Quella
mattina si era svegliato
con un raggio di sole a solleticargli il naso e per un lunghissimo
istante
aveva perso la percezione del tempo e dello spazio: sole?
Eddie
era tornato a Seattle da
meno di una settimana, Halloween era passato da poco e da allora non
aveva mai
smesso di piovere.
Avrebbe
dovuto capirlo da quel
particolare che la giornata sarebbe scivolata giù storta,
perché a Seattle non
è quasi mai il sole a darti il buongiorno. A meno che non
voglia farti dispetto
facendoti pagare la colossale sbornia della sera prima.
Non
era nello stato psico-fisico
migliore, insomma, per la telefonata che, chissà
perché, aveva deciso di fare
prima di pranzo. È che a volte ne sentiva la nostalgia: a
quasi ventisei anni
non dovrebbe probabilmente più succedere, ma Karen gli
mancava spesso. Anche se
non riusciva a decidere fosse stata una buona madre o meno.
Forse non stava comunque a lui decidere,
però.
“No
mamma, non credo di poter
tornare a Chicago per Natale. Lo so che ho saltato anche il
Ringraziamento, ma
non ho tempo. No mamma, non sto inventando scuse, e lo so che il
bastardo non
ci sarà, non è lui il problema e lo chiamo
bastardo quanto mi pare.”
Non
era solo lui il problema,
almeno.
Il
dolore cominciava a pulsargli
più forte nelle tempie, quasi non riusciva a tenere gli
occhi aperti e quel
sole maledetto non lo aiutava. Inserì per sicurezza un altro
quarto di dollaro
nel telefono pubblico reprimendo un moto di stizza, perché
non aveva alcuna
voglia di continuare quella conversazione, ma allo stesso tempo voleva
continuare a sentire la voce di sua madre e magari riuscire finalmente
a
spiegarle perchè
capitava tanto di
rado a Chicago. Ma ogni volta gli mancava il coraggio di scomodare la
verità.
Cosa avrebbe dovuto dirle, che non sopportava il modo in cui tutti lo
guardavano? Che non sopportava il modo in cui lei
lo guardava? Che ne aveva le tasche piene delle vecchie zie che
aveva scoperto da tanto poco di avere che continuavano a toccarlo come
fosse
una reliquia e a raccontargli di quanto
somiglia al suo povero papà, che bel ragazzo che era, che
bel ragazzo che sei,
hai proprio i suoi occhi, anche lui era tanto bravo a cantare, e
suonava il
pianoforte, hai ripreso sicuramente da lui, prendi un tortino di carne
era il
suo piatto preferito, ti piace il tortino?
No,
il tortino gli faceva schifo
anche solo guardarlo, era vegetariano da più di dieci anni,
ma sembrava non
interessasse a nessuno dei suoi nuovi parenti. Perché
Edward era tanto ghiotto di manzo, avessi visto le grigliate che
preparava!
Che
fregatura il codice genetico,
finisce per costringerti alla catena di un legame con un padre che
nemmeno
conosci ed allo stesso tempo spezza sul nascere quello che si sarebbe
potuto
instaurare con l’uomo che ti ha comunque regalato un cognome
ed un posto nel
mondo.
Balle.
Scosse
la testa concentrandosi di
nuovo sulla voce di sua madre, non voleva pensare
all’avvocato, non voleva il
suo nome e se n’era liberato appena ne aveva avuta la
possibilità. Non voleva
essere un Mueller, non voleva essere un Severson, non voleva nemmeno
essere l’ennesimo Edward,
tutto quello che voleva
era essere solo Eddie.
Aveva
riagganciato promettendo a
Karen che lui e Beth si sarebbero fatti vedere non appena si fossero
sistemate
le cose a Seattle. Non prima
dell’estate,
insomma, ma questo a lei non l’aveva detto.
Aveva
riagganciato piano
appoggiandosi alla cornetta all’apparecchio alla cabina
telefonica, come se
sentisse un peso insostenibile gravargli sulle spalle; aveva
abbandonato il
letto da poco, ma già si sentiva stanco, e si sentiva solo.
Ad
Eddie sarebbe piaciuto potersi
ammantare dell’aura dell’eremita,
dell’inaccessibile asceta, ma la verità era
non riuscisse a stare da solo. Non davvero
da solo, almeno. Aveva bisogno di sapere ci fosse qualcuno ad
attenderlo,
che pensasse a lui, una persona di cui poter ascoltare la voce e
sentire il
calore in ogni momento. Persone di cui potersi fidare. A San Diego
aveva tantissimi
amici, a San Diego conosceva tutti, dai musicisti scapestrati ai
pescatori
della baia fino ai surfisti di Trestles.
A
Seattle non conosceva nessuno
tranne i componenti del suo nuovo gruppo dal nome stupido –Mookie Blaylock? Quanto dovevano essere stati
ubriachi per pensare
fosse una buona idea il nome di un giocatore di basket? - e poche
settimane di frequentazione e
qualche concerto insieme non bastavano a farne degli amici. A Seattle
nemmeno
il calore del sole gli risultava accogliente, persino quei pochi raggi
sembravano
corrosi dall’umidità.
Un
giorno avrebbe amato quella
città, l’avrebbe amata come si ama un rifugio,
avrebbe amato il lussureggiante
smeraldo che la circondava come un alone e quella grazia sfatta da
vecchia
regina del nord, sarebbe riuscito a sentire il caldo abbraccio di cui
era
capace, avrebbe tratto energia dal suo ventre ribollente di umori. Ma
non
allora, non in quel novembre d’inizio decade che sembrava
prenderlo in giro
scimmiottando la luce di quella California ch’era
già Messico, facendogli
montare la nostalgia persino di certi pomeriggi ad Encinitas1,
nel
giardino davanti casa a rincorrere il cane con un frisbee mentre
cantava “I want
you back”(2)
imitando
il falsetto di un ragazzino poco più vecchio di lui, nella
patetica parodia di
una felice normalità da downtown tutta americana.
S’incamminò
curvo lungo la 4th
Ave superando un paio di caseggiati in via di demolizione mentre
tentava di
arrivare al capannone: non che il covo non
meritasse di essere tirato giù, ovviamente, ma i proprietari
non sembravano
molto interessati alla riqualificazione in atto nella zona e questo a
loro
andava più che bene visto la miseria che chiedevano
d’affitto.
Guardò
l’orologio e poi il cielo,
il cielo e poi di nuovo l’orologio: era passato da poco
mezzogiorno, ma solo
allora s’accorgeva non ci fosse una sola macchia azzurra
sopra di lui. Il cielo
era bianco, lattiginoso e opprimente, come una coperta non troppo
pesante
lasciava trasudare una luce molesta, non rassicurate.
Stava sudando ed era ancora quella pioggia che non
si decideva a
cadere.
In
un piccolo snack bar qualcuno
teneva gli amplificatori troppo alti e “About a girl”
risuonava
nei dintorni con
il suo carico di fatalismo sporco e senza via d’uscita:
Cobain aveva sapientemente
e scientemente macchiato la “Michelle” di
Lennon ed in pochi se n’erano accorti,
avevano solo mangiato quella sporcizia come piccoli topi avidi.
Scosse
la testa pensando a quel
ragazzetto biondo tutt’ossa che gli era capitato
d’incrociare qualche volta
all’Off Ramp, quando suonavano i Garden o gli Screaming
Trees, sapeva di non
essergli simpatico e non riusciva a capirne il motivo. Non avevano mai
parlato,
nessuno li aveva mai nemmeno presentati, Jeff gli aveva semplicemente
detto lascia perdere quando gli
aveva
accennato di voler fare quella conoscenza e persino Stone e Mike
– che di solito
parlava bene di tutti in quanto non gli fregava davvero di nessuno
– l’avevano
dissuaso. Non era uno tutto giusto, quel Cobain e, soprattutto, non
poteva
vedere quel loro nuovo gruppo in blocco, perché Mark Arm
aveva già deciso
fossero una band di paraculi pronti a tagliarsi le palle per vendere. E
Mark
Arm era il piccolo dio alternativo che aveva cominciato a far muovere
le acque
grigie di Seattle, Cobain non era il solo a dargli credito sulla
parola. Poco
importava Arm dovesse il suo nome e la gloria indie dei Green River ai
riffs
dello stesso Gossard e al potente finger style di Ament: i River non
esistevano
più perché chi pensava di vivere con la musica
era solo l’ennesimo leccaculo
del sistema.
Pensare
che a lui sarebbe bastato
diventare come Ian MacKaye(3), l’Off
Ramp in fondo somigliava un po’
ad un centro sociale, cupo e stretto com’era.
Sarebbe stata dura farsi un seguito serio con
quelle premesse.
Sarebbe
stata dura anche far
dimenticare, o almeno mettere da parte, quell’altro biondino
di cui non voleva
prendere il posto. Rispettava il lavoro di Andrew Wood, gli piacevano
le sue
canzoni, sapeva che, se fosse sopravvissuto, sarebbe diventato una rock
star
anche più grande di quel grosso pallone gonfiato di Axl
Rose.
Wood,
per la Seattle dei clubs e dei vicoli, quella
sporca e triviale,
era una sorta di monumento e lo era diventato molto prima di bruciare
come
un’apparente nova senza futuro – ché
invece i Mother Love Bone erano una supernova che avrebbe generato una
luminosissima stella.
Eddie
aveva chiesto di poter
vedere le registrazioni dei concerti e ci era rimasto secco,
perché sentire quella
voce sul nastro non l’aveva preparato all’effettiva
portata visiva di un
ventiquattrenne che sembrava aver rubato il carisma di Marc Bolan. Wood
era un
pagliaccio che non aveva bisogno di trucco e belletti per creare la sua
maschera migliore, quella che vestiva sul palco da che era un
adolescente
troppo alto e troppo etereo per il grigio del nord, quella che faceva
accorrere
sotto il palco donne e uomini in egual misura nonostante il suo viso
non
potesse proprio essere considerato bello né per un uomo
né per una donna,
quella che lo rendeva sfrontato senza ritegno, ed allora poteva
presentarsi sul
palco anche con l’ombelico scoperto come una star degli anni
70 - o una squillo che non avresti mai potuto
avere. Non aveva l’irriverenza elegante di Ziggy,
né i suoi tratti da
geisha senza sesso, non era un pierrot triste, lui: era una Circe
coperta di
lustrini e piume con il pacco in evidenza, e sul palco esplodeva in
un’orgia di
vita.
La
stessa vita che aveva
consumato sulla punta di un ago, però.
Eddie
non voleva essere il nuovo
Love Child(4), non voleva essere “quello
che ha preso il posto di Andy” ed in quei primi
tempi a Seattle era stata
anche la prima cosa che aveva ribadito con forza inaspettata: a lui non
interessava prendere il suo posto, era stanco di prendere il posto di
un altro,
gli bastava camminare per la propria strada, con i propri vestiti
addosso, al
massimo sventolare una bandiera nera.
Sarebbe stato fighissimo.
Avrebbe
riportato il punk dove
meritava di essere, avrebbe lasciato libero il rock di scorrere come ai
vecchi
tempi, come se la Luna non si fosse mai addormentata e Hendrix stesse
ancora
suonando in mezzo al fango The
Star-Spangled Banner(5)con la mano del diavolo sul cuore.
Gli
venivano i brividi solo a pensarci.
“Eccoci
a casa. E speriamo bene.”
“Che
fai, parli da solo?”
Eddie
aveva sussultato
comicamente girandosi di scatto verso quella voce che l’aveva
apostrofato tanto
divertita. Stone lo guardava stando qualche passo dietro di lui, le
mani
affondate nelle tasche dei jeans e la chitarra in spalla; e quella sua
espressione indecifrabile. Eddie era arrossito fino alla punta delle
orecchie
per essere stato riportato tanto bruscamente alla realtà da
uno scomodo
testimone: perché Stone era la persona più strana
il cantante avesse mai
incontrato, se non avesse avuto i capelli tanto lunghi, la sua
compostezza
avrebbe fatto pensare ad un nerd, poi però ti gelava con il
suo umorismo
tagliente che d’inglese aveva solo il cinismo a tratti
feroce. E i suoi occhi
ti fissavano sempre come se stesse per affondare quella sua lingua
aguzza in un
bersaglio troppo facile. Eddie aveva un
po’ paura di diventare quel bersaglio, ma anche di perdere le
staffe e menargli
così, per una ragione che avrebbe poi capito solo lui.
Stone
aveva soppesato il
californiano per un po’, davvero divertito, perché
quel ragazzo si ostinava a
non voler entrare nell’ottica del clima del nord-ovest: era
vestito troppo
pesante per quella coda di estate di San Martino che a Seattle si
trasformava
solo in un limbo uggioso fatto di goccioline sospese a
mezz’aria: ma se guardavi bene,
potevi arrischiare la
ricerca del tesoro ai piedi di un arcobaleno chimico.
Perché
anche la musica era
chimica in fondo, forse era quello il motivo per cui, in quel colpo di
coda di
un decennio strano e vacuo, anche Seattle poteva andar bene come
palcoscenico: da Hendrix in poi, almeno,
nessuno aveva più
potuto ignorare quel nord dal clima infame e dai paesaggi suggestivi.
Ma
Stone era anche uno che non
sprecava una buona battuta per chi sapeva non l’avrebbe
capita. O l’avrebbe
capita male. Il ragazzo californiano gli andava a genio, ma gli dava
l’idea di
essere davvero troppo indifeso: era come uno di quei gattini randagi
che tenta di
graffiarti gli occhi per non lasciarti vedere quanto è
invece inerme.
Sostanzialmente innocuo.
Ancora
non riusciva a credere – oramai
più di un mese prima – si fosse
presentato da loro con dei regali, piccoli collage e quadri fatti da
lui, a
tema musicale ovviamente. Molto belli anche, originali; Jeff, da
illustratore
mancato qual’era, li aveva adorati. Stone, che aveva una
sorella più piccola
che amava da morire, non aveva potuto far altro che sentire un moto di
tenerezza per quel ragazzino troppo cresciuto che stava ingenuamente
tentando
di farsi accettare da degli sconosciuti. E per Jeff era stato lo
stesso,
l’aveva adottato nel momento stesso in cui aveva sentito quel
demo, in fondo.
“Dobbiamo
aspettare Jeff, è lui
che ha le chiavi. Sono rimasto fuori anch’io, sto aspettando
qua fuori come un
fesso da quasi venti minuti.”
Eddie
gli aveva fatto un cenno di
saluto abbassando gli occhi sulle scarpe, non aveva nemmeno tentato di
darsi un
tono. Stone scosse la testa con un mezzo sorriso e gli si
avvicinò invitandolo
a sedersi sull’asfalto davanti al cancello
d’ingresso, tanto per stare più
comodi. Tentò anche di imbastire una conversazione di un
qualche tipo, ma con
Eddie non era tanto facile. Per lui almeno: Jeff gli aveva detto al
contrario
che il cantante era un gran chiacchierone, se ingranava poteva andare
avanti a
parlare per ore dimenticando persino di respirare. Ma con il bassista
Eddie
sembrava aver sentito un’intesa particolare da subito,
probabilmente doveva
solo dargli un po’ di tempo per sciogliersi.
Anche
sul palco.
Avevano
già fatto qualche serata
insieme, la prima dopo appena una settimana dall’arrivo del
cantante a Seattle:
a Mike era quasi preso un colpo, ma un po’ tutti avevano
fissato Stone come se
fosse impazzito. Solo Eddie era stato zitto e non aveva fatto nemmeno
un’obiezione.
All’inizio
aveva pensato quello
fosse un punto a suo favore, aveva fegato ad accettare di mostrarsi
così presto
ad un pubblico sconosciuto che poteva risultare persino ostile visti i
trascorsi e la dipartita recente di Andy. Ma
dovevano pur cominciare, rimandare sarebbe stato inutile.
Eddie
su quel palco all’Off Ramp
gli aveva fatto ancora più tenerezza, però. Era
più grande di Stone di quasi due
anni, persino più prestante, ma gli faceva tenerezza
comunque.
La
prima cosa che aveva notato di
lui quella sera era stata l’immobilità quasi
totale. L’asta del microfono -
regolata all’altezza minima, ma che lo
sovrastava comunque di un paio di centimetri - quasi non la
sfiorava
neppure: cantava e basta. Guardava un punto imprecisato sopra le teste
del
pubblico con quei suoi incredibili occhi in cui il grigio e
l’azzurro si
fondevano per regalarti solo la pienezza del vuoto ancestrale della
tristezza,
e cantava.
Quella bella immagine non era del chitarrista
però.
Era
stato Jeff a suggerirgliela
quella notte stessa dopo il concerto, mentre lo riaccompagnava a casa
con il
suo scassatissimo pick-up: era in quei momenti che Stone realizzava
quanto era
costato al bassista dover abbandonare i suoi studi e quel sogno di
dipingere la
vita con l’acido degli acrilici.
“Ed,
posso farti una domanda?”
“Certo…”
“Perché
non ti muovi?”
“Eh?
In che senso…?”
“Voglio
dire… Sul palco. Ormai è
un po’ che suoniamo insieme, durante le prove non sei mai
così statico, ma non
possiamo certo nasconderti il pubblico o suonare per sempre solo tra
noi. Mi
pare la gente ti abbia accolto bene, no? Quindi perché non
riesci a
scioglierti?”
Stranamente
Ed non aveva
abbassato lo sguardo, ma aveva fissato il chitarrista con
un’espressione
spaurita spalancando gli occhi come un ragazzino colto con le mani nel
vaso di
biscotti. Stone stava quasi per rimangiarsi la domanda un po’
pentito di essere
stato tanto diretto – e forse aveva ragione Jeff quando gli
diceva che non poteva
fare lo schiacciasassi con chiunque -, ma Eddie si era ricomposto
subito, con
un sospiro che suonava quasi sollevato.
“E’
che ho visto Andy.” Gli aveva
risposto a bruciapelo tornando a guardarsi le scarpe.
“Cosa?
Che fai vedi la gente
morta? Guarda che non ti fa bene bere tanto se…”
“No,
non in quel senso! Voglio
dire le registrazioni, i vostri concerti come Mother Love Bone. Le ho
chieste a
Jeff. La gente di qui sembrava proprio in fissa con il vostro vecchio
gruppo.”
“Beh,
sì, non ci possiamo lamentare.
Quel cretino era bravo, ci sapeva fare con la gente.”
“Già.
Ma io non sono Andrew Wood.
Io non so stare sul palco come lui e non ci voglio nemmeno
provare.”
Il
chitarrista si era messo a
ridere; dapprima piano, poi aveva proprio cominciato a sganasciarsi.
Eddie non
sapeva se doveva imitarlo – anche
se non
capiva il motivo di tanta ilarità: però non
voleva passare per scemo, magari
aveva detto qualcosa di divertente senza accorgersene. – od
offendersi a morte: pensava stessero
facendo un discorso serio, vaffanculo.
Il
chitarrista si era asciugato
gli occhi cercando di trattenere gli ultimi sussulti
d’ilarità ed aveva
guardato Eddie con la sua solita espressione tanto ironica da risultare
persino
insultante.
“Guarda
che lo so, lo sappiamo
tutti che non sei come Andy, e ti assicuro che non è mai
stato un problema. Se
avessimo voluto un altro come lui tu non saresti qui adesso,
perché saresti
stato bocciato prima ancora che ti vedessimo in faccia: non siamo
sordi, la tua
voce non ha niente a che fare con quella di Andy e le tue canzoni sono
talmente
diverse da quelle che scriveva lui che è impossibile
paragonarle. Mettiti bene
in testa una cosa: noi non stiamo ricostruendo i Love Bone, quello
è passato e
tale rimarrà. Stiamo cercando di fare qualcosa di nuovo,
quindi tu fa solo
quello che ti senti di fare. Se preferisci stare immobile davanti al
microfono,
beh, fa’ pure. Ma non farlo solo perché hai paura
qualcuno possa paragonarti ad
Andy, perché l’hanno capito tutti che questa
è un’altra storia. E poi
diciamocelo, tu col rossetto faresti cagare.”
Ed
Eddie l’aveva fissato a lungo
negli occhi, poi gli aveva sorriso, forse per la prima volta da che si
erano
incontrati. Sembrava non volesse sentirsi
dire altro.
“Sì,
non credo il rossetto mi starebbe
bene, ma chi lo sa, mai precludersi niente nella vita.”
“Oh,
se vuoi c’è Mike che può
darti un sacco di consigli, la sua vecchia band faceva glam rock(6),
avresti dovuto vederlo con la cresta e gli spandex!”
“Mike?
Dai, stai scherzando!”
Avevano
continuato così per un
po’, ridendo come stupidi di tutto e niente. Così
li aveva trovati Jeff quando
era finalmente arrivato, trafelatissimo con il basso a tracolla e lo
skate
sottobraccio.
“Finalmente!”
Stone aveva
apostrofato il bassista fintamente irritato, ma senza riuscire a
stemperare il
mezzo sorriso che gli aleggiava sulle labbra. In
fondo era stato un bene avesse fatto tardi.
“Mi
dispiace ragazzi, ma ho
dovuto fare gli straordinari al ristorante oggi, non sono riuscito a
venir via
prima.”
“Oh
andiamo Jeff, stai ancora
lavorando lì? Perché non l’hai lasciato
quel lavoro del cazzo?”
Il
bassista aveva mentalmente
contato fino a dieci per evitare d’incazzarsi. Non aveva
voglia di litigare,
era stanco e pure affamato dato che non aveva avuto tempo di mettere
niente
sotto i denti, aveva caldo ed anche un principio di mal di testa. Tutto
quel
che voleva era cominciare le prove e decidere il da farsi per la serata.
“Stone,
non lo lascio il lavoro
finchè non avremo il disco pronto e te l’ho detto
mille volte, non importa se
abbiamo già il contratto firmato. E ora alzate il culo che
devo aprire il
cancello.”
“Che
palle che sei. Non avresti
problemi di affitto se mi avessi dato retta e fossi venuto da me,
sarebbe stato
più comodo per tutti.”
“Ancora
con questa storia? Cazzo
Stone, non possiamo dividere casa io e te, ci scanneremmo ogni due
minuti, già
vorrei dartele adesso! E poi i soldi ci servono, abbiamo altre spese e
la casa
discografica ancora non copre un cazzo, quindi piantala di dare aria
alla bocca
che abbiamo altri problemi!”
Eddie
era rimasto prudentemente
in disparte assistendo a quel litigio piuttosto perplesso, senza
riuscire a
decidere se intervenire o meno. Non avrebbe saputo a favore di chi,
comunque.
“Litigano
di nuovo? Che palle.”
Per
la seconda volta quel giorno,
il cantante era stato colto di sorpresa alle spalle da un chitarrista.
Mike non
lo stava degnando di uno sguardo, comunque, si limitava a guardare
Stone e Jeff
che continuavano a discutere mentre si dirigevano verso
l’interno del
caseggiato. Solo quando i due erano scomparsi all’interno si
era voltato verso
Ed con un sorrisone allegrissimo sulle labbra.
“Ciao.
Allora, che è successo
stavolta, Stone ha fatto qualche altro cambiamento senza dirgli
niente?”
“Stone
fa cambiamenti senza
consultare nessuno?”
“Solo
alle canzoni, ma di solito
mentre suoniamo: una delle canzoni sul demo che ti abbiamo mandato
l’abbiamo
rifatta almeno dieci volte, non era mai contento del risultato. Jeff
stava per
spaccargli il basso in testa. Vabbè, entriamo?”
“Sì…”
Mike
si era incamminato verso l’interno
a passo lento, ciondolante, facendo oscillare noncurante la chitarra;
Eddie
l’aveva seguito pensando a quanto quel gruppo fosse assortito
male, erano
talmente diversi l’uno dall’altro che se non fosse
stato per la musica non si
sarebbero probabilmente mai nemmeno parlati.
Sorrise a quel pensiero.
Avevano
la musica in comune. Era
più che sufficiente.
Krusen
si unì al resto del gruppo
solo dopo un’ora, ma era previsto, quindi nessuno si era
preoccupato della sua
assenza: la moglie del batterista era incinta, qualche concessione
dovevano pur
fargliela visto che era difficile le rimandassero a casa il marito
prima
dell’alba.
Ne
avevano approfittato per
limare un paio di canzoni praticamente già pronte per essere
registrate – quando sarebbe stato
il momento. Ma quanto
ci mettevano a decidersi, alla Epic? –
e portarne avanti altre: Mike doveva aver vaticinato, perché
Stone aveva
davvero fatto dei cambiamenti stravolgendo completamente
l’arrangiamento di una
delle sue musiche, vanificando il lavoro di Eddie che, proprio su quel
pezzo,
aveva composto un testo nuovo.
E
Jeff si era incazzato ancora.
“Questo
è troppo, non puoi
cambiare i pezzi a piacimento quando sono praticamente finiti, Cristo,
c’è pure
il testo!”
“Ma
la base melodica era noiosa!
Ho solo fatto un’apertura sul secondo do, non è
niente di così complicato da
ricordare o eseguire.”
“Non
è questo il punto, Stone! È
che ora si dovrà riadattare la metrica del testo,
probabilmente dovrà essere
riscritto e allora sarà altro tempo perso! Perché
diavolo ti ostini a non
avvertire nessuno e a fare tutto per conto tuo?”
“Oh
andiamo, vi ho avvertiti, no?
La modifica l’ho fatta appena sveglio, quella nota mi era
risuonata in testa
tutta la notte: sentila, senti quanto è più bella
adesso.”
Era
vero.
Ma sarebbe stato vero anche per i successivi
settantanove cambiamenti cui
quella canzone sarebbe stata sottoposta. Settantanove o forse
più, è sempre
difficile riuscire a tenere il conto con il sistema nervoso a pezzi:
quella
canzone sarebbe diventata una hit ed un inno, ma allora ancora non
potevano
immaginarlo, per loro sarebbe solo e sempre rimasta la prova della
follia
perfezionista di Stone Gossard(7).
“Va
bene ragazzi, dateci un taglio,
mi sto cagando addosso quindi si riprende più
tardi.”
Mike
non era mai stato un ragazzo
che le mandava a dire, né che perdeva tempo
a cercare perifrasi: semplicemente si
sciolse dall’abbraccio della sua Les Paul – che
poggiò accuratamente sull’apposito
supporto – e corse in bagno. Lasciando tutti lì
interdetti.
“Uhm…
era diventato giallo
stavolta… Mi sa che gli ci vorrà più
tempo del solito.”
Ma
nessuno aveva riso alla mezza
battuta di Jeff, nemmeno lui: sapevano tutti Mike stesse male per
davvero, quel
morbo8 che gli stava mangiando
l’intestino e la giovinezza avrebbe
preteso un po’ più d’attenzione, ma il
chitarrista aveva solo ventitré anni e
poca voglia di contenersi.
Nessuno
di loro aveva molta
voglia di farlo, in realtà.
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