DISCLAIMER: Fatti e persone
citati sono puramente casuali. Qualsiasi somiglianza o coincidenza
è altrettanto casuale. Tranne il traffico
sull’Aurelia.
Note:
1.
Il racconto è correlato al precedente Cliché ma solo in quanto ad
un personaggio comune (Andrea) e ad altri citati solamente (Chiara,
Amanda). Piccolemani è a se
stante e può essere letto tranquillamente senza aver letto
prima Cliché (benché se
voi voleste, è sempre lì XD), e temporalmente
è successivo di pochi mesi.
2.
Sono tre parti già terminate (chi mi segue da The way we
were non crederà che a parlare sia io XD) quindi
l’aggiornamento è prestabilibile e
cadrà di sabato in giornata!
3.
Nel corso della storia compaiono tematiche letterarie etiche o
teologiche che siano, sentitivi liberi di dissertare, credo nel dialogo
e nella sofferta e indispensabile arte della dialettica (e forse per
questo a breve mi verrà tolto il diritto di voto,
chissà.) Citando Hillman: “Vi
prego, non siamo a scuola e io non sono il vostro istruttore: lasciate
parlare le idee.” =)
4.
Roma compare molto perché sono vent’anni che ho a
che fare con lei e per quanto controverso sia il mio sentimento nei
suoi confronti e per quanto la trovi mefitica e per quanto i romani a
volte suscitino in me sommo fastidio – solo alcuni
–, credo di esserne un po’ innamorata. Citerei
Majakovskij ma poi diventerebbe troppo sentimentale il tutto (e poi
Roma ha un clima mite XD)
Credit: Titolo e
“sottotitoli” sono parole di E.E. Cummings, la
poesia è
Piccole mani.
In fondo alla pagina il testo integrale.
Piccole mani
PRIMA
PARTE
Il tuo più
tenue sguardo.
Quando la
radio rese noto il blocco al chilometro trecento sull’Aurelia
per Davide era già troppo tardi. Lo aveva scoperto venti
chilometri prima, quando la Panda davanti a lui aveva rallentato
sinistramente, di colpo.
Grazie
tante… pensò
spegnendo la radio con astio legittimo.
Il trittico
Luglio – traffico – Aurelia era rinomato per essere
fatale, e lui era appena caduto nella sua rete.
Se solo non
avesse accettato quell’invito per il finesettimana al mare,
avrebbe evitato quel martirio.
Le dita
composero con un mesto automatismo il numero del suo socio.
“Salvatore?
Faccio tardi.”
“Che
vuol dire? Quantifica tardi.”
“Vuol
dire che sono sull’Aurelia e non si muove niente.”
Ci fu un
silenzio considerevole dall’altra parte.
“Ho
capito. Cederò le tue quote di partecipazione ad Andrea.
È stato bello averti come socio.”
Poi il suo
accento siculo si spense, insieme alla telefonata.
*
“Ma
che succede, si può sapere?”
“Un
incidente?”
“Ma
no, è il tagliaerba del Comune…”
“Senta
scusi, ma alla radio non dicono niente?”
“Lucilla,
avvisa tu in reparto che faccio tardi—“
Davide
pensò di insonorizzarsi passando all’aria
condizionata, quando notò con lampante tempismo di essere
quasi in riserva.
Rifletté
sul fatto che certe giornate non andrebbero vissute, per non correre il
rischio che siano le ultime, a dire dal numero di segnali negativi
incontrati lungo il percorso in sole tre ore dal risveglio.
Del resto
neanche sarebbe potuto tornare indietro, intrappolato tra una Panda
viola dove una donna approfittava del blocco per finire di truccarsi a
dovere al fine di sembrare una persona diversa da quella che il suo
capo si era scopato senza troppe remore la sera prima nel villino al
mare, e una moto cavalcata da un uomo sulla quarantina che non si era
rassegnato né alla fine dei suoi anni di gloria
né all’intelligenza del parlare allo sfortunato
guidatore al suo fianco abbassando la visiera del casco. Davide non
capì una sola parola di quello che gli chiese e
annuì con aria affabile, prima di voltare la testa
dall’altra parte.
Che poi, tutto
sommato, neanche si sarebbe dovuto dispiacere più di tanto,
per quel contrattempo. Non aveva comunque voglia di andare a lavoro. I
soliti venti minuti alla ricerca di un parcheggio,
l’ascensore con la luce ballerina, lo sguardo torvo della
portiera al mancato buongiorno, e l’odore del sigaro che
Salvatore aveva di certo già acceso e appoggiato al
posacenere, in attesa del suo arrivo, al solo scopo di infastidirlo di
prima mattina. “Quando sei incazzato rendi meglio in
tribunale, lo faccio per lo studio” gli avrebbe detto, con
quell’accento siciliano e i baffetti tremolanti sotto il suo
sorriso furbo, ma buono.
Alla fine si
era affezionato a Salvatore, a dispetto di ogni logica e probabilmente
contro ogni buonsenso.
Andrea aveva
insistito perché lavorasse con loro, con il chiaro intento
di designarlo al diritto di famiglia. A causa della sua aria
bendisposta avrebbe ammorbidito qualsiasi assistente sociale e giudice
minorile, a detta del suo socio.
Davide invece
credeva che bisognasse essere squali nella vita, perché la
delicatezza pacifica dei pesci piccoli finiva con altrettanta
semplicità nello stomaco dei pesci grandi.
“Fidati
di qualcuno diverso da te, per una volta. L’ho
assunto.” gli fece sapere
Andrea, lasciandogli un post-it sulla sua scrivania.
Davide si era
fidato, più per costrizione che per scelta, e alla fine pur
continuando a dubitare delle attitudini professionali di Salvatore, si
era affezionato, come uno scemo.
Colpa del suo
accento, dei suoi occhi marroni, grandi e buoni, delle mani grandi che
offrivano sempre un caffè dopo una causa, di quei baffetti
che lo facevano sembrare un anarchico anni venti… insomma,
si era affezionato e basta.
“Parli
di Salvo come se fosse un cane” gli disse una volta Andrea,
sornione “… ma ho capito che ti piace. Allora, ce
lo teniamo, papà?”
Se
l’erano tenuti.
Nonostante la
sinergia trovata con i suoi colleghi, però, Davide non aveva
ugualmente voglia di chiudersi in studio, ricevere telefonate da
clienti preoccupati che l’avvocato avesse dimenticato i loro
guai, fumare sigarette con la finestra aperta alle proprie spalle e
fogli pieni di vicende giuridiche che in qualche modo avrebbe dovuto
dipanare.
Si era
laureato con l’obiettivo – Davide non faceva mai
niente senza uno scopo preciso – di raggiungere la
Cassazione, e da lì di potersi esprimere in
legittimità lasciando giudizi di merito ai suoi colleghi
delle corti d’Appello e dei Tribunali di Regione. Al di
sopra. L’ultimo grado. Sentenza definitiva.
Invece si era
trovato a dividere lo studio con un siciliano dal cuore tenero e un
civilista esterofilo con una contraddittoria passione per il common law
degli spocchiosi cugini d’oltre manica.
Dove avesse
inciampato, non lo ricordava neanche più.
Si era
presentata un’occasione di lavoro, poco dopo la laurea, un
buon apprendistato presso uno studio legale di Milano, e lì
aveva incontrato Andrea, appena laureato anche lui e già
pubblicista per diversi giornali nazionali. Dopo qualche anno e un
concorso aveva ottenuto una cattedra ordinaria a Roma, e
così si erano salutati, fino a quando trascorsi si e no tre
anni Andrea si era fatto di nuovo vivo, piombando tra capo e collo a
Milano. Gli aveva chiesto un appuntamento per un caffè,
assicurando di essere solo in visita, ma sul tavolino del bar gli aveva
sbattuto con il suo solito piglio sicuro un po’ di
scartoffie, che Davide aveva scoperto essere il progetto di aprire uno
studio civilistico.
“Dentro
o fuori?” gli chiese Andrea.
E Davide
rispose: “Dentro”, perché di Milano non
ne poteva più e di essere sottoposto di qualcuno, lui che
sognava l’ultimo grado, neanche.
*
Il telefono
aveva iniziato a squillare da diversi secondi quando Davide, riuscendo
a strappare se stesso dal gorgo di quei pensieri, si affannò
a cercarlo.
“Sì”
disse, portandoselo all’orecchio e riuscendo addirittura ad
inserire la seconda marcia. Forse c’era la concreta
possibilità che riuscisse a lasciare l’Aurelia
prima dell’età pensionabile.
“Ho
appena acquistato le tue quote” gli giunse voce
dall’altro capo.
“Professorino
da quattro soldi” – le labbra sottili tese in un
sorriso di goliardia maschile – “Perché
non sei a mettere sotto torchio qualche studente?”
“Amanda”
fu la risposta, a cui non bisognava aggiungere altro. Amanda tendeva a
compierne una delle sue con una cadenza piuttosto regolare, e la gamma
di possibilità era tanto vasta che ormai chiunque avesse a
che fare indirettamente con lei si riservava di immaginare quale fosse
la fattispecie del giorno.
“Da
quando la frequenti la tua vita è diventata un romanzo
picaresco” osservò allentando il nodo della
cravatta per non soffocare. Nel compiere il gesto fu obbligato a
voltare leggermente la testa, e fu allora che incontrò lo
sguardo di una ragazza, nella macchina accanto.
Lo guardava da
un po’, a dire dalla fissità della sua posizione.
“Smettila
di fare il letterato e presentati in studio, mi ha detto
Salvo—”
Gli sorrise,
scrollando le spalle, a voler sottolineare che non ci fosse niente da
fare ormai se non scrollare le spalle e sorridere,
sull’Aurelia bloccata dal traffico in pieno Luglio.
Davide non
seppe cosa replicare alla spontaneità di quel gesto.
Sentì le labbra ammorbidirsi in quello che in ogni caso non
riuscì ad essere un sorriso. Più per riflesso che
per reale intenzione.
“—
della causa. Capito?”
Lei rimase a
guardarlo ancora, come se il loro scambio non si fosse concluso.
E Davide
rimase a guardarla ancora, chiedendosi cosa volesse. Era una domanda
tuttavia priva di astio o di fastidio, giunti a quel punto, solo piena
di perplessità.
Lei dovette
percepire la sua confusione, e come se avesse registrato in quel
momento che fosse anche al telefono, deviò lo sguardo da
lui. Fu rapida, ma senza alcuna timidezza. Con una certa riservatezza,
anzi. Come se lo avesse lasciato solo nella stanza, alla sua
telefonata, rimanendo seduta in salotto a leggere un libro, nel
frattempo.
“Davide?
Mi senti? Cos’è, un ictus?”
“Sì
ho capito” mentì prontamente. “Poi mi
faccio spiegare da Salvatore.” disse, concludendo la
telefonata.
*
Si
sentì piuttosto idiota quando, allontanando il telefono
dall’orecchio, sorprese se stesso a voltarsi verso la
macchina a fianco. Lo fece come se si trovasse in altro da
sé, e non fosse proprio lui a compiere quel gesto
così infantile. In ogni caso, non trovò la
ragazza. Sparita alla sua vista.
Il che gli
diede modo di tornare a guardare dritto davanti a sé, con
uno scatto brusco come lo è l’imbarazzo.
Che
cazzo fai? Ebbe
il tempo di chiedersi. Nelle circostanze di sommo fastidio verso di
sé si rivolgeva a se stesso allo stesso modo e con lo stesso
tono aspro con cui suo padre lo rimproverava da piccolo.
Niente, fermo
di nuovo. Seconda, prima. In folle.
Di nuovo la
tentazione di voltarsi. Tanto che gli sembrava scomodo guardare davanti
a sé. Come se la naturalezza del corpo lo volesse girato a
guardare nella macchina accanto.
In ogni caso
fu costretto, quando vide qualcosa agitarsi proprio lì
dentro.
Era la
ragazza, riemersa dai meandri in cui era sprofondata poco prima
– per forza è riemersa, ci siamo mossi,
pensò ancora con lo stesso tono appuntito Davide –
che gli faceva cenni con la mano perché si accorgesse del
suo richiamo.
Quando si
voltò la trovò allungata verso il sedile del
passeggero, il corpo teso nello sforzo di premere un foglio a quadretti
contro il finestrino. Nonostante fosse chiaro che quel gesto le stesse
chiedendo uno sforzo di contorsionismo, Davide si prese tempo di
leggere due volte quel foglietto.
Infine
sconfisse la propria incredulità. C’era proprio
scritto così.
Caffè
– autogrill?
*
Che
cazzo fai?
Continuò a ripetersi di nuovo, per tutto il tratto che lo
separò dall’autogrill.
Sempre
trovandosi in altro da sé aveva annuito, ottenendo in cambio
un sorriso compiaciuto dalla ragazza.
Che era
visibilmente giovane e preda di pericolose abitudini autostradali.
Era in
ritardo, ricordò a se stesso, ma aveva anche pensato che in
effetti non aveva fatto colazione.
Salvatore
aveva una pratica da esaminare con lui, una causa piuttosto spinosa a
quanto pareva, ma del resto che fretta c’era, il loro cliente
avrebbe come minimo dovuto pagare gli alimenti, il resto della
separazione dei beni poteva aspettare.
Non gli aveva
di certo consigliato lui di sposarsi.
Quei capelli
erano davvero biondi in quel modo o erano tinti?
E la pelle?
Sole o lampada?
E quanti altri
uomini aveva abbordato in quel modo, in mezzo al traffico?
Aveva un senso
quello che stava facendo?
E se anche non
lo avesse avuto? In ogni caso doveva fare benzina.
Ecco, trovato
il senso.
Quindi, alla
fine, inserì la freccia a destra ed entrò per
primo nel parcheggio dell’Autogrill.
*
Davide era
sempre stato a suo agio nell’arte della parola.
Aveva perso
delle cause, ma anche in quei casi era sempre stato impeccabile
nell’eloquio.
Gli esami ai
tempi dell’università, i colloqui, i
patteggiamenti con l’avvocato avverso e i dibattimenti in
aula, così come gli annunci alle cene di famiglia, i
messaggi di corteggiamento a qualche donna e i discorsi con cui
decideva di recedere dal “nostro rapporto”, le
discussioni di politica e diritto con Andrea, le conversazioni
telefoniche a parenti lontani chiamati confondendo il loro numero con
quello di altri e via di seguito.
Una vita spesa
nella più attenta cura della forma, al punto da esasperare
persino la pignoleria di Andrea.
A Davide
capitava ancora più che al collega di foderare ogni
contenuto con un tessuto di parole in perfetta armonia sintattica tra
loro; il pathos di un discorso con le sue vette aspre e i suoi
dislivelli tonali era tenuto sotto controllo da una melodia di
assonanze. “Sei disgustosamente d’annunziano. E
alla Corte piace.” borbottava Andrea, che prediligeva la
sintassi stringata e sincopata, come i suoi gesti e i suoi rigidi
dogmatismi giurisprudenziali.
Restava il
fatto che nel parcheggio di quell’autogrill Davide non sapeva
assolutamente che cosa dire.
“Scusa
se mi sono permessa” disse infine lei, rompendo il ghiaccio.
“Ma la situazione era comunque tragica,
quindi…” lasciò incompiuta la frase, in
quello che Davide aveva sempre ritenuto un vizio da analfabeta o nel
caso migliore da indeciso. Eppure quei puntini di sospensione,
abitualmente tanto accondiscendenti e vili, usati in quel contesto e
accompagnati da quel sorriso e quel modo di gesticolare, ebbero quasi
un senso.
“Viola”
aggiunse, senza prendersi la briga di costruire una frase intorno ad
un’informazione, valutò ancora Davide.
Si
presentò a sua volta, porgendole la mano, come era sua
abitudine. Gli era utile porre una certa distanza tra sé e
il prossimo, ché poteva essere un prossimo amico o un
prossimo avversario o una prossima sventura, un prossimo
rimorso… e via di seguito.
Viola
ricambiò la stretta, ma decise anche di sporgersi verso di
lui e dargli due baci sulla guancia.
Le era
piaciuta da subito, quella barba rada, un po’ incolta
– che Davide aveva in mente di eliminare appena arrivato allo
studio – e aveva voluto conoscerne la consistenza. Ma questo
non lo disse subito, preferendo lasciare a lui lo sgomento e a se
stessa un briciolo di timidezza a riguardo.
“Ciao”
la sentì approcciare il barista.
Inutile dire
che lui avrebbe scelto un convenevole appena più distaccato.
Vedendola accanto a sé si chiese che effetto facessero
vicini. Cosa potesse pensare la gente del loro modo di ordinare una
colazione in un autogrill. Si chiese se la cassiera alle loro spalle li
avesse ritenuti due amici in viaggio, o se il barista li avesse
scambiati invece per una giovane coppia prossima ad un figlio magari, o
se ancora quel turista dalla pelle bianca e l’abbronzatura
aragosta si stesse chiedendo che ci facessero l’acqua e il
fuoco fianco a fianco in un bar di passaggio autostradale.
O forse a
nessuno frega niente vociò esasperato il se
stesso–padre nella sua testa.
“Un
succo d’arancia e quei pasticcini lì”
ordinò lei.
“Un
caffè” la seguì Davide guardandola
vagamente interdetto senza accorgersi di averlo fatto.
“Perché
mi guardi così?” chiese infatti Viola, per un
momento perdendo la spigliatezza con cui si era presentata. Davide
scosse la testa, ma infine non riuscì a non dirlo.
“No,
è che… sembra la colazione di un
bambino.” Non intendeva esprimere giudizi di valore,
benché si rese conto ascoltando le proprie parole che fosse
difficile non credere il contrario.
Tuttavia Viola
scrollò le spalle, cercando di tenere a freno
l’offesa.
“La
tua sembra quella di un amministratore delegato”
replicò bevendo il suo succo d’arancia.
“Avvocato”
la corresse, sentendo l’ars oratoria tornare in carreggiata.
Un lampo di
curiosità le accese lo sguardo, e si sentì nudo,
senza capirne esattamente il motivo.
“Andavi
in tribunale?”
“No,
stavo raggiungendo un collega. Abbiamo uno studio privato.” Perché
dai tutte queste informazioni? Questa volta era la
voce di sua madre, in quel suo solito allarmismo ereditato da una vita
di paese trapiantata in città.
“Penalista.”
“No,
civilista.”
“Non
ne indovino una” commentò Viola – Viola,
che nome insolito – ridendo di sé. Sembrava
felice, però, di sbagliare ogni pronostico.
“Tu
che ci facevi sull’Aurelia?”
“Tornavo
dal mare.”
“Troppo
facile.”
Si
meravigliò di sé scoprendosi interessato ad una
risposta che fosse esaustiva. Si disse che anche quella era una
deformazione professionale, come il pensiero di fare ricorso a priori
ad ogni multa ricevuta o quello di leggere dettagliatamente tutta la
posta condominiale con la certezza di trovarvi un tranello di bassa
lega ordito da quella mente poco vivace dell’amministratore
– oppure si trattava solo della legittima rassicurante
pretesa di avere tante informazioni quanto quelle fornite a sua volta.
Oppure, Viola
aveva un modo di sorridere accattivante, e lui non aveva mai incontrato
qualcuno che proponesse una colazione ad uno sconosciuto adocchiato nel
traffico.
Adocchiato,
pensò, rimproverandosi la supponenza.
Magari era
solo una giovane annoiata in cerca di avvenimenti insoliti da
raccontare ad una cena tra amiche su una terrazza del Gianicolo.
Se
la smettessi di pensare per luoghi comuni? Proprio tu, che metti il
naso nelle più sordide attività illecite di
cittadini al di sopra di ogni sospetto si
rimproverò ancora.
“Faccio
la traduttrice” gli concesse Viola, addentando un biscotto.
Gli offrì l’altro rimasto, ma Davide
declinò cortesemente. Prima delle dieci il suo stomaco era
ermeticamente chiuso. Anche dopo le dieci, in realtà. Stress
e mancanza di tempo per mangiare, a quanto pareva.
“Dall’aramaico?”
la prese in giro cedendo infine al suo bisogno di controllo.
Viola
socchiuse gli occhi sorniona.
“Dall’ebraico
e dall’arabo.”
“Sei
seria?”
“No,
era per smontare il tuo altezzoso scetticismo” eppure
continuava a sorridergli, più in alto di lui.
Davide lo
aveva sempre saputo che l’ironia è più
forte di ogni sarcasmo.
Anche del suo.
“Quindi
traduci dal sumero.”
“Occasionalmente
anche dal sanscrito.”
Il barista li
guardava come se stesse assistendo ad una scena del teatro
dell’assurdo.
Davide si
sentiva in ogni caso calato nella parte, per quanto non riuscisse ad
uscire da quella condizione di leggera idiozia.
“Mi
arrendo” disse, sollevando le mani.
Viola lo
guardò e fece un cenno con la testa: la abbassò
appena, le ciglia ad ombreggiare lo sguardo.
“Ebraico
e arabo.”
“Va
bene, ci credo.”
*
“Adesso
te ne torni in studio?”
Avevano ormai
raggiunto le rispettive macchine.
Erano
parcheggiate una accanto all’altra, e la macchina lunga e
grigia di Davide aveva un’aria imponente al fianco della
scatoletta colorata di Viola. Sembrava le facesse la guardia,
pensò lei, facendo di nuovo quel cenno con la testa, per
nascondere un sorriso.
“Traffico
permettendo, è quello che mi tocca. Tu se non altro puoi
lavorare per prati.”
Tirando fuori
le chiavi della macchina prese atto di avere ancora meno voglia di
prima di tornare a Roma.
Avrebbe voluto
chiedere a Viola perché avesse scelto proprio ebraico e
arabo tra tante altre lingue europee e di narrativa contemporanea. Ma
forse lavorava per qualche ambasciata, e allora era stata una scelta
logica e guidata.
Viola non
rispose, come se non avesse ascoltato. Rimase in silenzio, facendo
ciondolare le chiavi tra le dita, avanti e indietro, a lui
ricordò le altalene del parco in cui lo portava sua madre da
piccolo. Che pensieri assurdi. Adesso non avrebbe neanche saputo
riconoscerla, un’altalena.
“Dov’è
il tuo studio?” chiese di improvviso Viola, dopo lungo
pensare.
Sembrava
essere venuta a patti con se stessa, e non lo guardava più
in volto come poco prima, al bar, tra succo d’arancia
caffè e pasticcini, di colpo schiva, lunare.
Davide si
sentì sputare fuori l’indirizzo corredato anche di
numero civico.
Non aggiunse
altro, sapendo che nella palazzina il loro fosse l’unico
studio legale.
E in ogni caso
era ancora troppo frastornato dalla situazione per poter compiere
scelte avvedute e ripartite secondo logica.
“Ho
capito.” disse soltanto, Viola, rimanendo in silenzio di
nuovo per qualche secondo. Davide sperò – con la
parte che era in altro da sé – che stesse
sfruttando quel tempo per memorizzare l’indirizzo. Se fosse
stato meno dignitoso forse avrebbe aperto la propria macchina,
spalancato il cruscotto e le avrebbe dato il suo biglietto da visita.
Ma gli parve in qualche modo volgare e troppo compromettente.
“Buon
viaggio, allora” si congedò dopo averla
ringraziata per l’idea della colazione.
Viola
annuì, riacquistando il sorriso di poco prima. Davide ebbe
l’impressione che fosse un sorriso ironico diretto
personalmente a lui e al suo modo di fare. Sembrava lo trovasse buffo.
Seppe da subito che non avrebbe potuto fare niente, in merito.
“Anche
a te. È stato un piacere.”
Lo
baciò di nuovo sulle guance, per sentire ancora la sua barba
ispida
Non sapeva,
Viola, se avrebbe davvero trovato il coraggio di cercare il suo studio.
Quindi tanto
valeva accomiatarsi da ciò che per primo di lui
l’aveva conquistata dal finestrino assolato della sua
macchina.
--
Piccole
mani
Il
tuo più tenue sguardo
facilmente
mi aprirà
benché
abbia chiuso me stesso
come
dita
sempre
mi apri petalo per petalo
come
la primavera fa
toccando
accortamente
misteriosamente
la sua
prima
rosa
e
io non so quello che c’è
in
te che chiude e apre
solo
qualcosa in me
comprende
che è più
profonda
la luce dei tuoi
occhi
di tutte le rose.
Nessuno
neanche
la
pioggia ha
così
piccole mani.
A sabato
prossimo!
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