SoldatoTestardoefp
Barriera
psichica scelta: #05. L'aspettativa mira alla milza.
Citazione
scelta: #31. Non cercare di diventare un uomo di successo,
ma piuttosto un uomo di valore. (A. Einstein)
Note
ed eventuali dell'autore: La canzone ebraica citata nel
corso del racconto ("Shir
Ahava Lachayal (Canzone d'Amore per un Soldato)")
appartiene a Betzalel Aloni (paroliere), Amir Frohlich (compositore) e
Ofra Haza (cantante).
La traduzione in italiano è mia, eseguita su una traduzione
inglese dall'ebraico, lingua che mi rammarico di non conoscere.
Eventuali errori sono imputabili solo alla mia ignoranza in materia.
I personaggi, invece, sono frutto della mia immaginazione, pertanto di
mia esclusiva proprietà.
La situazione bellica descritta nella storia fa riferimento alle prime
fasi del conflitto afghano, quando Herat era ancora un teatro attivo di
scontri militari. Ora si tratta di una città abbastanza
pacifica, benché non lo siano affatto alcune zone
circostanti,
quali l'area di Shindand (a sud) e di Bala Murghab (a nordest).
Per non appesantire lo schema, ho preferito aggiungere le note vere e
proprie in fondo alla storia; la consultazione è opzionale,
ma
vivamente consigliata, in particolar modo per quanto riguarda il
glossario di termini ebraici e l'interpretazione della citazione.
Quest'opera è pubblicata sotto una Licenza Creative
Commons.
Prologo
"Mammina, mammina!
Guarda!"
Daniel entrò
di corsa in cucina, dove la madre stava sfogliando con aria assorta un
manuale di ricette kasher, dalle pagine ingiallite e
costellate di macchie d'unto.
Non appena
udì il grido
gioioso e lo scalpiccio di piedini sul pavimento, la donna richiuse il
volume malconcio e si voltò, ammonendolo: "Daniel, non ti ho
forse insegnato che è da maleducati, strillare senza alcun
motivo? E anche correre per casa..."
"Mammina, è
importante!" la interruppe il bambino, troppo eccitato per prestare
attenzione a quelle regole.
Si issò sulle
gambe paffute,
cercando di colmare la distanza fra i loro volti, quindi
aprì le
manine. Un passerotto tremante, una cosina gracile poco più
grande di una noce, pigolò, ferito dalla luce artificiale
della
stanza, e sbatté piano le alucce, ancora incapaci di volare.
Daniel lo aveva trovato
quel
pomeriggio, appena rientrato da scuola: passando sotto l'albicocco al
centro del cortile, era stato attirato da un flebile gridolino e, tra
l'erba e le radici dell'albero, aveva scorto quella palletta piumata,
che strideva e saltellava nella vana speranza di riuscire a tornare al
nido da cui era caduto.
Immediatamente, aveva
pensato al
gatto dei vicini, dall'azzeccato nome di Lucifero, quella bestiaccia
sempre affamata che l'estate prima si era mangiata il coniglietto di
Myriam, anche se non c'erano prove e i padroni avevano giurato
sull'innocenza del loro "ciccino". Benché non fosse affatto
della taglia delle sue prede, il bambino sentiva un brivido
attraversargli la schiena, ogni volta in cui quell'animale gli invadeva
il giardino di casa con la prepotenza noncurante di un principe
filisteo.
Chissà cosa
ne sarebbe stato di quel povero uccellino, se non lo avesse trovato per
primo...
"Ti è andata
bene, piccolino"
aveva concluso, stringendolo tra le dita quel tanto che bastava per
spostarlo di lì senza fargli del male.
Era rimasto chiuso in
garage per il
resto della giornata, usando la pinzetta di nonna Judith per imboccare
la bestiolina con i lombrichi che zio Aaron teneva in serbo, quando
arrivava la primavera e le battute di pesca si facevano più
frequenti.
All'inizio, il
passerotto aveva
opposto resistenza, apriva il becco solo per trillare e provava
disperatamente a saltar fuori dalla scatola piena di ovatta in cui
l'aveva adagiato. Poi, accortosi che quello strano oggetto metallico
gli offriva lo stesso cibo che gli avrebbe dato la sua mamma, si era
lasciato nutrire senza fare altre storie. Ora che aveva mangiato a
sazietà, sembrava anche più grassottello e vivace
rispetto a quando lo aveva raccolto dal terreno umido.
Dal canto proprio,
Daniel non si era
mai sentito così orgoglioso di se stesso, se non forse quel
giorno in cui papà gli aveva detto che era abbastanza grande
per
poter imparare la Shema.
Neanche un bel voto a scuola, o i complimenti del rabbino capo per la
sua devozione religiosa, lo rendevano felice quanto sapere di aver
sottratto una bestiolina indifesa alle grinfie fameliche di Lucifero.
Era certo che mamma, non
appena
avesse saputo com'era stato generoso, lo avrebbe coperto di baci, gli
avrebbe detto che era molto fiera del suo piccolo ometto ebreo e,
magari, gli avrebbe persino preparato i lokoum.
Già pregustando il delicato aroma dei suoi dolcetti
preferiti,
la incalzò, impaziente: "Mammina, hai visto? Hai visto?"
Per tutta risposta, la
madre
aggrottò le sopracciglia in un'espressione irritata, mentre
indagava: "Dove hai preso quella schifezza?"
No, non erano
esattamente le parole
che si aspettava di sentire, neppure il tono gli pareva tanto
piacevole: mamma sembrava molto arrabbiata e lui non riusciva proprio a
capire perché.
Si accorse che non
portava i suoi
occhiali da vista, quindi gli venne da pensare che, forse, aveva
scambiato il passerotto per un topo- mamma aveva una fifa blu dei topi,
come lui l'aveva delle punture-.
Così,
avvicinò ancora
di più le mani aperte al suo viso e insistette: "Mammina,
è un uccellino. E' caduto dal nido, dal nostro albero, e io
ho
pensato di aiutarlo... E' così piccolo..."
Stava per domandarle se
aveva fatto
bene a salvarlo o no. Per fortuna o purtroppo, la replica giunse prima
di averne la possibilità: "Daniel, dimmi un po': hai fatto i
compiti, prima di occuparti di quella... cosa?"
Sbiancò di
colpo, incapace di parlare, soffocato dall'improvvisa consapevolezza
della propria mancanza.
Era stato a tal punto
occupato ad
accudire il passerotto da aver dimenticato del tutto i compiti, sia
quelli di scuola, sia il brano della Torah
che avrebbe dovuto imparare a memoria per il giorno successivo.
Perciò, riuscì soltanto ad abbassare lo sguardo e
ad
ammettere, in un balbettio contrito: "Io... Io volevo salvare
l'uccellino... Me lo sono scordato."
Un qualsiasi altro
bambino, ad
esempio Myriam, avrebbe sfoderato un sorriso fasullo e assicurato alla
mamma di aver svolto il proprio dovere, anche se non era vero. A lui
non sarebbe mai riuscito nulla del genere, ogni volta in cui provava ad
inventarsi una bugia arrossiva, incespicava nelle parole e, come ogni
colpevole raggiunto dalla giustizia di D.o, si tradiva.
Aveva smesso di provarci
da anni,
ormai: la verità e gli sculaccioni potevano anche essere
dolorosi, ma almeno erano semplici. E rapidi a passare.
Tuttavia, quella volta
la mamma non
sembrava affatto intenzionata a picchiarlo. Si limitò a
fissarlo
con un'occhiata colma di biasimo e delusione, prima di concludere,
gelida: "Sei maleducato, distratto e disobbediente. Un pessimo ebreo, e
di sicuro non combinerai mai niente di buono nella tua vita."
Il rimproverò
lo colpì con violenza, a tradimento, peggio di uno schiaffo
in pieno volto.
La freddezza ingiusta di
quel
giudizio gli raggelò le lacrime tra le ciglia e la preghiera
in
gola, la supplica a D.o di sottrarlo a quella fiaba alla rovescia, cui
un mago invidioso della felice sorte dei protagonisti aveva cancellato
il lieto fine.
Però, D.o non
avrebbe mai
ascoltato un bambino inaffidabile come lui: D.o non ha tempo per i
peccatori, anche se lui restava convinto di non aver fatto nulla di
male.
La sua opinione in
proposito,
però, gli aveva insegnato il rabbino capo, non aveva alcuna
importanza agli occhi sempre vigili dell'inflessibile D.o.
"Non startene
lì impalato, a
piagnucolare e tirar su con il naso! Abbi almeno un po' di contegno..."
lo sgridò la madre, dandogli anche un energico scrollone per
sottolineare la gravità del concetto. "Ora, liberati di
quella
schifezza, prima che torni tuo padre."
"Ma, mammina" fu la sua
debole
protesta, messa insieme a stento tra un singhiozzo intimidito e
l'altro, "Lucifero se lo mangerà, come ha fatto con
Ircano..."
"Ircano è
morto perché
era vecchio e malato, quelle sono sciocchezze che vi siete messi in
mente tu e Myriam" obiettò la madre, mentre lo strattonava
per
la camicia e lo sospingeva fuori dalla cucina. "E, ad ogni modo, tu non
puoi farci niente, se questo è quello che il Santo Benedetto
ha
deciso per lui. Lo hai anche intralciato abbastanza, raccogliendo
quella bestiaccia e giocherellandoci tutto il giorno, invece di pensare
a costruire il tuo futuro."
Le punture non erano
nulla, in confronto a quella pioggia crudele di accuse.
Se non avesse avuto le
mani impegnate
a sorreggere il passerotto, Daniel se le sarebbe portate alle orecchie,
per non udire più quel tono cattivo, ma era già
troppo
tardi. Avrebbe riascoltato quella pioggia perfida di parole in ogni
incubo, ogni volta in cui si sentiva impotente e vulnerabile, per
sempre.
Per sempre. Per sempre. Per sempre.
Uscì di casa
a testa china, a
passo lento, attraversando il cortile; non si era mai accorto prima che
l'erba pungesse così contro la pelle, né che il
vento
fosse tanto freddo da pizzicargli il viso alla maniera una zia
più invadente che affettuosa.
Giunse ai piedi
dell'albero e depose
di nuovo l'uccellino tra le radici scoperte, forse nello stesso punto
in cui l'aveva trovato poche ore prima. Si stava facendo buio e i
contorni delle cose diventavano indistinti. O, forse, era solo il velo
di pianto represso che gli appannava la vista a mostrargli un mondo
così confuso.
L'animaletto
agitò le ali
nella goffa imitazione di un volo, quindi sollevò la
testolina e
gli indirizzò un cinguettio dubbioso, qualcosa del tipo "E
adesso, mi lasci qui tutto solo?"
Quanto tempo avrebbe
impiegato
Lucifero a fiutare il suo odore nell'aria, a stringere gli artigli
attorno al suo corpicino privo di difese, finché l'ultimo
soffio
di vita non sarebbe sfuggito dal suo becco insieme ad un fievole
pigolio?
Di certo, meno di quanto
avrebbe
impiegato lui per girare sui tacchi, rientrare in casa e affidarlo a
quell'impietoso destino, obbedendo agli ordini della mamma, da bravo
figlio, bravo uomo e bravo ebreo.
Era come se gli avessero
chiesto di abbandonare un pezzo della sua innocenza, ai piedi di
quell'albicocco.
Come quando lui e Myriam
giocavano
insieme e lei si nascondeva nel capanno degli attrezzi, fingendo di
essere stata rapita dai mercanti di schiavi. E lui si immedesimava a
tal punto da pensare, di tanto in tanto, se sarebbe davvero stato in
grado di riabbracciare la sua amica, o se l'avrebbe persa per sempre.
Allora, Myriam era solo
a qualche
metro da lui, rideva di cuore del suo essere ancora così
bambino, e spesso anche lui finiva per trovare ridicola quella lugubre
illusione.
In fondo, si trattava di
un gioco.
Ora, invece, stava per
tradire una creaturina viva e reale, che dipendeva da lui, che si
fidava di lui, ciecamente.
Perché
l'onnipotente D.o., che
aveva fermato la mano di Abramo prima che squarciasse il collo del
figlioletto Isacco, che aveva riscattato il Popolo dalla
schiavitù in terra d'Egitto, avrebbe dovuto desiderare la
morte
di quella bestiolina inerme?
Perché il
misericordioso D.o avrebbe dovuto comportarsi peggio di un mocciosetto
viziato e inutilmente malvagio?
Il moto di ribellione
gli esplose
dentro, tra il diaframma e la milza, un misto di rabbia, paura e
disperazione che gli contrasse lo stomaco in una morsa tenace, una
sensazione fino a quel momento sconosciuta e che lo prostrò
quanto un attacco di nausea.
Vacillò sulle
gambe malferme e
cadde in ginocchio sul terreno, mentre si portava una mano al cuore,
per il suo giuramento solenne.
Promise, su
ciò che può
avere di più caro e sacro al mondo un bambino di soli nove
anni,
che non si sarebbe sentito di nuovo in colpa per aver salvato una vita,
a costo di essere giudicato un pessimo figlio, un pessimo uomo e un
pessimo ebreo, mai più.
Mai più, mai più, mai più.
I.
"Atah metayel levad'cha
sham ba'ir
Metayel levad'cha ve'oti
lo makir
Ayef uvaishan, ken,
chayal ko akshan
Nu, az mah im amarti
milah le'acher?"
(Trad.: "Tu cammini da
solo laggiù in città
Cammini solo, e non mi
riconosci
Stanco e taciturno,
sì, un soldato così testardo
Bene, e se io rivolgessi
la parola ad un altro uomo?")
"Ascolta Israele, il
Signore è il nostro D.o, il Signore è Uno."
Steso supino sul letto, una mano a coprirgli gli occhi secondo le
prescrizioni rituali, Daniel recitò ad alta voce il primo
versetto della Shema.
Quindi, si rimise seduto sul materasso ruvido, alzando lo sguardo verso
il soffitto, solcato da un fitto reticolo di crepe.
Neppure lo stucco più resistente, né il muro
più
solido riuscivano a sopportare a lungo intatti l'onda d'urto delle
continue esplosioni, che scuotevano i giorni e rischiaravano le notti
nella terra desolata di Herat.
"Sia benedetto il Santo
Nome del Suo Regno per sempre e in eterno" aggiunse,
questa volta in un mormorio appena percettibile.
Ad ogni buon conto, non era necessario abbassare più di
tanto la
voce, dal momento che la camerata era perennemente invasa da una ridda
di suoni cozzanti l'uno con l'altro: il vociare dei soldati, ora
scanzonato ora angosciato, il trapestio degli ufficiali medici, sempre
di fretta tra i reparti, ogni orecchio teso a percepire un sospetto
intensificarsi del brusio, il quale poteva avere un solo significato.
Il peggiore possibile.
Sebbene non lo avesse ritenuto credibile, i primi giorni in cui era
arrivato laggiù, aveva finito per assuefarsi a propria volta
a
quella calma rumorosa, a quella simulazione di tranquillità.
Tanto che, nelle rare occasioni in cui il chiasso si spegneva del
tutto, si ritrovava ad acuire i sensi, come un animale braccato, che
identifica per istinto l'assenza di suoni nella foresta con il segnale
dell'imminente catastrofe.
Inoltre, aveva ripreso a pregare, abitudine inculcatagli dalla rigida
disciplina familiare che aveva abbandonato non appena la maggiore
età glielo aveva permesso.
Non che fosse mutata la sua attitudine religiosa, tendente ad un
agnosticismo radicale, tuttavia, si era accorto che recitare quelle
poche parole gli infondeva sicurezza.
Quelle semplici frasi di riconoscenza erano appigli, quanto i momenti
della giornata che scandivano, albe e tramonti; udire la propria voce
mentre li affermava era un modo come un altro per assicurarsi di essere
ancora al mondo, incolume.
E in quel limitato universo di precarietà che era l'ospedale
militare di Herat, dove il commilitone con cui avevi scambiato un paio
di battutine pesanti in mensa poteva ricomparirti dinanzi sul tavolo
operatorio, un ammasso esanime e informe di carne bruciata, D.o solo
sapeva se non si aveva bisogno di qualche effimera certezza per tirare
avanti senza impazzire.
Giorno dopo giorno, scaramuccia dopo scaramuccia, caduto dopo caduto.
Forse era davvero un pessimo figlio, un pessimo uomo e un pessimo
ebreo, nonché un pessimo medico, ma ogni mattina si alzava
con
la consapevolezza di essere migliore della maggior parte dei suoi
correligionari, che se ne stavano rintanati al sicuro, nelle loro belle
case, a pregare il Santo Benedetto affinché conservasse loro
salute sufficiente ad incrementare ancora il patrimonio.
Lui non pregava per restare vivo, lui pregava perché era rimasto vivo.
Si svestì, ammonticchiando gli abiti ben piegati sul letto,
poi
approfittò della pace momentanea per infilarsi sotto la
doccia.
Anche l'acqua a malapena tiepida che scivolava carezzevole sulla pelle
era un buon modo per ritornare al mondo, oltre che per tentare di
levarsi di dosso il mefitico odore di disinfettante ospedaliero. In
pratica, trascorreva la sua vita da sveglio a suturare, medicare e
visitare soldati feriti, pertanto era un inconveniente inevitabile che
quella puzza soffocante gli impregnasse vestiti e capelli.
Pareva quasi capace, nella sua sottile persistenza, di penetrare fino
all'anima, alla stregua dell'immagine grottesca di un incubo
ricorrente, o del bel volto dolce di un ragazzo amato.
Fili spioventi d'oro
rosso. Fili impalpabili di fine rame.
Rosso, mancino e
astemio, che trinomio promettente.
Fulvo, affilato e
inafferrabile, come quella piccola volpe.
Tossì di colpo, a fiato mozzo, sorpreso di essere
così
spossato da assopirsi a bocca aperta sotto il getto della doccia.
Richiuse il rubinetto con una manata stizzita, come se quel gesto
potesse bastare a scacciare il fantasma che aveva fatto capolino a
tradimento nei suoi ricordi, ottusi dal poco sonno e dalle lunghe
veglie.
A testa bassa e grondante d'acqua, fece ritorno nello stanzone che
condivideva con il proprio diretto superiore ed un pari grado, entrambi
assenti: il capitano Marcomanni gli aveva dato il cambio nel giro
serale di visite, mentre il tenente Acquasparta si era aggiudicato una
settimana di licenza straordinaria per poter assistere alla nascita del
suo secondogenito.
Si fermò proprio dinanzi al comodino di quest'ultimo, o
almeno
al cubo metallico spoglio che doveva essere definito tale, sul quale
troneggiava la foto della sua famiglia, uscita dritta dritta da una
pubblicità edificante del Mulino Bianco.
La moglie era una biondina vestita e pettinata dal creatore di Barbie,
la cui somiglianza con la celebre bambola finiva soltanto nel pancione
prominente seminascosto dagli abiti. Accanto a lei, la figlioletta
sdentata, il ritratto sputato di Acquasparta, solo femminile e in
miniatura, una cucciolotta di cinque anni cui ogni tappa della vita era
diventata questione di vita o di morte in sala mensa, poiché
il
padre sottoponeva chiunque fosse abbastanza incauto da prestargli
attenzione ad un resoconto dettagliato delle attività
giornaliere della piccola. Addirittura, qualche giovane sottoufficiale
dotato di spirito goliardico sosteneva di poter elencare i giorni
esatti in cui la bambina aveva detto la prima parola, messo fuori il
primo dentino, inondato la tata con il primo rigurgito.
Nel corso della loro breve convivenza forzata, Daniel aveva imparato a
tollerare l'invadenza di Acquasparta e ad ammirarlo, per i suoi caparbi
tentativi di essere, allo stesso tempo, un soldato capace ed un padre
affettuoso.
Niente a che vedere con il monolitico e irraggiungibile patriarca che
gli era toccato in sorte; un uomo che amministrava casa ed affetti con
il rigore appropriato piuttosto ad un ordine sacerdotale, e non si
aspettava altro dai sottoposti, all'infuori dell'obbedienza.
Quel sorriso fanciullesco gli riportò alla mente lo
spiacevole
episodio del quale era stato involontario protagonista, quel
pomeriggio. Un altro sprazzo di memoria di cui avrebbe fatto volentieri
a meno, in quella serata monotona e solitaria.
Nei giorni precedenti, era stato impegnato senza sosta in sala
operatoria, nella testarda speranza di poter fare il possibile e,
soprattutto, l'impossibile per salvare una pattuglia di poliziotti
afghani, coinvolta in un attentato dinamitardo. Prima, un'esplosione
nei pressi del mercato nel giorno di maggiore affluenza li aveva
attirati sul posto, poi una seconda autobomba li aveva sorpresi mentre
erano intenti a soccorrere i feriti.
Era stata una mattanza, la peggiore negli ultimi sei mesi di scontri,
nonché la sua prima sconfitta di medico.
Senza ombra di dubbio, i Taliban non possedevano i potenti mezzi e le
tecnologie dell'Isaf, ma basta un pugno di uomini privi di aspettative
per il futuro per condurre un'efficace guerriglia di logoramento.
I commilitoni glielo ripetevano in tono ormai rassegnato: in un
conflitto a fuoco, puoi illuderti almeno di intravvedere il nemico, di
colpirlo davvero e non solo perché i capi spedizione ti
hanno
assicurato che la bomba è caduta su un covo di avversari,
invece
che su una scuola o su un ospedale. Al contrario, quando si tratta di
bombe piazzate sulle strade di pattuglia, beh, non puoi fare altro che
raccogliere i pezzi e scappare il più velocemente possibile,
augurandoti che le perdite siano minime.
Daniel era uno di quelli che si occupava di raccogliere i pezzi e
rimetterli insieme, contro ogni fosca previsione di disastro; quasi
sempre, ma non quella volta.
Mentre ripensava a quei momenti di assoluta impotenza, si
guardò
distrattamente le mani, quelle mani che tutti reputavano in grado di
compiere miracoli, di riacciuffare la vita che già scorreva
fuori copiosa insieme al sangue, di lottare e vincere in barba al
volere di D.o in persona.
Quelle mani che avevano tastato per la prima volta i confini che
delimitavano la sua natura umana e fallibile. Forse si aspettava di
trovarvi un taglio, una ferita fisica che corrispondesse alla ferita
dell'orgoglio dinanzi a quella spiazzante constatazione.
Era un pensiero insensato, perciò lo liquidò con
un'alzata di spalle; quanto al resto, non sarebbe evaporato con
altrettanta facilità.
Tra i caduti vi era anche Kashar, un giovane agente che spesso
pattugliava l'area antistante l'ospedale e con cui aveva finito per
stringere amicizia, nonostante fossero entrambi assai diffidenti.
Kashar gli aveva insegnato quel poco di pashto
che ora Daniel masticava, e gli aveva rivelato di essere all'incirca
suo coetaneo, anche se le rughe che segnavano quel viso provato
parevano suggerire il contrario. In quella terra sempre dominata e mai
davvero libera, dove non esistevano anagrafe e documenti,
perché
la fugacità con cui una vita poteva sbocciare, fiorire e
appassire le rendeva del tutto superflue, nessuno restava giovane
troppo a lungo.
In nome di quel labile legame, Daniel aveva accettato di parlare
personalmente con la vedova del poliziotto per restituirle il corpo. Si
era ritrovato davanti un'adolescente spaurita, almeno a giudicare dalla
voce spezzata che emergeva dal viluppo di panni violacei del burqua,
una gabbia asfissiante frapposta fra loro, che gli impediva di supporre
altro riguardo alla sua interlocutrice.
Tuttavia, era quasi sicuro che fosse bella, o lo era stata prima che i
lutti la devastassero, poiché la bimbetta che nascondeva il
faccino tra le pieghe della veste della madre non somigliava affatto a
Kashar, negli occhioni ancora sognanti e nei boccoli crespi color ebano.
Mentre si sforzava di mettere insieme le solite trite
banalità
di circostanza in arabo corretto, la ragazza lo aveva interrotto con un
cenno brusco della mano e aveva scompigliato la chioma sporca della
figlioletta, asserendo: "Zahida."
Benché fosse del tutto ignaro del suo significato, Daniel ne
apprezzò la musicalità esotica e pensò
che si
trattasse di un nome appropriato per quel musetto grazioso.
Allora, la giovane aveva dato una spintarella alla bambina nella sua
direzione, incurante del fatto che la piccola fosse subito scoppiata a
piangere e si fosse aggrappata agli abiti della madre,
finché le
nocche non sbiancarono da quanto stringeva la stoffa con la forza della
disperazione. Subito dopo, tra un fruscio d'abiti e un singhiozzo
inghiottito a fatica, alcune banconote da dieci dollari erano apparse
nelle dita guantate della vedova, un segnale orribilmente eloquente
delle sue intenzioni.
Daniel era impallidito, mentre la serenità di star compiendo
una buona azione si tramutava in sgomento.
In un profluvio di frasi imbarazzate, tentò di spiegarle che
non
aveva la benché minima intenzione di comprare sua figlia,
che il
suo ruolo e i suoi valori non gli avrebbero mai permesso di abbassarsi
a quel livello di meschinità. Neppure se si trattava di
aiutare
una vedova di guerra e di assicurare un'aspettativa di vita migliore a
quella piccina orfana, i due occupanti del gradino più basso
della scala sociale di un paese sull'orlo del baratro civile e politico.
Ma suonava piuttosto come una pietosa giustificazione rivolta a
sé che ad un vano intento di dissuaderla da quell'atto,
insieme
d'amore e di crudeltà; non poteva abdicare a se stesso per
un
atto di altruismo.
L'apprendere questo, l'incapacità di poter essere utile a
quelle
due creature condannate ad una sorte infelice, lo aveva torturato
più della certezza che Kashar era morto sotto i ferri, tra
le
sue mani sporche di sangue e di colpa.
Le aveva guardate allontanarsi lungo la mulattiera polverosa di una
città assediata, e si era domandato quanto avrebbe impiegato
quella ragazzina fragile, costretta a crescere anzitempo, per trovare
qualcuno più spregevole di lui, con cui barattare la vita di
Zahida per una manciata di dollari spiegazzati.
Tanto quanto aveva
impiegato Lucifero per divorare il passerotto caduto dall'albicocco.
Tanto quanto aveva
impiegato la piccola volpe per spalancare la porta e uscire dalla sua
vita.
"Il ritratto di un uomo realizzato: una visione inaspettata, nevvero?"
Quella voce gutturale, dal tono larvatamente canzonatorio, lo fece
trasalire, rammentandogli anche che indossava soltanto un accappatoio
fradicio.
Mentre si cacciava addosso alla meglio i panni lasciati sul letto,
scoccò un'occhiata incuriosita al proprio interlocutore, un
ragazzone che ingombrava il vano della porta con la sua stazza
considerevole.
Indossava una divisa sdrucita e un giaccone di pelle tappezzato di
rattoppi, che lo rendevano simile ad una comparsa di Top Gun,
vestitasi alla cieca appena scesa dal letto. Sul basco inclinato sulle
ventitré che gli copriva il testone calvo, e che portava con
la
visiera all'indietro alla maniera del berretto da baseball della sua
squadra preferita, brillava una spilletta ben lucidata a forma di croce.
Il solo indizio che gli permise di identificarlo come il nuovo
cappellano militare dell'ospedale.
"Ho il piacere di parlare con padre... Spank?"
constatò, dopo che ebbe letto quel buffo nomignolo, vergato
in
Uniposca rosso su un cartellino sghembo che penzolava dal taschino
della sua giacca.
Il prete emise un risolino e provò a raddrizzare la scritta:
"Padre Mauro Spairani, per la precisione, ma Mauro andrà
benissimo... La fantasia malata del capitano Marcomanni non ha limiti e
chiedo perdono in anticipo se debbo parlar male del tuo superiore in
sua assenza.
Credo abbia individuato una certa assonanza nel cognome, ma, di certo,
la mia innata abilità nel procurarmi lividi di ogni genere
con
sorprendente facilità ha favorito la scelta..."
Infatti, aveva appena mosso qualche passo all'interno della stanza,
quando inciampò nella gamba di un letto e
barcollò per un
paio di metri, con la massiccia leggiadria dell'ippopotamo ballerino di
quel vecchio film Disney; tanto che, per qualche istante, Daniel
temette sul serio di vederlo stramazzare al suolo a faccia in
giù.
Invece, il cappellano recuperò l'equilibrio perduto in men
che non si dica, tranquillizzandolo: "Ecco, appunto."
Daniel annuì, non del tutto a proprio agio: il vezzo del
capitano Marcomanni di appioppare soprannomi a tutta la camerata, alla
stregua di un brutto episodio nostrano di M*A*S*H, era ormai
risaputa quanto l'entusiasmo paterno di Acquasparta.
Non aveva ancora avuto modo di sentire quello che era stato rifilato a
lui, ma sospettava che gli sarebbe stato svelato presto.
"Cosa intendeva poco fa con l'espressione un uomo realizzato?"
Senza aver prima domandato il permesso, padre Mauro si
spaparanzò sul suo materasso, strappando un lamento
derelitto
alla rete sottostante. Poi, riprese a parlare, con quell'inflessione
baldanzosa, tipica delle persone che riescono a far passare per
aforismi molto ponderati delle conclamate ovvietà:
"Innanzitutto, ti ordino di darmi del tu, perché l'unico che
si
permette ancora di parlarmi con distacco è mio padre, quando
mi
spedisce i conti non pagati.
Per quanto riguarda il tuo interrogativo, ti sfido a trovare una sola
altra persona qui dentro, a parte me e te, che sia perfettamente felice
e soddisfatta del proprio operato giornaliero."
"Felice e soddisfatto
sono parole pesanti e del tutto inadeguate" ribatté Daniel,
accigliato. "Al massimo, posso affermare di andare fiero del modesto
aiuto che presto ai miei commilitoni, che ho realizzato i miei desideri
e le mie aspettative, e che non c'è nessun altro posto al
mondo
in cui vorrei essere, in cui mi sentirei altrettanto indispensabile."
Per il Santo Benedetto,
Daniel, ne ha
fatta di strada il bambino che per poco non si pisciava sotto al solo
pensiero di dire un'innocua bugia!
Perché, oggi, il suo cervello si stava silenziosamente
rivoltando contro di lui?
Padre Mauro dovette restare impressionato da quel suo guizzo polemico,
poiché gli regalò un ampio sorriso sincero:
"Accidenti, e
chi l'avrebbe mai detto che l'Intrepido Soldatino di Stagno avesse una
lingua così lunga e biforcuta?"
Ah ha, dunque lui era l'Intrepido Soldatino di Stagno, per tutti loro.
Beh, considerando l'imprevedibilità di Marcomanni, non gli
era andata neanche poi così male.
"Mi scusi, padre... Cioè, scusami, Mauro, ma sto
dimenticando le
più elementari regole dell'ospitalità"
dichiarò a
quel punto, subito rimbeccato dalla parlantina pungente del prete:
"Maledizione, e io che non volevo credere a quello sciocco pregiudizio:
voi ebrei siete davvero
dannatamente cerimoniosi."
"Solo con coloro ai quali speriamo di scucire denaro o favori, o
entrambe le cose" replicò nello stesso tono: quella bizzarra
schermaglia lo stava divertendo, per quanto fosse possibile farlo nei
panni di un medico militare sullo scenario della guerra più
sanguinosa ed insensata del XXI secolo.
Aprì un cassetto del comodino e ne estrasse una scatoletta
di
latta ammaccata, la sua personale riserva di dolci, quelli che nonna
Judith gli aveva infilato in valigia di straforo il giorno della
partenza. Tolse il coperchio, quindi la spinse sotto il naso del
proprio interlocutore: "Ne gradisce uno?"
"Lokoum"
constatò il
cappellano, umettandosi le labbra alla maniera di un carnivoro in
caccia. Strinse uno di quei bitorzoli candidi ed appiccicosi tra
pollice ed indice, prima di spazzolarlo via in un unico, animalesco
boccone: "Uhm, per digerire questo pastrocchio assassino ci
vorrà qualcosa di forte!"
Frugò per qualche momento nella tasca interna del giaccone,
dalla quale spuntò fuori l'inequivocabile sagoma di una
fiaschetta dall'altrettanto inequivocabile, ed alcolico, contenuto.
Poiché ce lo si aspettava da lui, Daniel recitò a
menadito la parte dell'angelo dissuasore: "Ti prego, dimmi che quella
bottiglia non è stata rubata dallo spaccio della caserma, o
sarò costretto a supplicarti di riportarla indietro fino a
farti
venire sensi di colpa per i prossimi tre anni della tua vita."
"La mia coscienza è immacolata come questo lenzuolo... No,
forse
un po' di più" sentenziò padre Mauro, dopo aver
lanciato
un'occhiata scettica allo straccio lercio e bucherellato su cui era
seduto. "E, comunque, è comparsa per l'incontestabile volere
dello Spirito Santo nella mia tasca, e chi sono io, pretuncolo da
strapazzo, per rifiutare un simile dono da una potenza celeste?"
Quel colosso mezzo suonato non somigliava per niente a nessuno dei
preti arcigni che Daniel aveva incontrato in passato; anzi, non
somigliava per niente a nessuno che avesse mai incontrato in passato e
punto.
"Ne vuoi un sorso?" lo tentò allora, ma non aveva ancora
capito
di trovarsi di fronte ad un gentiluomo d'altri tempi: "No, grazie, noi
ebrei non beviamo mai."
"Perché interferisce con la vostra sofferenza! Giusto,
Daniele?"
fu la fulminea battuta del cappellano, che lo lasciò
esterrefatto. Eppure, da quel tipo avrebbe dovuto aspettarsi altro che
la conoscenza di uno fra i più diffusi witz ebraici.
"Daniel" si
affrettò a
puntualizzare, piccato; la corretta pronuncia del suo nome era qualcosa
su cui non avrebbe mai smesso di transigere, a costo di passare per
ridicolo. "Significa D.o
è il mio giudice."
Padre Mauro tracannò un sorso di liquore tutto d'un fiato,
prima
di asserire, nella parodia mal riuscita di un tono serio: "Ah, ragazzo
mio, che giudice inclemente e difficile da accontentare che ti sei
scelto."
Erano le stesse,
identiche parole.
Non c'era
possibilità di sbagliarsi, quel ricordo era indelebile.
Troppo indelebile per
sbiadirsi, per distorcersi, per ingannarlo.
La piccola volpe, era
stata la piccola volpe a parlare, allora.
E aveva usato proprio
quella frase.
"Che... Puoi ripetere, scusa?" mugugnò con scarsa
convinzione,
cercando di prendere tempo, di ricacciare le immagini nella palude
nebbiosa della memoria in cui le aveva fatte affondare, tempo addietro.
Non poteva lasciarsi sopraffare da quelle emozioni celate e mai
dimenticate: non adesso, non con un interlocutore così
accorto e
sfacciato.
Per sua fortuna, il prete pareva già abbastanza brillo da
non
essere in grado di notare alcunché, poiché
singhiozzò, in maniera non del tutto coerente: "Io, invece,
sono
un misero, irriducibile peccatore, che ha bisogno di rifugiarsi in
qualche piccolo peccatuccio veniale per non incappare in colpe
più gravi..."
Quelle stesse parole,
ancora una volta!
Rassegnati, Daniel,
è in corso un complotto cosmico ai danni delle tue
incrollabili certezze.
Sicuro che lo siano
davvero?
E, questa volta, pur non volendolo, dovette cedere all'assedio dei
ricordi.
II.
"Rak ten li yad, bo
lanu'ach
Ten li yad, bo lishko'ach
Ten li, ten li yad,
ahuv, uvli livro'ach
Rak ten li yad b'li
lada'at
Ma yihyeh machar (...)"
(Trad.: "Dammi soltanto
la tua mano, vieni e riposati
Dammi la tua mano, vieni
e dimentica
Dammi, dammi una mano,
amore mio, e non fuggire
Dammi la tua mano senza
sapere
Che cosa
accadrà domani (...)"
"La citrato
sintasi catalizza la condensazione dell'ossalacetato con acetil-CoA, ad
ottenere citrato.
La sua struttura quaternaria consta di due subunità, ad
ognuna delle quali si possono legare due substrati."
Una gomitata discreta
all'altezza
della terza intercostale restituì la prima tappa del Ciclo
di
Krebs alle pagine del tomo di Chimica Organica e Daniel Toaff al mondo
reale.
"Spero che tu non fossi
così
assorto nelle tue fantasie da trovare importuno il mio intervento" gli
bisbigliò Myriam all'orecchio. "E, soprattutto, da esserti
dimenticato del tuo ruolo di kvatter."
Dunque, anche lei si era
bevuta
quella storiella, messa in giro da lui stesso, che lo vedeva nei panni
dell'universitario svogliato, ma dal libretto miracolosamente zeppo di
trenta e lode.
O, forse, faceva solo
finta di
prenderla sul serio: Myriam era troppo astuta per lasciarsi ingannare
da una simile baggianata, e troppo assennata per negare pervicacemente
l'evidenza.
Dal momento in cui aveva
appurato che
i suoi genitori non nutrivano la benché minima aspettativa
positiva sul suo futuro, Daniel aveva deciso di accontentarli e
deluderli allo stesso tempo.
In una sorta di dispetto
infantile
protratto oltremisura, si era iscritto alla facoltà di
Medicina
e, prima di ogni esame, fingeva di bighellonare e trascurare i libri,
per poi incassare, con loro notevole scorno, l'ennesimo massimo
risultato.
Questa pantomima lo
riempiva di
velenoso autocompiacimento, tale da rendergli più leggere le
notti in bianco, trascorse ad intossicarsi di caffè e a
studiare
come un pazzo, in segreto, per recuperare anche ciò che non
aveva potuto fare alla luce del sole, sotto i loro occhi pronti a
coglierlo in fallo.
Neppure si preoccupava
di quanto
tempo avrebbe sopportato quei ritmi forsennati, gli era sufficiente
incontrare le loro espressioni contrariate per trovare la forza, e la
follia, di continuare.
Doveva apparire
fortunato, baciato da
una buona sorte che non faceva nulla per meritarsi: ciò
minava i
fondamenti stessi della loro dottrina e rodeva d'invidia i loro fegati.
Poiché era il
loro figlio degenere, ma anche l'unico che avessero, non avevano potuto
fare a meno di sceglierlo come kvatter per il Brit Milah del nipotino di Myriam.
Se, tuttavia, fosse
stata concessa
loro una qualsiasi altra alternativa, e se la stessa ragazza non si
fosse impuntata al riguardo, non dubitava che i suoi vecchi avrebbero
ingaggiato un ebreo sconosciuto tramite la rubrica degli annunci del
giornale locale, piuttosto che tributargli oneri e onori di quella
carica.
"Per chi mi hai preso,
My? Non sono
così pessimo come mi dipingono..." ribatté in un
mormorio
scherzoso, mentre la prendeva a braccetto.
"Lo so, Dan, lo so..."
sospirò
lei di rimando, un'espressione indulgente nei limpidi occhi verdi,
ereditati dal padre Gentile.
Per un istante, Daniel
intercettò uno sguardo di sua madre al loro indirizzo, il
primo
barlume di orgoglio genitoriale che avesse mai lasciato trapelare in
ventiquattro anni.
Come se fosse
così tonto da non sapere che kvatter e rispettiva kvatterin
venivano scelti tra le coppie prossime al matrimonio,
cosicché
fosse di buon auspicio per la fertilità della futura sposa.
Beh, avrebbe finito per
frustrare le
loro aspettative anche riguardo a quell'argomento; non aveva alcuna
intenzione di sposare Myriam, però la ribellione contro le
regole della famiglia non c'entrava affatto.
Non negava che si
trattasse di una
ragazza arguta, carina, premurosa, il prototipo della moglie ebrea
modello, ma l'amava come una sorella e non era mai stato attratto da
lei. Ne ammirava i pregi, sicuro, come si può fare dinanzi
ad un
quadro di Botticelli: se ne loda la stupefacente meraviglia, senza per
questo bramarne il possesso, poiché è davvero al
di fuori
delle proprie possibilità.
Prima o poi, avrebbe
dovuto
confessarglielo di persona, visti e considerati gli eloquenti messaggi
non verbali che lei gli rivolgeva. Tutto ciò rendeva
certezza il
sospetto che anche l'amica s'illudesse a proposito di quelle
improbabili nozze.
Scortato da Myriam,
Daniel si
affiancò a Rachele, la quale gli depose fra le braccia il
piccolo David, affinché lo portassero al padre, Tobia.
Costui, a
propria volta, lo avrebbe affidato al mohel, incaricato di eseguire la
circoncisione rituale.
L'espressione
ammonitrice della
futura cognata, la pressione continua della mano dell'amica sul
braccio, gli sguardi apprensivi ed ostili di tutti i presenti, la
responsabilità preoccupante di dover maneggiare qualcosa di
così delicato, anche se solo per pochi secondi, lo
paralizzarono. Rimase bloccato lì, un albero antropomorfo
che
avesse appena individuato il posto adatto in cui piantare le proprie
radici, di colpo del tutto dimentico di ciò che avrebbe
dovuto
fare, dire, persino pensare.
Per quanto si trovasse a
proprio agio
nella parte dello sbruffone menefreghista, in realtà non era
cambiato molto rispetto al bambino balbettante che non sarebbe mai
stato in grado di mettere insieme una menzogna credibile. Forse, i suoi
vecchi non avevano proprio tutti i torti, quando lo accusavano di
essere un inetto.
Fu allora che la piccola
volpe lo salvò.
Nel silenzio snervante
in cui era
piombata la sala dinanzi alla sua esitazione, la porta si
spalancò in uno stridio disumano, che costrinse tutti a
voltarsi.
La loro riserva di
occhiate astiose
si riversò su un ignaro giovanotto, il quale fece capolino
dall'uscio socchiuso con espressione interrogativa: sembrava di essere
stati catapultati all'inizio dello witz in cui Shlomo l'ubriacone
irrompe, cantando canzonacce yiddish,
nel bel mezzo di un concilio di rabbini. Soltanto Daniel
restò a
fissarlo con aria intontita, colto da un'inspiegabile sensazione di deja-vu.
Sebbene ignorasse il
senso di quella
reminiscenza, la sua mente gli restituì le immagini di una
memorabile battuta di pesca.
Allora, stava per
compiere tredici
anni e, seduto sullo sgabellino sbrindellato di zio Aaron, meditava sul
fatto che l'inutilità del suo Bar mitzvah
sarebbe stata direttamente proporzionale alle vanterie dei suoi
genitori presso amici e conoscenti. Perlomeno, era un tentativo per non
realizzare appieno ciò che stava facendo, agganciare
lombrichi
agli ami: accettava quell'incombenza disgustosa solo perché
lo
zio era solito ricompensarlo con una monetina al verme, ma trovava
oltremodo sadico infilzare a morte quelle bestioline mollicce, che si
contorcevano invano nella sua stretta.
Ad un tratto, proprio
mentre cercava
di recuperarne uno deciso a vender cara la pelle, era stato distratto
da un fruscio tra i cespugli del sottobosco. Aveva sollevato lo
sguardo, giusto in tempo perché un paio di occhietti
giallastri
e guizzanti lo ricambiassero con il medesimo interesse.
Non aveva mai incontrato
una vera
volpe, una che non fosse disegnata su qualche libro di favole, e quel
cagnolino fulvo dal muso aguzzo gli piacque subito, poiché
non
sembrava affatto il predatore infido che gli avevano insegnato a
disprezzare da bambino.
Stette lì ad
osservare, con
espressione rapita, le screziature che la luce danzante del mattino
proiettava sul manto dell'animale, una soffice pelliccia rosseggiante
che chiedeva solo, irresistibilmente, di essere toccata. Seppur
titubante al pensiero di beccarsi un morso, allungò la mano
e
fece per tastare la sua peluria in punta di dita, prima che lo zio gli
comparisse alle spalle e costringesse l'animaletto a fuggire,
sbraitando una sequela di irripetibili bestemmie, poco consone ad un
ebreo pio.
Di nuovo, fu zio Aaron a
rompere la
sospensione irreale in cui si erano arenati; balzò in piedi
dalla sua sedia, poi scacciò a male parole smozzicate
l'intruso,
il quale si affrettò ad obbedirgli. Invece, a rammentare i
suoi
doveri di kvatter
a Daniel
pensò un vagito annoiato del piccolo David, che,
approfittando
della distrazione generale, aveva cominciato a succhiargli la punta
della cravatta.
Eseguì la
restante parte di
quel monotono copione alla lettera, ma la sua attenzione era scomparsa
oltre la porta, insieme alla figura dell'anonimo invasore. Quando fu
certo che tutti erano abbastanza impegnati a godersi lo Saudat
mitzvah
da non notare la sua assenza, sgattaiolò fuori dalla sala,
con
l'impellente desiderio di prendere una boccata d'aria non impregnata di
ipocrisia.
A Pavia, l'esigua
comunità
ebraica non era ancora riuscita ad ottenere i permessi necessari per
far edificare una sinagoga, pertanto quelle celebrazioni si svolgevano
nelle case private o nei saloni di qualche albergo: Rachele e Tobia
avevano optato per l'intimità della loro villetta di
periferia,
così Daniel si ritrovò sulla veranda, dove,
secondo le
sue previsioni, incontrò di nuovo quel ragazzo.
Non appena il suo
sguardo si
soffermò su di lui, questa volta con l'attenzione che
meritava,
il dottore comprese per quale motivo aveva associato la sua comparsa a
quella della piccola volpe: quel giovane era la piccola volpe, solo in
forma umana.
Il fisico asciutto,
scattante e
flessuoso come quello di un animale selvatico, i lineamenti affilati,
il naso nobile da Madonna di un'icona medievale, gli occhi scuri dal
taglio sottile e, infine, i capelli: una cascata di fili d'oro rosso,
un'impalpabile pioggia di fine rame che gli incorniciava l'ovale del
volto, sulla quale il sole di un tiepido pomeriggio estivo tracciava
riflessi soffusi e pressoché magici.
La grazia elfina che
aleggiava sul
suo volto gli conferiva un'età indefinibile, tra i
diciannove e
i trent'anni. Ad ogni buon conto, Daniel propendeva per il limite
più basso, in considerazione della tenera goffaggine
adolescenziale con cui li aveva interrotti, poco prima.
Era appoggiato con
entrambi i gomiti
alla ringhiera di legno del portico, mentre armeggiava con un
accendino, che crepitava e sputacchiava qualche scintilla, senza
tuttavia dare il minimo segno di collaborazione. Accortosi di essere
osservato, lo affrontò con un'occhiata obliqua, accennando
alla
sigaretta spenta fra le dita: "Hai da accendere?"
"Mi preme rammentarti,
in
qualità di laureando in medicina, che il fumo attivo e/o
passivo
è la prima causa di gravi patologie croniche fra i giovani
dai
quindici ai ventotto anni di età. Oltre a causare un rapido
declino fisico, favorisce l'insorgenza di tumori e..."
spiattellò d'istinto, contemporaneamente domandandosi
perché gli uscissero di bocca simili idiozie, ogni volta in
cui
si affannava a fare colpo su un bel ragazzo.
Questo predicozzo di
prevenzione
spicciola era alla pari con il misero tentativo di sedurre un barista,
al quale aveva annunciato in tono greve che i suoi cocktail alcolici
avrebbero potuto causare l'arresto per guida in stato di ebbrezza, o
addirittura la morte, agli avventori del locale.
Perlomeno, lo
sconosciuto qui
presente non sembrava intenzionato a manifestare il proprio dissenso
con una rissa sul retro del bar, dal momento che si limitò
ad
inarcare un sopracciglio, in un'espressione perplessa: "Non
è la
risposta alla mia domanda."
"Era un modo pomposo per
metterti in
guardia... Per preoccuparmi della tua salute" deglutì, anche
se
era difficile farlo con la salivazione del tutto azzerata.
"Ascolta, io sono rosso,
mancino ed
astemio, un trinomio sufficiente affinché la maggior parte
delle
persone mi reputi l'incarnazione terrena del Demonio. Ho bisogno di
cedere a qualche peccatuccio veniale, in modo da evitare di incappare
in colpe più gravi..." fu l'ironico contrappunto dell'altro,
che
però fece sparire la sigaretta nel taschino della camiciola.
Daniel
approvò con un sorriso tirato, prima di glissare: "Che cosa
ci fai qui?"
"Se ti riferisci al mio
ruolo nel
mondo, non lo so, però posso dirti perché mi
trovo in
questa casa. Tra le altre cose, sono il contabile dell'azienda del
signor Aaron Toaff, sebbene la definizione più corretta
delle
mie attuali mansioni sia schiavo personale"
gli raccontò il giovane, facendo spallucce. "Evidentemente,
il
padrone... cioè, il capo, trova molto divertente mettere
alla
prova la mia fedeltà, convocandomi all'improvviso nel mio
giorno
libero e lasciandomi qui a marcire nell'attesa di chissà
cosa
per ore."
"Sì, zio
Aaron è fatto
così" ammise, evitando di specificare che l'attitudine alla
tirannide era prassi frequente nei rapporti umani della famiglia Toaff.
Quando si lasciava
andare a
constatazioni del genere riguardo all'aridità dei propri
cari,
in un modo o nell'altro si ritrovava accusato di essere nientemeno che
un bamboccio ingrato.
Poi aggiunse, per
dimostrare che era
solidale con lui: "Comunque, anch'io vorrei trovarmi in tutt'altro
posto: quel maledetto Ciclo di Krebs non mi entra in testa e ho solo
una settimana prima dell'esame, oltre ad altre duecento pagine circa
che non ho ancora neanche letto."
Una smorfietta volpina-
non c'era
altro modo per descriverla- increspò i tratti somatici del
contabile: "Oh, deduco che non si tratti di un'avveniristica bicicletta
da corsa, progettata da un meccanico altoatesino sotto l'effetto di
sostanze stupefacenti."
In quanto a
raccapriccio, quella
freddura se la batteva bene con i più beceri motti di
spirito
ebraici, tuttavia Daniel rise di gusto, impressionato dalla
serietà compunta con cui era stata affermata. Quindi,
l'altro
riprese: "Ti capisco: a me da pensiero la pila di partite doppie che ho
lasciato incomplete sulla mia scrivania, ieri a fine turno."
"Che, suppongo, non sono
competizioni tennistiche di coppia" replicò il dottore in
tono allegro.
Sostenere una
conversazione sensata
si stava rivelando più semplice del previsto, nonostante la
caustica ritrosia dell'altro continuasse ad imporre una certa distanza
fra loro.
Aveva anche notato che
il giovane non
lo guardava dritto negli occhi, mentre dialogavano, ma aveva appuntato
uno sguardo distratto su un punto a caso all'altezza della radice del
suo naso; era il tipo di consiglio che i manuali di galateo davano ai
timidi per non apparire maleducati di fronte ad uno sconosciuto.
"A proposito, non ci
siamo ancora presentati: io mi chiamo Daniel, in lingua ebraica
significa D.o è il mio giudice."
L'altro assunse
un'espressione
indecifrabile, ma torva, mentre commentava: "Io sono Ottavio, non ho la
minima idea di cosa possa voler dire, ma mi auguro che non abbia nulla
a che fare con il mio destino... Ah, ragazzo mio, ti sei scelto un
giudice inclemente e difficile da accontentare."
Quella considerazione lo
ferì
nell'amor proprio più di quanto sarebbe stato opportuno,
perciò parlò con stizza, senza riflettere: "Bah,
perlomeno sarà anche imparziale, al contrario di tutti
coloro
che mi circondano."
Una greve pausa di
silenzio cadde fra
loro: Ottavio distolse lo sguardo e ricominciò a trafficare
con
l'accendino malfunzionante, invece Daniel si cacciò le mani
in
tasca, contemporaneamente fingendo di trovare assai interessanti le
venature nel legno delle travi del soffitto.
Un marasma di pensieri
assillanti
vorticava senza posa nella sua mente, e non riusciva a smettere di
contemplare di sottecchi l'ombroso sconosciuto.
Se fosse stato
impulsivo, una dote
che nessuna abilità d'attore consumato gli avrebbe mai
permesso
di simulare, si sarebbe fatto strada a viva forza, brutalmente, nel suo
seducente riserbo, gli avrebbe estorto senza pietà un bacio
torrido e irruente, secondo i più consunti cliché
da
romanzetto rosa in chiave omosessuale.
Invece, si sentiva
imbarazzato come
un adolescente alla prima cotta, inibito da una serie di scrupoli
più o meno sensati, che andavano dal desiderio di evitare
una
figuraccia immane al timore di trascorrere il resto della settimana con
l'impronta di cinque dita pulsanti stampata in faccia e la sconfitta
cocente che bruciava nello spirito.
Voleva soltanto,
ingenuamente,
implacabilmente, insinuarsi in punta di piedi nel suo animo schivo,
azzerare il distacco fra i loro corpi, sentire il suo respiro
affievolirsi, il battito del suo cuore accelerare grazie ad una carezza
sulla pelle serica, voleva catturare il suo sguardo sfuggente
nell'imminenza di assaporare le sue labbra, voleva tuffare le dita
nella trama inesplorata della sua chioma fulva, come non era stato
capace di fare tanti anni prima, con un'altra piccola volpe.
Voleva dimenticare la
grettezza
camuffata dietro il sentimento religioso di suo padre, le critiche
pretestuose di sua madre, le pretese irrealizzabili di Myriam, le
responsabilità non richieste, le aspettative artefatte, le
notti
insonni consumate per dimostrare di valere qualcosa senza poterlo fare
davvero.
Voleva la pace che
quello spinoso e
imprendibile ragazzo caduto dal cielo pareva promettere, voleva
infrangere la maschera di primo attore del suo scombinato dramma
personale, naufragando in un desiderabile oblio su quella bocca
sensuale.
Mentre il suo talento di
affogare in
un bicchiere d'acqua di emozioni mezzo vuoto stava diventando ben
più di un'espressione proverbiale, avvertì un
tocco lieve
sul polso, che lo costrinse a ripiombare sulla terraferma. Al di
là di ogni sua più selvaggia e tormentosa
illusione,
Ottavio gli prese la mano e la posò sulla curva morbida
della
propria mascella, tra l'attaccatura dell'orecchio e l'incavo della
spalla, su cui stormiva quell'invitante foresta rosso Tiziano.
Dinanzi alla sua
espressione
attonita, stemperò l'ironia scostante in un sorriso
arrendevole
e, per la prima volta da quando si erano incontrati, si
aggrappò
al suo sguardo, senza timidezza o vergogna, una porta luminosa
spalancata sulla metà opposta e identica della sua anima
sperduta.
"Come al solito, mi
tocca prendere l'iniziativa: iniziavo a sospettare che ti ci volesse un
invito formale in carta bollata..."
Mentre si liberava di se
stesso e del
mondo circostante, cercando ad occhi socchiusi le sue labbra nella
penombra complice della veranda, si disse che, forse, un po' fortunato
lo era davvero...
"Houston, abbiamo un problema..."
Il vocione cavernoso di padre Mauro lo riscosse, trascinandolo fuori di
peso dall'avvolgente dimensione del ricordo: "E' tutto a posto... Ma
tu, non eri alticcio?"
Per tutta risposta, il prete eruppe in una risata sguaiata, che la
diceva lunga sul reale stato della sua lucidità mentale:
"Chi,
io? Steso da questa sciacquatura di piatti? Tu vaneggi, mio caro
tenente!"
Per il Santo Benedetto,
ma mi doveva
proprio capitare un cappellano colossale, sbracato e beone, che si fa
chiamare come il cane casinista di un cartone animato giapponese?
Davvero sono stato
catapultato in un brutto episodio nostrano di M*A*S*H*.
Di nuovo, fu il sacerdote a parlare per primo, ammiccando in direzione
della foto di famiglia del tenente Acquasparta: "Devo aspettarmi
qualcosa di analogo da te? Magari una leziosa e superba ballerina di
carta?"
Benché non fosse possibile accertarlo dalla camerata, il
tramonto doveva aver già incendiato il cielo, una
magniloquente
deflagrazione sui toni dell'arancio e del rosso tra il profilo scabroso
delle montagne e la linea accidentata dell'orizzonte. L'escursione
termica della notte incipiente sembrava un valido pretesto a cui
imputare il brivido vigliacco che gli falciò la spina
dorsale;
non voleva, non osava supporre che potesse trattarsi del solletichio
ammonitore di uno spettro del passato: "No."
Il monosillabo più vago e fraintendibile nel panorama della
lingua italiana, un tentativo per lasciar trasparire in maniera non
troppo brusca che non gradiva affatto la piega presa dalla
conversazione.
Solo in quel momento, fronteggiando il cappellano con maggiore
accortezza, si avvide che aveva gli occhi azzurri, chiari e
sconcertanti come un mattino terso nel deserto. Aveva sempre provato un
disagio istintivo nei confronti delle persone dotate di quella
caratteristica specifica, poiché, anche qualora fossero
armate
delle migliori intenzioni, finivano per trapassarti da parte a parte
con una sciabolata glaciale.
O, spiegazione freudiana e lineare, perché si trattava del
colore delle iridi di sua madre, il suo più implacabile e
ingiusto censore.
C'era un che di sinistro, in quella coincidenza: un personaggio
improbabile, dagli inquietanti occhi celesti, si materializzava
all'improvviso nella sua vita regolare, riportando a galla tutte le
ragioni che avrebbero potuto minare le sue confortanti convinzioni.
Beh, che fosse il riflesso distorto della madre lontana, il biblico
Samaele, un se'ir
dispettoso o D.o solo sa cos'altro, non gliela avrebbe data vinta tanto
facilmente.
"Allora siamo in due, neppure io ho qualcuno a casa che mi aspetta.
Anzi, secondo le ultime indiscrezioni, papà avrebbe
ritagliato
la mia faccia da tutte le foto di famiglia, in una versione moderna
della damnatio memoriae
che spettava agli imperatori romani spodestati.
Chissà come avrebbe reagito se, invece di farmi prete, mi
fossi
messo a rapinare banche o a taglieggiare prostitute..." gli
riferì padre Mauro, in un repentino slancio di malinconica
confidenza.
Daniel, che non era mai stato bravo a medicare le sofferenze
dell'anima, tentò perlomeno di dimostrare empatica
partecipazione: "Consolati, a me non sono neppure stati concessi la
rimozione delle sedie dalla sala da pranzo, le uova sode sul tavolo, la
copertura degli specchi e le invocazioni rituali. Sono ritenuto un
figlio troppo degenere anche per meritare lo Shiva da vivo."
"A proposito, ho sentito che ti sei occupato di restituire il corpo del
povero Kashar alla famiglia. Pensi di assistere al funerale?"
Quella era una domanda insensata sotto molti punti di vista, primo fra
tutti la palese violazione delle rigide norme di sicurezza che
regolavano l'entrata e l'uscita del personale medico dalla caserma.
Inoltre, era andato soltanto una volta in città, quando un
mezzo
blindato lo aveva prelevato dall'aeroporto per condurlo al quartier
generale, il giorno del suo arrivo in Afghanistan.
Avevano attraversato il mercato antico, dove un pugno di ragazzini
cenciosi sedeva sotto una tenda ad ascoltare un uomo barbuto dal piglio
carismatico, un mullah,
intento a spiegar loro qualche passo del Corano in un gesticolare
frenetico. Benché fosse al riparo dietro il vetro oscurato,
non
aveva potuto impedirsi di tremare quando quella manciata d'occhi,
accesi di una vampa d'odio bruciante, si erano appuntati sul veicolo.
Lui avrebbe anche potuto ricucire i loro corpi dilaniati da
un'esplosione, curare le loro malattie, salvare le loro vite per il
rotto della cuffia, ma sarebbe rimasto comunque l'invasore, il nemico
da annientare alla stregua di un cancro, da estirpare come l'infestante
zizzania. E non dubitava che i presenti al funerale del poliziotto
caduto lo avrebbero trattato in maniera simile, per di più
incattiviti dalla consapevolezza che il loro amico, figlio e fratello
era morto per difendere quelli come lui.
Inoltre, non era sicuro di poter sopportare ancora la vista della
vedova in lacrime, che avrebbe accompagnato il feretro del marito senza
la piccola Zahida nascosta tra le pieghe del burqua...
Evitò di dirgli tutto questo, ripetendo un laconico: "No."
Infastidito dalla sua svogliata partecipazione al dialogo, padre Mauro
protestò, anche se in tono cordiale: "Tenente, tu sei qui a
rispondere alle mie domande, ma la tua mente è chiaramente
altrove... Posso sapere dove punta il tuo sguardo remoto?"
No, e non soltanto perché non erano affatto affari suoi.
Tuttavia, liquidarlo con un'intimazione rabbiosa sarebbe servito
soltanto ad incrementare la sua curiosità, quindi
dribblò
l'interrogativo, affermando con voce impostata: "Mia nonna Judith
è solita ripetere che un ebreo non si riconosce dal talled sulle sue
spalle, né dai tefillin
sulla sua fronte, ma dal rimpianto per la distruzione del Tempio di
Gerusalemme nei suoi occhi... E' probabile che anche stia guardando
laggiù, verso le
torri atterrate di Sionne, in questo momento."
"Se vi da tanta pena pregare in mezzo a quattro sassi rosicchiati dal
tempo, perché non ne costruite uno nuovo?" fu l'eretica, ma
saggia proposta del cappellano.
Sul volto magro di Daniel balenò un pallido sorriso, mentre
ribatteva: "Uhm, diciamo che sarebbe come se voi cattolici
crocefiggeste il Papa nella speranza di ottenere un secondo Messia
risorto. A noi ebrei piace piangere sul latte versato e porci traguardi
inattuabili."
La seconda parte della frase, però, era un'amara descrizione
del
corso della sua vita, piuttosto che una considerazione di valenza
generale sulle abitudini del suo popolo.
Animato dallo spirito del vino, che da libero sfogo ad una
verità non sempre sopportabile, il prete si mise a
sproloquiare,
con la schiettezza ragionevole dell'ubriaco: "Beh, non pensare che noi
siamo tanto diversi... Tutti santi, poeti e navigatori, grandi uomini
altezzosi e frustrati che anelano per tutta la vita ad una perfezione
inattingibile, che sfuggirà loro di mano inesorabilmente,
fino
all'ultimo, per un pizzico.
Schiavi volenterosi delle aspettative che altri hanno cucito loro
addosso, o che essi stessi si sono imposti... Per ottenere cosa poi? La
gloria imperitura, il plauso dei posteri, la fama che trascende il
tempo?
Non sono anch'essi possessi vani, in fondo, quando avresti potuto
impiegare il tuo cammino terreno anche solo per rendere migliore la
vita di coloro che ami e che ti amano?
Senza pretendere e rincorrere una ricompensa in denaro, l'adorazione
delle masse, la riconoscenza di uno sconosciuto. Senza affannarsi ad
essere uomini di successo, e non di valore.
Non sei d'accordo con me, Daniel?"
Per il Santo Benedetto, sì, sì, certo che era
d'accordo
con lui, condivideva ogni singola sillaba evocata dalla sua estasi
etilica, e lo avrebbe gridato al mondo...
... Se le parole non gli si fossero incastrate in gola insieme al
boccone del frutto proibito, se il rimorso non gli avesse intimato un
mutismo che suonava come un'ammissione di colpevolezza.
Perché lui era proprio uno di quegli uomini: di successo, e
non di valore.
III.
"Ve'atah od mabit bi,
mabit veshotek
Ulai kvar tish'al mi
mishneinu tzodek
Atah o ani (...)
Tov atzor ki haderech
mimcha/ mimeile lo tivrach.
Tov, az lech beshalom,
ve'oti al tishkach.
Oti, oti al tishkach."
(Trad.: "Tu ancora mi
fissi, mi guardi e stai in silenzio
Forse te lo sarai
già chiesto, chi di noi due è nel giusto?
Tu o io (...)?
D'accordo, fermati,
poiché la strada non fuggirà via da te.
D'accordo, allora va' in
pace, e non dimenticarti di me.
Non dimenticarmi.")
"Sono tornato."
Lo aspettava in agguato
dietro la porta.
Daniel
agguantò Ottavio per la
vita snella, gli stampò un bacio schioccante sulla punta del
naso, poi scese a cercare la pelle sensibile, punteggiata di efelidi,
sotto il colletto sbottonato della camicia, dove una cordicella di
caucciù reggeva un piccolo Maghen David d'argento.
Il simbolo tangibile
della loro segreta promessa d'amore.
Ancora vestito di tutto
punto e con
la borsa da lavoro in spalla, Ottavio emise un basso gemito sorpreso,
mentre si lasciava inchiodare dolcemente al muro.
Nonostante la
docilità del
compagno lo invitasse a saziare frettolosamente il languore fisico per
la prolungata separazione, Daniel esitò; negli ultimi sei
anni,
aveva imparato l'esigente arte della pazienza, gli era stato insegnato
a fare tesoro di ogni singolo istante insieme, anche se solo per
specchiarsi l'uno nello sguardo innamorato dell'altro.
Ottavio sopportava la
sua assenza,
approvava la sua carriera in accademia, pagava l'affitto di quel loro
appartato rifugio: meritava di più di una sveltina bramosa
consumata in piedi, come due amanti clandestini e mercenari.
Dinanzi alla sua
titubanza, il
bancario scoppiò a ridere, una risata allo stesso tempo
argentina e irridente, quindi si ritrasse e lo squadrò con
aria
circospetta: "Prima di ogni altra... distrazione, dimmi che ti sei
ricordato..."
"Delle fedi?" lo
precedette, facendo
comparire tra le dita una scatoletta scura da gioielliere, con la
manualità disinvolta del prestigiatore consumato.
A quella vista, il volto
di Ottavio
s'illuminò di uno sconfinato sollievo: "Tu... mi stai
salvando
la vita, sappilo. Al lavoro è un periodo a dir poco
infernale,
il matrimonio è dopodomani e mio cognato sta subendo
un'inquietante mutazione da professorino composto ad aspirante
pluriomicida, al solo pensiero che qualcosa possa andare storto."
Mise al sicuro i
gioielli nella tasca
interna della giacca, mentre commentava: "I filosofi appartengono ad
una razza davvero imprevedibile: non sai mai cosa aspettarti, da gente
che prova a convincerti che il mondo non è altro che la
proiezione distorta di un'ombra sul fondo di una caverna buia..."
"Saresti agitato anche
tu, nella
medesima circostanza..." gli fece notare Daniel, una malinconia nella
voce che lasciava trapelare il rimpianto, perché per loro
era
legalmente proibito sperimentare di persona la gioia di quell'unione.
Ottavio si strinse nelle
spalle,
prima di cambiare discorso: "Ad ogni modo, spero che tu abbia
intenzione di presentarti con qualcosa di decente addosso, invece di
quella pulciosa divisa..."
Daniel
attorcigliò
distrattamente una ciocca ramata attorno all'indice, insinuando in tono
sfrontato: "Strano, di solito ti interessa di più
ciò che
non ho
addosso..."
"Che scemo che sei!" lo
sbeffeggiò di rimando il bancario, enfatizzando le parole
con una linguaccia infantile.
Dopo essersi sfilato di
dosso
l'impermeabile ed aver appoggiato la tracolla su una vicina sedia
libera, il ragazzo si abbatté stancamente sul divano: "Non
mi
lamenterò mai più dell'indole schiavista di tuo
zio: un
unico giorno di guazzabuglio borsistico e tutti gli investitori di
Pavia e provincia si sono riversati in banca, in contemporanea e con
urgenza, manco fossimo in piena apocalisse finanziaria..."
Daniel si
accomodò al suo
fianco, cingendolo in un abbraccio comprensivo ed appoggiando la tempia
contro la sua, prima di mormorare: "Sono spiacente di interromperti, ma
devo assolutamente confessarti una cosa."
Una luce maliziosa
balenò
nelle iridi nocciola di Ottavio, il quale suppose, nel consueto tono
ironico: "Ma non mi dire... Vediamo un po': hai per caso allungato le
mani su qualche avvenente recluta? Oppure, il tuo fascinoso ufficiale
superiore ti ha concesso la licenza-premio in cambio di favori
sessuali, e tu hai accettato?"
"Niente di
così squallido,
tutt'altro..." lo contraddisse, un sorriso forzato che tentava di
nascondere il nervosismo. "Per ora sono ancora solo voci di corridoio,
ma molto attendibili... Ho ottenuto la promozione a tenente."
"E bravo il mio soldato
testardo" gli
bisbigliò Ottavio in tono fiero, prendendogli il volto
sbarbato
tra le mani e indugiando a lungo sulle sue labbra. "Ciò
significa che ti spediranno a fare il medico militare in qualche posto
più accessibile di Firenze... Devo ammettere che
sbaciucchiarsi
come ragazzini in fermento ormonale all'ombra di Ponte Vecchio aveva il
suo fascino romantico... Mi mancherà tutto questo."
"E non è
tutto: oggi mi
è arrivata questa" riprese, mentre estraeva dalla tasca dei
jeans una busta sgualcita, che portava sulla fascetta riservata al
mittente i contrassegni e l'intestazione del Ministero della Difesa.
Non era in grado di
specchiarsi
sull'anta della vetrina delle porcellane, ma era quasi sicuro che il
suo riflesso gli avrebbe mostrato l'espressione galvanizzata di chi
è appena inciampato in un assegno in bianco a sei zeri.
Ottavio restava zitto e
immobile,
apparentemente privo di qualsiasi emozione di sorta, come se non avesse
ancora realizzato appieno la situazione, oppure la consapevolezza
improvvisa lo avesse annichilito del tutto.
Daniel
ripensò alla piccola
volpe, la quale, in quel delicato frangente, avrebbe appiattito le
orecchie sul capo, irrigidito la coda e drizzato i peli sulla schiena,
all'erta.
Né
più, né meno la reazione del compagno, solo
più umana e controllata.
"Hanno accettato il mio
ingaggio: tra
una settimana, diventerò operativo all'ospedale militare
della
base italiana ad Herat, in Afghanistan."
A quelle parole, il
bancario
impallidì visibilmente, tanto che, per un attimo, Daniel fu
certo che gli sarebbe svenuto tra le braccia, chissà se per
la
contentezza o la tensione.
Si scostò un
poco da lui, in
trepidante attesa, mentre gli porgeva la lettera, che il ragazzo
maneggiò alla stregua che se si trattasse di un cobra dagli
occhiali facile all'ira.
Infine, sentì
la sua voce
chiedere, in un esile e lontanissimo sussurro, reso inquietante dalla
livida pacatezza della sua inflessione: "Che cosa significa tutto
questo, Daniel?"
Lo vide abbassare lo
sguardo sul
pavimento, affondare le dita a viva forza nella stoffa del copridivano,
mentre scoperchiava il vaso di Pandora del proprio animo tradito e
ferito a morte: "Dimmi che è uno scherzo, dimmi che
è
solo un atroce, stupido scherzo. Cosa ti spinge a farlo, Daniel?
In nome di che cosa stai
per
condannare entrambi ad una vita morta, in bilico sul filo del rasoio:
tu a cercare di sopravvivere in un conflitto disumano e inconcludente
che nessuno di noi ha voluto, io a recitare la parte della vedova in
gramaglie che vive nell'ansia di ricevere una telefonata o di ascoltare
un notiziario, con la paura costante di scoprire di averti perso per
sempre ed il rimorso insopprimibile di non essere stato capace di
impedirlo?
Cosa stai cercando di
dimostrare con questo estremo atto di follia? A chi, poi?
A tuo padre, a tua
madre, a cui non
importa niente di te e a cui non importerà neanche dopo,
neanche
se finirai i tuoi giorni terreni nel ruolo del veterano pluridecorato o
del feretro avvolto nel tricolore. E la tua famiglia, loro che
potrebbero presenziare al tuo funerale, si rifiuteranno di farlo,
mentre io dovrò nascondermi per piangerti.
Perché sai
benissimo qual
è la considerazione che l'opinione pubblica e politicamente
corretta ha di quelli come noi, vero?
Perché ti
stai facendo questo, Daniel?"
Nessuna lacrima tra le
sue ciglia,
nessun tremito nella sua voce, solo accuse e pretese: era uguale a
tutti gli altri, a tutti gli stramaledetti, ottusi, insensibili altri.
Era stanco di essere
considerato una nullità.
Stanco di essere
ritenuto solo un inutile ometto dappoco, vezzeggiato da una fortuna
sfacciata.
Stanco di essere
incolore e trasparente, un'anonima goccia senza qualità nel
mare dell'umanità.
Se coloro che lo
amavano, che
avrebbero dovuto o che sostenevano di amarlo, non avrebbero scommesso
un centesimo sulle sue aspettative per il futuro, allora se le sarebbe
create da solo e altrettanto da solo le avrebbe esaudite.
Se i suoi cari lo
detestavano, se lui
era solo una tenace macchia sporca sull'immacolato sepolcro imbiancato
della loro immagine pubblica di famiglia perbene, allora tanto valeva
che fosse uno sconosciuto a renderlo fiero di essere al mondo. A
tributargli la gratitudine che meritava per avergli salvato la vita,
senza altro sprone che la volontà di essere d'aiuto al
prossimo.
Voleva sentirsi
indispensabile, e
solo in una zona di guerra poteva avere l'opportunità di
farlo,
dove il talento e il sangue freddo di un dottore segnavano davvero la
fatale differenza tra la salvezza e la rovina.
Voleva cominciare a
vivere, e smettere di esistere soltanto.
Perché la
piccola volpe, l'altra, adorabile metà del suo ristretto
firmamento, non riusciva a comprenderlo?
"Di tutte... di tutte le
persone che
conosco, tu sei...": le parole gli uscirono sconnesse, a fatica,
perché stava compiendo uno sforzo sovrumano per dominare la
rabbia, "Tu sei l'unico che speravo capisse perché voglio
farlo... Speravo che mi avresti appoggiato..."
"Come si fa ad
appoggiare un suicida
delirante, Daniel?" obiettò Ottavio, così
avvilito e,
comunque, padrone di se stesso da suonare pressoché
detestabile.
"Ascoltami, tu sei la
mia vita, ma
anche questo lavoro lo è: se mi ami davvero, non puoi
chiedermi
di compiere una scelta..." concluse, abbassando la voce, dopo essersi
accorto di aver proferito le frasi precedenti in un urlo rancoroso.
"E' proprio
perché ti amo, che sarò io a scegliere per
entrambi..."
Incontrò il
suo sguardo,
mentre lo udiva esalare quella risoluzione, alla stregua di un estremo
respiro vitale: la raggelante delusione che lesse nei suoi occhi
ritrosi, la conosceva bene.
La stessa che vide negli
occhi di sua
madre, quando ammise di non aver fatto i compiti per salvare un
passerotto caduto dal nido.
La stessa che vide negli
occhi di suo
padre, quando gli comunicò che il suo unico figlio era
irriducibilmente ateo e scandalosamente omosessuale.
La stessa che vide negli
occhi di
Myriam, quando le annunciò che non avrebbe mai ricevuto da
lui
la tanto sospirata promessa di matrimonio.
Ottavio prese la sua
mano nella
propria e se la poggiò tra i lunghi capelli lisci, come il
giorno del loro primo bacio sulla veranda, asserendo con voce atona:
"Non sprecare tempo a pensarmi, quando non sarai troppo impegnato a
giocare all'eroico soldato testardo, perché io non ho
intenzione
di farlo... Addio."
Daniel rimase
lì impalato, con
il braccio a mezz'aria, mentre lo osservava voltargli le spalle ed
allontanarsi, senza trovare l'umiltà per supplicare un
perdono,
un ripensamento, un ritorno.
Senza obbedire alla
disperata
volontà di rincorrerlo e tentare di trattenerlo, nella sua
casa
e nella sua vita, ancora per qualche istante, per un'ultima carezza, un
ultimo bacio, un'ultima notte d'amore.
Ogni passo che li
separava era un
incolmabile abisso d'incomprensione, una riga rossa tracciata dalla
mano di un narratore scontento sulla parola "insieme", un brandello
d'anima che s'infrangeva contro l'immutabile realtà, con il
tacito rimbombo di una piuma di cristallo che si spezza.
Eppure, nel momento in
cui la piccola volpe scomparve oltre la porta chiusa, ebbe un solo,
dissennato pensiero.
Anche l'ultimo ostacolo
che lo ancorava a quella vita logora e insoddisfacente era stato
finalmente rimosso.
"Ehi, si può sapere che ti prende, Intrepido Soldatino di
Stagno?"
Sì, ci vuole
proprio un cuore di metallo, per comportarsi come tu hai fatto, Tenente
Daniel Toaff.
Ritornare alla realtà non gli diede il benché
minimo
conforto, questa volta: padre Mauro torreggiava su di lui con
l'imponenza intimidatoria di una montagna innevata, le grandi mani
appoggiate sulle sue spalle, lo sguardo celeste che lo scrutava senza
scampo.
I suoi occhi, Daniel.
Sei sicuro di avere abbastanza coraggio, o temerarietà, da
riuscire a fissarli?
Quelle iridi erano uno stiletto turchino che trafiggeva la sua anima in
vendita, lo specchio incrinato che gli restituiva il riflesso di un
uomo disgustoso.
Si era votato ad una chimera letale, infettandosi di un'ambizione
malata.
Si era messo nei panni di D.o, al posto di D.o, celando la superbia
dietro una lodevole maschera di disinteressata generosità.
Si era lasciato scivolare nel baratro dell'onnipotenza presunta,
incolpando gli altri delle sue mancanze.
Si sforzava di disprezzare l'aridità umana di suo padre, e
non
aveva fatto altro che somigliargli, nient'altro che ripetere i suoi
errori e i suoi peccati.
Aveva calpestato tutto e tutti, i loro giudizi e le loro aspettative,
per raggiungere traguardi tanto anelati quanto sterili, se paragonati a
ciò che aveva sacrificato su quel suo folle sentiero.
Aveva ucciso la piccola volpe, la sola persona al mondo che l'avesse
mai amato e accettato per ciò che era realmente, non per
ciò che fingeva di essere, senza imporgli aspirazioni non
sue,
senza esigere niente in cambio.
Aveva abbandonato innocenza, misericordia e bontà, insieme a
quell'uccellino, ai piedi dell'albicocco.
Ed ora, non poteva più sopportare la vista dell'abominio che
era diventato.
"Non... non toccarmi!" strillò, sciogliendosi dalla presa
del
cappellano con una spallata, una formica isterica che cerca di
abbattere un obelisco di basalto a colpi di zampette.
Si precipitò fuori dalla stanza a testa bassa, attraversando
l'intera camerata in una corsa forsennata, incurante degli sguardi
attoniti e dei mormorii perplessi che suscitava tra i soldati e i
dottori al proprio passaggio.
Si accorse di colpo, dopo una vita trascorsa a compiacere gli altri,
che non gli importava affatto di ciò che stessero pensando
di
lui, dell'Intrepido Soldatino di Stagno.
Il più giovane medico graduato del quartier generale, il
solo
capace di mantenere la calma ed ottenere l'impensabile, mentre il cielo
e la terra tutt'attorno venivano squassati da infuocati venti di guerra.
Un angelo discreto, un solerte guardiano, il provvidenziale salvatore
di molti di loro, che vagava senza meta con il volto inondato di
lacrime, alla stregua di un bimbo punito o di un amante respinto.
Un'onda che si frantuma spumeggiando contro la scogliera non si
giustifica, né si cura della sorte e del pensiero delle
proprie
gemelle.
Daniel voleva farsi onda, scomparire dal mondo in mille candidi
spruzzi, oppure senza emettere suono, ma non gli fu concesso; non aveva
né incoscienza sufficiente, né abbastanza fegato.
La condanna inflittagli per essersi crogiolato nel peggiore dei peccati
capitali era divenire il Re Mida al rovescio della propria esistenza,
colui che muta in cenere l'oro che tocca.
Avrebbe voluto udire un'unica voce, un'unica opinione, ma quella voce e
quell'opinione erano lontane anni luce da lì, appartenevano
a
qualcuno che non avrebbe mai più potuto neppure sfiorare, ad
un
vecchio giocattolo lacero che aveva buttato via tempo prima senza
rimorso alcuno, mentre ora si affliggeva per averlo perduto per sempre.
Sebbene avesse percorso una lunga strada nella cecità oscura
dell'arroganza, era ancora il bambino insicuro che sperava di rendere
fiera la mamma, di sentirsi dire che era un bravo figlio, un bravo uomo
e un bravo ebreo, e di essere ricompensato con una manciata di
appetitosi lokoum.
Raggiunse il cortile semideserto, battuto dalle litanie del muezzin,
che una brezza algida e tagliente come una lama di coltello trascinava
fin lì dai minareti della città vecchia; al di
fuori
della sua tempesta, il mondo andava avanti, nella quiete apparente di
una notte rischiarata a giorno da una tonda luna piena.
Il sangue che martellava selvaggiamente nelle tempie gli
mozzò
il fiato, le ginocchia tremanti cedettero e lo fecero precipitare al
suolo, nella polvere, una fitta di dolore intenso si propagò
dai
polmoni alla milza. Il cuore, invece, non ebbe alcun sussulto: lo aveva
smarrito da molto, era rimasto a Pavia, tra le dita e le labbra di una
piccola volpe.
Restò steso bocconi nel punto esatto in cui era caduto, la
posizione di un supplice, pur consapevole che la propria ignavia gli ha
precluso l'opportunità di un desiderio o di una preghiera
esauditi.
Sapeva che non sarebbe stato capace di sollevare lo sguardo verso la
volta celeste: quella miriade di puntolini lucenti, quella sterminata
distesa di splendenti occhi ultraterreni sembrava essere comparsa per
piovere su di lui alla stregua di frecce argentee, per sondare i
recessi del suo animo vile, per giudicarlo secondo una sentenza
inappellabile.
Si era scelto un destino ormai immutabile, intrappolato a vita in quel
gioco delle parti al massacro, nel labirinto di specchi della
vanità, nel rompicapo a scatole cinesi delle lusinghe. E il
solo
filo d'Arianna a sua disposizione per evadere era stato reciso,
irreparabilmente.
Era come se guardasse la dimensione del proprio esilio per la prima
volta.
L'Afghanistan, una terra maledetta da D.o e devastata dagli uomini, un
fazzoletto di pietre intriso del sangue di un fratricidio, una
scacchiera di roccia costellata dei vessilli spezzati di innumerevoli
eserciti e dei segnacoli tombali dei suoi figlioli diseredati.
Una landa violata e invitta, dove le aspettative, le speranze, gli
individui si estinguono nel crepitio istantaneo di una scintilla, sotto
i bagliori tremuli di stelle morenti.
Un posto adatto ad un soldato così testardo.
"Atah
mit'akesh la'azov et hakol
Atah mit'akesh lachazor
el hachol
Lachazor el kulam- eizeh
gever akshan.
Ulai tenashek vetir'eh
kamah tov,
Ulai tenashek ve'al na
ta'azov,
Al ta'azov..."
(Trad.: "Tu ti ostini ad
abbandonare tutto
Tu insisti per fare
ritorno alla sabbia.
A ritornare da tutti
loro- un uomo così testardo.
Forse mi bacerai e ti
accorgerai di quanto è bello.
Forse mi bacerai- e, per
favore, non andartene.
Non andartene...")
FINE
Scrivere questa storia mi ha messo addosso una malinconia terribile,
che ha di gran lunga sorpassato la contentezza per aver concluso la mia
prima slash
originale.
Posso dire che io amo Daniel, anche se il fatto che Ottavio sia
pressoché la proiezione di me stessa dovrebbe
rendermi
cauta riguardo a simili affermazioni?
Siccome le note di questa storia sono chilometriche, come la storia
stessa, ho deciso di suddividerle in tre sezioni, per una consultazione
più agevole:
A) Glossario di
terminologia ebraica:
1) Dicesi cucina kasher
quell'insieme di ricette prescritte dalla tradizione kasherut,
ovvero quell'insieme di cibi che possono essere consumati in quanto
conformi alle regole, stabilite dalle sacre scritture ebraiche (la Torah).
2) I lokoum
sono dolci tipici
della cucina ebraica: si tratta, in pratica, di polpette di zucchero,
gomma arabica, aroma alla rosa e olio di mandorle.
3) D.o e Santo Benedetto sono
due appellativi ebraici per Dio.
4) La Shema
è la
preghiera ebraica del mattino e della sera, che si apre con alcune
citazioni bibliche da recitare l'una ad occhi coperti, l'altra a bassa
voce (vedi parte I della storia).
Compito di un buon padre ebreo è di insegnarla ai figli non
appena siano ritenuti abbastanza grandi da poterla apprendere.
5) Uno witz
è un motto
di spirito ebraico, una battuta fulminante che satireggia i difetti
tipici del popolo oppure le disavventure rocambolesche di qualche shnorrer, ebreo
errante che si arrabatta per riempirsi la pancia nei modi
più impensati ed esilaranti.
Fra quelli qui citati, quello inerente gli ebrei e il bere è
tratto dal libro di Moni Ovadia "Il
Conto dell'Ultima Cena", mentre quello sul vecchio Shlomo
è di mia invenzione, ma non è escluso che possa
esistere davvero.
6) Il Brit Milah
(lett. Patto del Taglio)
è la cerimonia di circoncisione rituale praticata sui
neonati maschi di religione ebraica.
Il kvatter
e la kvatterin,
sorta di padrino e madrina, sono di solito una coppia già
sposata senza figli o una coppia prossima al matrimonio. Costoro
portano il bambino dalla madre al padre, il quale poi lo
porgerà
al mohel,
il sacerdote e/o medico che eseguirà la circoncisione vera e
propria.
Lo Saudat Mitzvah
è il banchetto rituale che segue questa cerimonia.
7) Gentile
è il termine con cui gli ebrei definiscono i non ebrei.
E' qui opportuno ricordare che, nonostante il padre non appartenga a
questa confessione, Myriam e sua sorella sono ebree, in quanto per
l'ebraismo la discendenza e le credenze religiose si mantengono lungo
la linea materna, e non paterna.
8) Lo yiddish
è una lingua germanica, scritta in alfabeto ebraico e
parlata dagli ebrei del ramo dell'Europa orientale.
9) Il Bar Mitzvah
è la
cerimonia che segna il passaggio all'età adulta dei giovani
maschi ebrei, i quali ottengono il permesso di leggere la Torah in sinagoga
davanti all'assemblea dei fedeli per la prima volta.
10) Samaele
è uno dei nomi della bibbia ebraica per designare il Demonio.
11) I se'ir
(satiri) sono
spiritelli poco raccomandabili che fanno parte del corteggio di Lilith,
la prima moglie demoniaca e ribelle di Adamo.
12) Lo Shiva
è il lutto
rituale ebraico, che prevede i comportamenti qui elencati; spesso, lo
si riserva agli eredi della casa che compiono azioni disdicevoli e
vengono diseredati dalla famiglia.
13) I Tefillin
(filatteri) sono gli astucci da preghiera in cuoio che gli ebrei
osservanti si legano sulla fronte e sulle spalle.
14) Il Talled
è lo scialle frangiato da preghiera che viene imposto ai
ragazzi maschi a partire dal Bar
Mitzvah.
15) Il Maghen David
è la comune Stella di David, a sei punte.
16) Agli ebrei è stato fatto divieto di ricostruire il
Tempio di
Gerusalemme, distrutto definitivamente dall'imperatore romano Tito.
Ciò che ne rimane è il noto Muro del Pianto,
luogo di preghiera situato nella città vecchia di
Gerusalemme.
B)
Interpretazione della barriera psichica scelta:
E' pressoché impossibile scrivere una storia
sull'aspettativa in sé.
Pertanto, ho deciso di interpretarla in senso arcieristico:
l'aspettativa, nel tiro con l'arco, è il desiderio inconscio
dell'arciere di raggiungere il risultato più alto con il
proprio
tiro, desiderio che finisce per influire sulla fluidità
dell'azione atletica stessa e che porta a risultati mediocri.
Quindi, nella mia storia l'aspettativa diviene di volta in volta
speranza, aspirazione, desiderio, ambizione; spero che ciò
sia
comunque conforme ai parametri imposti.
C) Altre note
varie ed eventuali:
1) Il quartier generale e l'ospedale militare di Herat sono i luoghi in
cui è dislocato il contingente italiano in Afghanistan.
2) L'Isaf è l'alleanza degli Stati partecipanti alla guerra,
appunto, in Afghanistan.
3) Il pashto
è il dialetto parlato dalla guerresca popolazione indigena
dei pashtun.
Altra lingua diffusa nell'area è il dari, una sorta di
dialetto persiano.
4) Top Gun
è il celebre film sui piloti dell'aviazione americana, con
Tom Cruise.
5) Spank è il cagnolino combinaguai del cartone animato
giapponese Hallo, Spank!
6) M*A*S*H*
è un film
(poi divenuto telefilm) sulle tragicomiche disavventure di un gruppo di
medici militari americani, durante la guerra di Corea.
7) L'ippopotamo ballerino proviene dal film Disney "Fantasia",
nell'episodio ispirato alla musica de "La Danza delle Ore".
8) L'Intrepido Soldatino di Stagno e la sua amata ballerina di carta
sono i protagonisti dell'omonima fiaba di Hans Christian Andersen.
9) Il Ciclo di Krebs è una delle fasi per la scomposizione
chimica del glucosio negli zuccheri elementari che lo costituiscono.
Quanto ho scritto in proposito è stato tratto di peso dalla
pagina dedicata di Wikipedia, data la mia assoluta ignoranza in materia.
10) La damnatio memoriae
era
la cancellazione cui venivano sottoposti rilievi e statue romane, sui
quali era effigiato qualche imperatore malvoluto o considerato scomodo
dai suoi successori.
11) Il mullah
è il maestro di una scuola coranica, l'unico a cui
è concesso di interpretare i passi del libro sacro islamico.
12) Le torri atterrate
di Sionne è una citazione tratta dal coro di
ebrei deportati dell'opera lirica "Nabucco"
di Giuseppe Verdi, il celebre "Va'
Pensiero".
Troppo spesso la gente si dimentica che è un canto
struggente di
rimpianto della patria perduta, all'epoca della cattività
babilonese.
13) Il Pomo di Adamo, così chiamato secondo la leggenda
popolare
che lo individua come il boccone del frutto proibito rimasto incastrato
nell'esofago dell'uomo.
14) Il
commento sarcastico di Ottavio sui filosofi alluderebbe alla
celebre teoria del sapiente greco Platone, secondo il quale il
più basso grado di conoscenza (quella dei sensi)
è
paragonabile alla contemplazione delle ombre degli oggetti sul fondo di
una caverna.
15) A Firenze dovrebbe esserci l'accademia per i medici militari,
secondo una fonte abbastanza attendibile, ma non verificata.
16) Il muezzin
è colui che chiama i fedeli islamici alla preghiera, dal
minareto della moschea.
17) Arianna era la principessa cretese che diede un gomitolo di filo
all'eroe Teseo, affinché lo aiutasse a ritrovare la strada
per
uscire dal labirinto del Minotauro.
18) Re Mida salvò Sileno, il compagno del dio Dioniso, da
morte
certa ed ebbe in cambio l'abilità di trasformare tutto
ciò che toccava in oro, anche se presto si pentì
di un
simile dono...
19) Sempre secondo una leggenda popolare, Caino si sarebbe rifugiato in
Afghanistan dopo l'uccisione del fratello
Abele.
Risultati dei contest:
I classificata (a parimerito) + Premio Originalità al "Multifandom for Albert
Einstein" di Nonnapapera
a) CORRETTEZZA GRAMMATICALE: 10 punti
b) STILE E LESSICO: 10 punti
c) ORIGINALITA': 10 punti
e) UTILIZZO DELLA CITAZIONE: 10 punti
f) APPREZZAMENTO PERSONALE: 5 punti
Tot: 45
Dunque, nella storia era presente qualche miserrimo e insignificante
errore di battitura (d'altronde del tutto comprensibile vista la
lunghezza del racconto), di cui non ho tenuto assolutamente conto. Per
il resto tutto a posto, scrivi molto bene e per quanto riguarda la
grammatica non c’è assolutamente nulla da
eccepire.
Ho trovato il tuo stile di scrittura veramente magnifico. Il lessico
è sempre puntuale e molto forbito, senza però
arrivare a
risultare, per la troppa ricercatezza di termini, pomposo e pesante.
Non c’è nulla in questa storia che sia scritto
superfluamente, tutto è ponderato. Ogni minima sfumatura
serve
per dare colore e concretezza al racconto.
Parlando della storia l’ho trovata a dir poco celestiale!
L’idea è senza dubbio molto originale. Mischi
molto bene
l’introspezione del personaggio con i numerosi flash back
della
sua vita infantile e ne giustifichi le scelte, le aspirazioni e gli
sbagli.
Non so se già di tuo conosci bene la realtà
ebraica,
oppure se ti sei informata giusto per scrivere la storia,
però
grazie alle tue parole il lettore si immerge in un mondo nuovo
straordinariamente ricco.
La lettura scorre veloce e le pagine volano senza che chi legge ne
percepisca minimamente il peso.
La citazione è stata inserita talmente bene nella storia che
quasi mi sfuggiva.
L’idea di inserirla come parte integrante di un discorso
più ampio le ha dato vita propria, trasformandola da
semplice
citazione a vero e proprio ragionamento logico.
Non credo serva che ti dica quanto abbia apprezzato questa storia.
Mi sono ritrovata alla fine del racconto a fissare il foglio bianco,
subito accanto al punto finale ed a pensare : “povero Daniel,
non
se lo meritava un risveglio così doloroso”.
E’ una storia molto profonda e struggente piena di dolcezza
ma che ti lascia l’amaro in bocca.
Concludendo, ti ringrazio per aver partecipato a questo contest,
perché mi ha dato la possibilità di immergermi
nel mondo
che hai creato e la cosa mi ha profondamente toccato l’anima!
Naturalmente un primo posto anche alla tua opera era
d’obbligo!
Contest "Le Sette Barriere Psichiche" di
May8Rose (giudicato da Bimba_chic_Aiko)
Correttezza Grammaticale: 10/10
Pur leggendo con tutta l'attenzione di cui sono capace, non ho notato
errori che possano essere contati come grammaticali.
Buon uso delle virgole e della punteggiatura in generale, unito a un
uso cosciente dei tempi verbali in tutta la narrazione ne fanno una
lettura scorrevole.
Stile e Lessico: 10/10
Le scelte lessicali e stilistiche che hai effettuato si modellano
perfettamente sull'idea che hai deciso di sviluppare.
Un'idea indubbiamente non banale, ma di quesro parlerò
più avanti.
Comunque, il linguaggio è delicato anche nei passaggi
più tristi, non aulico, ma nemmeno eccessivamente semplice.
Una giusta via di mezzo tra il pomposo e lo scarno; un lessico che
assume la gravità o la leggerezza della storia che sta
declamando.
Caratterizzazione Personaggi: 10/10
Essendo personaggi originali, mi devo attenere unicamente alle mie
impressioni e sensazione.
Non c'è niente di oggettivo in questa valutazione, quindi mi
scuso se non saprò spiegarmi bene come vorrei.
Il primo personaggio che compare è un Daniel bambino,
innocente
e buono. Un Daniel che, pur giovane, compie una scelta consapevole
riguardo qualcosa di veramente nobile che già definisce in
buona
parte ciò che sarà.
E non delude la vita che sceglie di condurre, quella di medico
militare, alla perenne ricerca della salvezza non per sé, ma
per
gli altri.
E' un personaggio indubbiamente non comune, analizzato con una
profondità tale da renderlo quasi reale.
Altro personaggio incredibile, più per la sua vena di
comicità e allegria che per altro, è Mauro.
Posso assicurarti che le sue parole e la sua irruenza mi hanno fatto
sorridere parecchio.
Ma, sopra tutto e tutti, posso affermare di aver amato Ottavio fin
dalla sua prima comparsa: ha saputo farmi ridere, piangere ed
emozionare in qualunque modo potesse accadere.
Quindi, hai qualche dubbio sul perchè il tuo punteggio sia
così alto?
Originalità: 10/10
Questa storia trasuda originalità da tutti i pori.
Hai preso spunti da elementi che, te lo dico con tutta
sincerità, mi hanno lasciata letteralmente a bocca aperta.
L'idea di un ospedale militare durante i conflitti ad Herat...be', non
ho mai letto, sinceramente, niente di più originale e
incredibile.
Attinenza alla citazione: 9.5/10
Ho dovuto leggere attentamente la fic per riuscire a trovare
l'aspettativa.
E, lo ammetto, non credo di averla colta a pieno.
E' come se esistesse una sorta di Aspettativa, con la
“a”
maiuscola, sottesa che permane in tutta la narrazione, ma che allo
stesso tempo sembra sfuggire dalle mani del lettore.
Prima l'aspettativa a cercare di salvare vite, poi quella ad essere
qualcosa che lo faccia sentire bene.
Un aspettativa senz'altro singolare e devo ringraziare le note che hai
messo in calce alla storia che mi hanno aiutata a darti quasi il
massimo del punteggio.
Voto personale: 5/5
Non penso ci siano parole abbastanza descrittive per spiegarti quanto
questa storia mi abbia colpita.
Dalla prima all'ultima riga, sono rimasta incatenata allo schermo,
incapace di smettere di leggere.
E' una storia molto avvincente.
Ma non è l'unico elemento che rende impossibile non leggere
tutto d'un fiato questa storia.
Personalmente, la cosa che più mi è piaciuta sono
stati i
personaggi che ritengo essere l'attrazione principale della fic.
Per carità, con questo non voglio assolutamente screditare
tutto
il resto, ma essi solo ciò che mi ha maggiormente
affascinata.
Ovviamente ho amato Daniel in ogni passaggio, per ciò che
è e per le scelte che fa.
Una parte che, poi, mi è piaciuta moltissimo per la sua
dolcezza
è la descrizione della famiglia del tenente Acquasparta.
Un passaggio saturo di una dolcezza incredibile, soprattutto per un
ambiente così duro come un ospedale militare, che
contribuisce a
rendere più umano e più vero il tutto.
TOTALE: 54.5 punti
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