi
sull’asfalto, accanto alla BMW.
Due
corpi.
Due
corpi velati da un telo
bianco.
Due
corpi.
-Ray!-
sento la voce di Angel
fare eco nella mia, e bruscamente ci buttiamo entrambi fuori
dall’auto,
spaventati, terrorizzati, mentre a terra vedo tanti piccoli dettagli
che
riescono soltanto a farmi sentire ancora peggio.
Ecco
lì un pupazzetto che Ray
tiene in macchina. Teneva.
La
pallina rossa, la pallina
simile alle decorazioni cinesi, che è appesa allo
specchietto. Era.
Due corpi.
Sento
l’asfalto massacrarmi i
piedi, quando mi fiondo assieme ad Angie verso le due macchine
distrutte.
Ray.
Qualcuno
ci ferma: entrambi, ci
ritroviamo bloccati da braccia più forti di noi.
-Ragazzi,
non potete passare, è…-
vedo gli infermieri alzare la barella. Non li avevo scorti, prima;
erano dietro
l’auto di Ray, dall’altro lato rispetto a dove
siamo noi, li vedo spostarsi rapidamente
verso la loro ambulanza.
Vedo
il sangue. Vedo tanto
sangue.
-No…-
sento sussurrare la voce
spezzata di Angel, ed istintivamente la traggo a me, la stringo al mio
petto,
impedendole di guardare. Un istante dopo, la sento singhiozzare;
piange, perché
ha già visto quello che io non ho il coraggio di guardare.
Sangue.
Sangue
ovunque.
Sul
fianco, uno squarcio
tremendo.
Il
collo serrato in un collare,
il viso una maschera rossa, densa, scura.
Pelle
candida. Le da sempre fastidio essere
così pallida.
Capelli
biondi. Ci scherza sempre, dicendo che
sembriamo
gemelli.
-Ray…-
sussurro, e sento il mio
stesso viso deformarsi in una maschera di orrore.
Ray.
Ray.
Cristo,
Ray…
Ha
gli occhi chiusi.
Tamponano
il sangue, ha un
respiratore sul viso.
Ha gli occhi chiusi.
-Ragazzo,
la conosci?- nemmeno mi
accorgo di aver annuito.
-E’…è
mia sorella…- è la mia
voce, quella che sento adesso? Mi sembra così lontana,
così vuota…ma sì,
dev’essere la mia, perché l’agente
improvvisamente mi lascia andare. Mi lascia
libero, libero di muovermi, libero di andare da lei.
Ma
non posso lasciare Angel.
Non
posso costringerla a vederla.
Non
posso lasciarla, non posso
fisicamente lasciarla andare.
È
la mia unica ancora. L’unica
cosa che m’impedisce di crollare.
-Angel…-
sussurro, ed è ricordarmi
che lei è qui, che c’è,
che
singhiozza fra le mie braccia, ad impedirmi di crollare. La stringo
forte, la
stringo a me con tutta la forza che ho; ma non riesco, non riesco a non
vedere
il viso di Ray dietro le palpebre chiuse. Il viso spigliato,
sarcastico,
cinico; il viso che raramente si schiude in un sorriso, e quando lo fa
è
qualcosa di raro, qualcosa di veramente prezioso. Prima.
E
dopo. La maschera di sangue.
Gli zigomi spaccati, le labbra lacere, le guance pallide macchiate di
rosso. Gli occhi chiusi.
E
la sento. Quell’unica lacrima,
rigarmi la guancia e correre a nascondersi fra i capelli del mio
angelo.
Quell’unica lacrima che mi permetto.
Avrò
tempo, da solo, per
piangere.
-Angel…dobbiamo
seguirli.-
mormoro soltanto, dopo quella che mi è parsa
un’infinità. E, quando riapro gli
occhi, vedo l’ambulanza ripartire.
Dobbiamo
seguirla. Dobbiamo
andare con Ray. Non la lascio sola, non adesso, non posso pensare di
non…di…
Improvvisamente,
mi ricordo di
una cosa. Mi ricordo del telefono, mi ricordo di…Cristo, Ben.
Sfilo
il cellulare dalla mano di
Angie, e vedo che la chiamata è ancora aperta. Merda. Merda,
merda, merda.
-Ben.-
comincio, cercando di
restare il più calmo possibile. Eppure, il colpo in pieno
stomaco arriva lo
stesso; arriva, puntuale, quando sento il singhiozzo strozzato
dall’altra parte
della linea.
-W-Will…Will,
cos’è successo a R-Ray…?- lo
sento singhiozzare, il respiro affaticato, stanco, quasi rantolante.
Non voglio
immaginare. Non voglio sapere come si sente, non voglio nemmeno
immaginarlo.
-Ben,
vieni immediatamente in
ospedale.- è tutto ciò che riesco a dirgli. Sono
freddo, lapidario; è l’unico
modo perché riesca a darsi una scossa.
E
infatti, quando parla di nuovo,
è più calmo.
-…okay.-
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My Space:
Dovute, dovutissime, obbligatorie
spiegazioni.
Ho questa fanfiction, che
sarà divisa in tre capitoli, in cantiere da...mesi, penso.
Ne ho altre due, di carattere ben diverso (e anche di diversa
ambientazione), in fase di stesura.
Allora, era parecchio che non
scrivevo su Ray, Angie, Will, Ben. Premetto che questa fic
sarà dai Point Of View dei due biondi, di Ray e di Will:
perché alla fin fine, 'sti due bischeri sono due parti
indistinte della sottoscritta.
Non è stata scritta in
un periodo molto felice, come penso si possa notare ^^" lascio a voi i
commenti e le domande, vi sottolineo solo che la foto incriminata
è questa, scattata sul set del Viaggio del Veliero (sto
contando i giorni all'uscita, sì. E' IN TREDDì!
*O*):
*muori fra atroci sofferenze,
Egerton!!!!!!*
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